martedì 30 novembre 2021

La storia della stanza del pavone


 Nel 1876, l'armatore britannico Frederick Richards Leyland acquistò una grande casa al 49 di Princes Gate nel quartiere alla moda di Kensington a Londra. Poco dopo, incaricò l'architetto Richard Norman Shaw di ristrutturare e ridecorare la sua casa. La riprogettazione della sala da pranzo, invece, fu affidata al talentuoso architetto Thomas Jeckyll, noto per i suoi stili anglo-giapponesi.

Leyland aveva una vasta collezione di porcellane cinesi blu e bianche, principalmente dell'era Kangxi della dinastia Qing, che voleva esporre nella sua sala da pranzo. 

Per questi, Jeckyll costruì un'intricata struttura reticolare di mensole in noce intagliato e fuso, e le completò con pelle dorata anticata che appese alle pareti.

 Un dipinto dell'artista americano James McNeill Whistler, chiamato The Princess from the Land of Porcelain, occupava un posto ambito sopra il camino.

A quel tempo, lo stesso Whistler stava lavorando su un'altra parte della casa, supervisionando le decorazioni per l'ingresso. 

Quando Jeckyll chiese a Leyland quali colori usare per le persiane e le porte della sala da pranzo, Leyland gli suggerì di consultare Whistler sulle combinazioni di colori. 

Whistler pensava che i colori del bordo del tappeto e dei fiori sugli arazzi in pelle si scontrassero con i colori di The Princesse. 

Con il permesso di Leyland, Whistler si offrì di ritoccare le pareti con tracce di giallo.  Aggiunse un motivo a onde sul cornicione e la lavorazione del legno derivata dal design della porta in vetro piombato di Jeckyll.

 Leyland approvò questi cambiamenti e tornò ai suoi affari a Liverpool. Anche Jeckyll si ammalò e fu costretto ad abbandonare il progetto.

Solo e senza sorveglianza, Whistler iniziò a prendersi qualche libertà con la sala da pranzo.

 Ricoprì l'intera stanza, dal soffitto alle pareti, con metallo olandese, o finta foglia d'oro, su cui dipinse un lussureggiante motivo di piume di pavone.  Poi dorò le scaffalature in noce di Jeckyll e  abbellì le persiane di legno con quattro pavoni magnificamente piumati.


Quando Leyland tornò inaspettatamente nell'ottobre di quell'anno, rimase sbalordito nel trovare la sua sala da pranzo completamente trasformata, ma era più di quanto avesse chiesto. La pelle a motivi floreali sulle pareti era completamente dipinta e ogni superficie brillava di luminose sfumature di verde, oro e blu.

 Per aggiungere benzina sul fuoco, Whistler aveva invitato altri artisti e membri della stampa in casa per vederlo lavorare nella stanza, senza il permesso di Leyland. La goccia che fece traboccare il vasofu il conto che Whistler presentò a Leyland: £ 2000, una somma enorme a quel tempo. Leyland si rifiutò di pagare. 

Alla fine accettò di pagare la metà di quella cifra e  bandì Whistler da casa sua.



Ferito e offeso, Whistler pianificò una rappresaglia.

 Come tocco conclusivo del suo lavoro, Whistler disegnò un grande pannello, raffigurante una coppia di pavoni in lotta sulla parete di fronte alla Principessa , come allegoria del rapporto acida tra l'artista e il suo mecenate. Il pavone a sinistra rappresenta l'artista. Sulla destra è il mecenate avaro, distinguibile dalle monete scintillanti sul petto e sulle penne della coda. Anche un paio di monete sono sparse vicino ai suoi piedi. 

Per assicurarsi che Leyland capisse il simbolismo, Whistler chiamò il murale “Arte e denaro; o La storia della stanza.” 



Dopo aver terminato il suo lavoro, Whistler se ne andò per non vedere mai più la Peacock Room.

Leyland non ha mai affermato che gli piacesse la stanza, ma ha chiaramente riconosciuto qualcosa di valore perché non ha mai cambiato nulla nella stanza.

 Leyland tenne la sua sala da pranzo per 15 anni fino alla sua morte nel 1892. Nel 1904, l'industriale e collezionista d'arte americano Charles Lang Freer acquistò la Peacock Room, la smontò e la spedì attraverso l'Oceano Atlantico a Detroit, nel Michigan, dove la fece ricomporre in casa sua. 

Fonte: amusingplanet

lunedì 29 novembre 2021

La mussola di Dacca, l'antico tessuto che nessuno sa più come produrre


 Era così leggero da essere chiamato "aria tessuta". Così sottile e trasparente che, talvolta, le donne che lo indossavano venivano accusate di indecenza. Così difficile da produrre che il sapere necessario per produrlo è andato perso da tempo.

Circa 200 anni, tuttavia, la mussola di Dacca era il tessuto più prezioso e famoso del pianeta.

 Nell'Europa del tardo XVIII secolo, le donne delle classi sociali più elevate iniziarono ad essere accusate di andare in giro nude: la stoffa semi-trasparente era agognata da tutte ed era diventata sinonimo di prestigio.

La mussola di Dacca era importata dall'omonima città, in quello che oggi è il Bangladesh, allora conosciuto come Bengal.

 Oggi questo tipo di tessuto esiste ancora, ma non ha nulla a che fare con quello di un tempo. Due secoli fa esisteva un processo in 16 fasi, che impiegava un raro cotone raccolto sulle rive del sacro fiume Meghna. Oggi, però, il processo è dimenticato e quella rara pianta di cotone è estinta.

Si diceva che le mussole più pregiate fossero sottili e morbide quanto il vento.

 Nella lingua originale, "aria tessuta" si diceva baft-hawa. Un viaggiatore raccontava che un rotolo di 90 metri di questa stoffa poteva passare attraverso un anello.

 Tradizionalmente, essa veniva usata per fare saris jamas, ma in Europa contribuì a cambiare il panorama della moda degli aristocratici. Tra le altre, ne erano innamorate la regina Maria Antonietta, l'imperatrice Joséphine Bonaparte e la scrittrice Jane Austen.


All'inizio del XX secolo, tuttavia, la mussola di Dacca era già scomparsa. Ne rimanevano alcuni esempi nelle collezioni private più preziose e nei musei.

 La tecnica per produrla era già dimenticata da tempo. Il cotone da cui derivava, il Gossypium arboreum var. neglecta (conosciuto anche come Phuti karpas) si era estinto all'improvviso.

Le fibre del Phuti karpas, sfilacciabili con straordinaria facilità, venivano trasformate nel prezioso tessuto in un processo composto da 16 fasi, ognuna delle quali richiedeva competenze estremamente specifiche.

 La lavorazione veniva effettuata in molti villaggi differenti nei pressi di Dacca, in quello che si potrebbe quasi definire uno sforzo comunitario.

In Occidente faticavano a credere che la mussola di Dacca potesse essere fatta da un essere umano. Alcune leggende sostenevano che venisse tessuta da sirene, fate o addirittura fantasmi. C'era chi riteneva che venisse per forza lavorata sott'acqua. 

Secondo Saiful Islam, che ha avviato un'iniziativa per far tornare in vita il tessuto, le versioni odierne della mussola ha tra i 40 e gli 80 fili per pollice quadrato di tessuto. 

La stoffa originale ne aveva tra gli 800 e i 1200.


Furono gli inglesi a distruggere la produzione e il commercio del tessuto, che veniva venduto in tutto il mondo fin dall'alba dei tempi. Gli antichi egizi, greci e romani lo conoscevano già, e la sua esistenza è ricordata da diversi autori classici, tra cui Petronio.

 Nel 1793, però, la British East India Company si era aggiudicata il controllo dell'impero dei Moghul, e nel giro di un secolo la regione obbediva a un Raj britannico.

Anche se i londinesi dell'età vittoriana erano più che mai affascinati dalla mussola di Dacca, coloro che lo producevano vennero rapidamente mandati in rovina.

 La East India Company iniziò a intromettersi nel processo di produzione della preziosa stoffa, dando la priorità assoluta ai clienti britannici e facendo pressioni sugli artigiani per produrne il più possibile.

Man mano che gli europei diventavano sempre più avidi nei confronti del materiale, iniziarono ad essere prodotte versioni più economiche.

 Non avevano nulla a che fare con l'originale, ed erano prodotte con cotone normale. Ma il repentino declino della domanda e gli anni di maltrattamenti portarono i produttori di mussola a cambiare lavoro. Passarono poche generazioni prima che la preziosa conoscenza necessaria per produrre la mussola di Dacca venisse dimenticata per sempre.

 La pianta phuti karpas cominciò a sua volta ad essere ignorata, e se ne perse ogni traccia.

Saiful Islam, però, sta compiendo ogni sforzo per ritrovare la pianta (e ha già trovato un tipo di cotone che ne è quasi sicuramente un discendente) e per ricreare le abilità perdute. 

Fonte: wonews.it

domenica 28 novembre 2021

Le Logge di Raffaello alla corte degli zar

La copia della Loggia di Raffaello all'Hermitage, a San Pietroburgo (Russia): la Bibbia di Raffaello, ossia 52 storie dall'Antico e dal Nuovo Testamento, dalla Creazione alla Passione di Cristo affrescate negli archi semicircolari che dividono il soffitto. 

L'Ermitage, luogo ricco di fascino, intrighi e misteri, nasce come residenza imperiale dei Romanov, la famiglia che governò la Russia per oltre due secoli.
Il più antico e importante degli edifici che formano l'Ermitage (a San Pietroburgo) è il Palazzo d'Inverno, progettato, in stile barocco, dall'architetto italiano Bartolomeo Rastrelli.
 Fu 
Caterina la Grande che, dopo avere detronizzato il marito, Pietro III, nel 1762, decise di trasformare la residenza imperiale in qualcosa di unico, ornando le stanze con le migliori opere che potessero esistere. Incaricò il filosofo ed enciclopedista francese Denis Diderot
 di comprare tutti i capolavori possibili sul mercato, soprattutto in Francia: da quel momento in poi la zarina diventa la più grande collezionista di arte del mondo. Era inevitabile che prima o poi "incontrasse" anche Raffaello.



 Il 1 settembre del 1778 Caterina scrive al suo segretario, il barone Friedrich Mechior von Grimm, di aver visto delle stampe di Giovanni Volpato (importante incisore italiano di fine Settecento) che raffiguravano i soffitti delle Logge di Raffaello, a Roma.

 Rimasta colpita da questi ambienti, Caterina desiderò fortemente avere una copia di quegli affreschi a grandezza naturale, proprio lì nel suo palazzo di San Pietroburgo. Avvenne così che l'architetto italiano Giacomo Quarenghi progettò e realizzò in pochissimo tempo un ambiente che era la copia esatta delle Logge del Palazzo Apostolico, in Vaticano.

 Gli artisti della bottega di Cristoforo Unterperger, al tempo allievo di uno dei maggiori pittori neoclassici d'Europa, elaborarono invece, su tela, gli affreschi identici dei dipinti di Raffaello.

 Per anni lo studio di Unterperger fu una vera e propria fabbrica di copie delle Logge di Raffaello per volere della zarina di tutte le Russie, nonché una delle principali attrazioni nella Città Eterna.


Johann Wolfgang von Goethe, che si trovava a Roma nel settembre del 1787, fece in tempo ad ammirare le tele ancora fresche di vernice, pronte per essere imballate e spedite a San Pietroburgo.

 La preparazione della Loggia durò circa undici anni e richiese una grande attenzione nel riprodurre le decorazioni ornamentali e gli archi semicircolari che dividono il soffitto in segmenti rettangolari di uguale lunghezza. 

Gli affreschi, per un totale di cinquantadue narrazioni, ripercorrono la storia biblica, dall'Antico al Nuovo Testamento.

L'episodio di Caterina di Russia è quindi una testimonianza della immensa fortuna che ebbero, in Europa, fra il XVI e il XIX secolo, le Logge di Raffaello.

 Esse furono, per la storia dell'arte, una "scuola del mondo" perché influenzarono generazioni di artisti che le hanno considerate il modello assoluto al quale ispirarsi.

E le Logge di Caterina la Grande? Si conservano tuttora intatte nel Palazzo d'Inverno.

 Quando si dovettero restaurare per la prima volta gli affreschi delle Logge del Palazzo Apostolico Vaticano, in Roma, l'equipe di restauratori si recò nella stessa San Pietroburgo per studiarne i dettagli. A dimostrazione del fatto che la loro riproduzione era stata compiuta con minuzia e fenomenale abilità dagli artisti del '700.

Fonte: focus.it


giovedì 25 novembre 2021

Monte Roraima: “il mondo perduto” del Venezuela


 Si trova tra Venezuela, Brasile e Guyana il Monte Roraima, il più famoso tepuy della Gran Sabana, la misteriosa vetta immersa tra le nuvole e intorno a cui aleggiano leggende autoctone che affascinano tutti gli scalatori del mondo.

Il fascino del luogo era già conosciuto in epoca vittoriana, tanto che il celebre scrittore Arthur Conan Doyle immaginò nel suo “Il mondo perduto” che qui fossero riusciti a sopravvivere addirittura i dinosauri. 
Non si allontanò poi di molto dalla verità perché le caratteristiche del luogo e l’isolamento prolungato hanno generato uno scrigno di biodiversità che oggi viene tutelato dal Parco Nazionale dei Canaima.

Il Monte Roraima è detto anche Tepuy di Roraima o Cerro Roraima e dalla lingua Pemon si traduce con “cima verde”, la sua peculiarità sta proprio nella punta dalla forma anomala, diversa da come siamo abituati a immaginare la cima di una montagna perché è completamente piatta.
Questa cima piatta misura 31 chilometri quadrati e proprio qui convergono i confini di Guyana, Brasile e Venezuela, in quello che viene definito “triple point”, mentre il punto di maggior rilievo prende il nome di “Maverick rock”.

La forma della montagna è caratteristica di quelli che dagli indigeni vengono chiamati tepuy, cioè le case degli dèi, e con cui indicano gli altopiani che svettano nella regione sudamericana della Gran Sabana.
Il Monte Roraima raggiunge l’altitudine di 2810 metri ma il tepuy più alto della Gran Sabana è quello del Pico Neblina che si erge per 3045 metri al centro della giungla amazzonica, ed è stato scoperto solamente grazie all’uso di ricognizioni aeree e radar che sono stati in grado di individuarlo nella perenne nebbia che lo avvolge.

I tepuy, secondo le stime risalgono al periodo Precambriano, tra 2,5 e 1,9 miliardi di anni fa, e sono il risultato di milioni di anni di erosione che hanno eroso tutte le rocce circostanti, lasciando solo questi possenti massicci, che sono composti prevalentemente da quarzite e arenaria, che emergono dal substrato di base formato principalmente da granito.

Come altri tepuy anche il monte Roraima spesso emerge con la sua cima piatta da una fitta coltre di nuvole che lo fanno apparire come un’isola immersa in un candido mare. In effetti, l’accostamento simbolico con il concetto di isola non è del tutto erroneo in quanto proprio con le isole i tepuy condividono alcune caratteristiche.


I tepuy sono infatti separati dagli ambienti che li circondano e questo isolamento in natura spesso genera differenze ed endemismi, cioè specie animali o varietà vegetali che sono proprie di un determinato territorio. 

Anche qui si trova una flora e una fauna che non si rintraccia in altre parti del mondo.

Nel corso del tempo sono state rintracciate centinaia di specie che presentano peculiari caratteristiche ed è più che probabile che molte altre ne vengano scoperte in futuro.
La prima spedizione che ebbe successo nell’esplorazione del Roraima risale al 1884, quando in botanico ed esploratore della Royal Geographical Society, Sir Everard Im Thurn, fu inviato per compiere ricerche scientifiche in quello che veniva considerato quasi un mondo perduto.

In effetti condizioni come la posizione remota, l’isolamento generato dalla presenza della foresta pluviale che lo avvolge e le peculiari condizioni ambientali, hanno portato l’altopiano a sviluppare una propria biodiversità.

Tra gli esemplari di piante e animali che vivono solamente qui vi sono alcune orchidee e piante carnivore, ma anche le minuscole rane nere, che incapaci di saltare per sfuggire ai predatori si spostano trasformandosi in palle rotolanti.

 Sulla cima del Roraima, inoltre, si trova “la valle dei cristalli”, un’area completamente ricoperta di quarzi.


Proprio quest’aura di impenetrabilità del Monte Roraima, difficilissimo da raggiungere anche agli stessi indigeni Pemòn, gli valse una strana aura leggendaria e molti si convinsero che non si poteva escludere l’ipotesi che vi si trovassero degli animali primordiali, persino i dinosauri.

Fantasticare su questo luogo straordinario portò lo scrittore Arthur Conan Doyle (il creatore di Sherlock Holmes) ad ambientare in un luogo del tutto simile il suo romanzo “Il mondo perduto” in cui immaginava che proprio in un inaccessibile altopiano della Guyana fossero riusciti a sopravvivere animali preistorici e dinosauri.


La leggenda locale invece narra che un tempo questo luogo ospitasse una sorta di paradiso terrestre ricco di corsi d’acqua. Un giorno proprio sulla sua cima pianeggiante nacque un banano di cui Paaba, il dio creatore, proibì a tutti gli abitanti di mangiarne i frutti. Qualcuno, tuttavia, osò avvicinarsi al sacro albero e sottrarre un casco di banane.

La furia della natura si abbatté su uomini e animali che provarono a darsi alla fuga prima che il terreno si sollevasse così in alto da creare il Monte Roraima.

 Anche i fiumi si sollevarono e ancora oggi lungo le pendici dei tepuy sgorgano corsi d’acqua che gli indios chiamano “lacrime di Dio”.
Il nome di questo tepuy in particolare dall’indigeno è traducibile più o meno con “la madre di tutte le acque” perché proprio dalla sua vetta le cascate che si formano danno origine alla maggior parte dei corsi d’acqua che scendono dalla montagna attraverso alte cascate che vanno verso il Rio delle Amazzoni, l’Orinoco e gli altri fiumi della Guyana.

Un altro tepuy molto celebre è l’Auyantepui da cui nasce Salto Angel, la cascata più alta del mondo.

Fonte:meteoweb.eu


domenica 21 novembre 2021

Il Castello di Bran in Transilvania e la leggenda del Conte Dracula


 Questo castello, dai tipici tratti dell’architettura gotica, si presenta come una roccaforte invalicabile in cima al monte sul quale venne costruito. Da qui svetta sulla vallata che si stende tutt’attorno con la sua mole in pietra, massiccia e severa, le sue torri ed i tetti tronco-conici con tegole rossastre.

 Quelli che oggi sono gli ambienti del Museo d’Arte Medievale, raggiungibili tramite strette scalinate, lunghi corridoi e passaggi segreti, era in realtà un avamposto che permetteva di avere un’ottima visuale sul confine tra i diversi territori ed il luogo in cui venivano pagati i dazi per poter attraversare le due giurisdizioni.


Le sue fattezze sono state spesso rimaneggiate nel corso dei secoli, infatti, durante la visita, è possibile notare negli ambienti la commistione dei diversi stili che nel tempo lo hanno interessato. La struttura è suddivisa in quattro piani: il più basso, quello rimasto pressoché simile a come doveva apparire nel Medioevo, adibito a sotterraneo; il primo piano destinato alla servitù, con ampie camere dagli arredi spartani;  il secondo occupato dalla Regina Maria di Sassonia e da sua figlia Ileana, dal mobilio massiccio e più ricercato, con drappi e corredi preziosi ed infine il terzo piano destinato al consorte, il Re Ferdinando I di Romania, molto più lussuoso e da cui si gode di una strepitosa vista panoramica.



Il legame con Vlad III di Valacchia, o Vlad Tepes (“L’impalatore”), lo si deve alla sua permanenza in questa roccaforte per un breve periodo, al fine di sorvegliare i propri possedimenti. 

In realtà la residenza storicamente accreditata del Principe (“voivoda” in rumeno) si trova ad Arefu, ad un centinaio di chilometri ad Ovest di Bran, sulla vallata del fiume Arges, conosciuta come Fortezza di Poenari di cui oggi restano alcuni ruderi molto scenografici.

La fama del crudele Vlad, storicamente esistito e vissuto a cavallo tra il 1431 ed il 1477, è dovuta alla cruenta morte che destinava ai suoi nemici, ovvero per impalamento e per questo conosciuto come il sanguinario conte di Valacchia. Difatti, quando egli si ritrovò a dover riconquistare i territori della Transilvania, adottò misure alquanto severe per gli oppositori: sterminandoli tutti a seguito di indicibili torture ed impalando dapprima i nobili e poi i cittadini sostenitori della casata nemica.

Il “soprannome” Dracula, significa letteralmente “figlio di Dracul”. In effetti, suo padre Vlad II era un “Dracul”, ovvero appartenente alla casata nobiliare dei “Del Drago”, dal quale proveniva l’appellativo “Dragonul”, storpiato poi in “Dracul” nella lingua locale, che invece significa “Il Diavolo”. Pertanto vi fu un sostanziale errore linguistico tra “Dragonul”, “Il Drago”, e “Dracul”, “Il Diavolo”, avvalorato dalla fantasia locale che vedeva nell’emblema presente sullo stemma familiare un grosso mostro minaccioso scambiato per  il demonio.

 Da qui si diffuse la tradizione secondo cui “Dracula”, ovvero Vlad III “figlio di Dracul”, fosse in realtà la personificazione di un diavolo, crudele, sanguinario e capace di cattiverie inenarrabili.


La storia moderna, poi, ha cavalcato l’onda del folklore e, a seguito dell’uscita del celebre romanzo “Dracula” (1897) dello scrittore irlandese Bram Stoker, si è alimentata la leggenda secondo cui il conte Vlad III di Valacchia fosse un mostro assetato di sangue. Contrariamente alla visione popolare di questo personaggio, per il popolo rumeno fu invece un valoroso condottiero nel periodo buio del Medioevo, capace di difendere i territori e le ricchezze di uno Stato anche a costo di sterminare ogni singolo nemico.

Questo luogo, come altri numerosi castelli che caratterizzano la Romania, è avvolto da un’atmosfera particolare, carica di fascino e mistero allo stesso tempo, ricco di storia e cultura che va oltre le celebri leggende qui ambientate.

Fonte: viaggiandonellabellezza


sabato 20 novembre 2021

Questa straordinaria coppa romana cambia colore in base a come viene colpita dalla luce


 L'incredibile Coppa di Licurgo è un manufatto di epoca romana, risalente al IV secolo.

 La coppa diatreta (che consiste di un contenitore interno e di una gabbia o un guscio decorativo esterno che si distacca dal corpo della coppa) è costruita con vetro dicroico.

 Questo tipo di vetro ha delle proprietà ottiche molto particolari.

La coppa di Licurgo, infatti, cambia colore in base al modo in cui la luce la colpisce: è di un rosso sangue quando è illuminata da dietro, e verde quando è illuminata frontalmente.

 La coppa di Licurgo è l'unico oggetto romano integro completamente costituito da questo tipo di vetro, e mostra una serie di figure tra cui il mitico Licurgo, re di Tracia.

 Secondo la mitologia, Licurgo cercò di uccidere Ambrosia, seguace di Dioniso (Bacco per i Romani). Ambrosia venne trasformata in un vitigno, che si attorcigliò intorno a Licurgo fino ad ucciderlo. Il vaso ritrae proprio questa scena, oltre a Dioniso e a Pan che si fanno beffe del destino del re.



L'incredibile effetto dicroico fu realizzato inserendo nel vetro alcune nanoparticelle di oro e argento

In realtà non è ben chiaro quale processo fu utilizzato, e c'è chi pensa che in realtà non lo sapessero neanche i fabbricatori della coppa. Forse, anzi, l'effetto può essere stato prodotto accidentalmente, con la contaminazione non intenzionale del vetro con nanoparticelle di oro e di argento.

 Le particelle hanno dimensioni minuscole, di circa 70 nanometri, e sono visibili soltanto con un microscopio elettronico a trasmissione.

Fonte: fattistrani.it


Archeologi rivelano come gli Assiri conquistarono Israele: tecniche e tattica militare di un’antica superpotenza


 I ricercatori sono riuscita a ricostruire le tattiche e il modo in cui l’esercito assiro è riuscito a costruire la mastodontica rampa d’assedio usata per conquistare la città giudea di Lachish nel 701 a.C. 

A ricostruire questo frammento della storia dell’umanità è stato un team di archeologi guidato dall’Università Ebraica di Gerusalemme ed i loro risultati sono stati pubblicati su Oxford Journal of Archaeology.

Come è noto, il popolo assiro è stato tra le grandi ‘superpotenze’ del Vicino Oriente, tanto che controllavano un territorio enorme che andava dall’Iran all’Egitto.

 Le tecnologie militari che utilizzavano, all’avanguardia, e li hanno aiutati a vincere tutte le battaglie in campo aperto o a penetrare in qualsiasi città fortificata che prendessero di mira.

 Nel IX-VII secolo a.C. il vantaggio tattico bellico di un esercito dipendeva dalla rampa d’assedio, ovvero una struttura elevata che trasportava rampe di assalto fino alle mura della città nemica e che ha permesso ai soldati neo-assiri di devastare le strutture avversarie.


Costruita in Israele, la rampa d’assedio assira di Lachis è l’unico esempio fisico sopravvissuto della loro abilità militare in tutto il Vicino Oriente. 

I ricercatori, facendo riferimento ad un ampio numero di fonti su questo evento storico, sono riusciti a fornirne un quadro completo. L’eccezionale quantità di dati include testi biblici, iconografia, iscrizioni accadiche, scavi archeologici, e fotografie di droni del 21 secolo. 

Lachis era una fiorente città cananea del secondo millennio a.C. ed era stata la seconda città più importante del Regno di Giuda. Nel 701 a.C. Lachis fu attaccata dall’esercito assiro, guidato dal re Sennacherib.

L’analisi di Yosef Garfinkel, professore dell’Istituto di Archeologia dell’Università Ebraica di Gerusalemme (HU), ha fornito un vivido resoconto della costruzione della massiccia rampa che fu costruita dagli assiri, in modo che potessero trasportare arieti fino alla città collinare di Lachis, violare le sue mura e invadere completamente la città. 

Ci sono state diverse opinioni contrastanti su come è stato realizzato il formidabile compito di costruire la rampa. Tuttavia, il metodo rigoroso impiegato da Garfinkel e dal suo team, compresa l’analisi fotogrammetrica delle fotografie aeree e la creazione di una mappa digitale dettagliata del relativo paesaggio, ha prodotto un modello pratico che tiene conto di tutte le informazioni disponibili su quella battaglia.

 Secondo Garfinkel, le prove sul sito hanno chiarito che la rampa era fatta di piccoli massi, di circa 6,5 kg ciascuno. Un grosso problema affrontato dall’esercito assiro era la fornitura di tali pietre, poiché erano necessarie circa tre milioni di pietre. La raccolta di pietre naturali dai campi intorno al sito richiederebbe molto tempo e rallenterebbe la costruzione della rampa.

Una soluzione migliore sarebbe quella di estrarre le pietre il più vicino possibile all’estremità opposta della rampa. “A Lachish c’è davvero una scogliera esposta del substrato roccioso locale esattamente nel punto in cui ci si aspetterebbe che sia“, ha condiviso Garfinkel. 

Secondo quanto dedotto grazie alla ricerca, la sua costruzione sarebbe iniziata a circa 80 metri di distanza dalle mura della città di Lachis, vicino a dove si potevano estrarre le pietre necessarie per la rampa. 

Le pietre sarebbero state trasportate grazie a catene umane, ovvero passate di mano in mano. Con quattro catene umane che lavorano in parallelo sulla rampa, ciascuna attiva 24 ore su 24, Garfinkel ha calcolato che ogni giorno venivano spostate circa 160.000 pietre.


Il tempo era la principale preoccupazione dell’esercito assiro. Centinaia di operai lavoravano giorno e notte trasportando pietre, possibilmente in due turni di 12 ore ciascuno. La manodopera era probabilmente fornita dai prigionieri di guerra e dai lavori forzati della popolazione locale. Gli operai erano protetti da massicci scudi posti all’estremità settentrionale della rampa. Questi scudi venivano fatti avanzare verso la città di pochi metri ogni giorno“, ha descritto Garfinkel. 

Nella fase finale, le travi di legno sono state posate sopra le pietre, dove sarebbero stati posizionati in modo sicuro gli arieti all’interno delle loro massicce macchine d’assedio del peso di 1 tonnellata. L’ariete, una grande e pesante trave di legno con una punta di metallo, colpiva le pareti venendo fatto oscillare avanti e indietro.


Garfinkel ha suggerite che l’ariete fosse sospeso all’interno della macchina d’assedio su catene metalliche, poiché le corde si sarebbero consumate rapidamente. In effetti, una catena di ferro è stata trovata in cima alla rampa di Lachis. Per avere ulteriori conferme, Garfinkel ha spiegato che sta “pianificando scavi a Lachis, all’estremità della rampa nell’area della cava. Questo potrebbe fornire ulteriori prove dell’attività dell’esercito assiro e di come è stata costruita la rampa”.

Fonte: meteoweb.eu

giovedì 18 novembre 2021

La Mappa su un uovo di struzzo è la più antica rappresentazione del Nuovo Mondo


Se la prima mappa a rappresentare il continente americano è quella di Juan de la Cosa, realizzata nel 1500, e la prima in cui il nome America sembra identificarlo è la cosiddetta Universalis Cosmographia di Martin Waldseemüller, del 1507, il primo globo che mostrava il Nuovo Mondo fu creato nientemeno che da Leonardo da Vinci nel 1504.

Tuttavia, che fosse opera di Leonardo non si sapeva quando il 16 giugno 2012 fu scoperto alla fiera cartografica londinese organizzata dalla Royal Geographical Society. Un commerciante olandese stava cercando di venderlo come se fosse un oggetto del XIX secolo, e in seguito avrebbe affermato di averlo appena acquistato lo stesso giorno da un altro collega, quindi la provenienza del manufatto rimane sconosciuta.


 Il fortunato acquirente del mappamondo, il ricercatore Stefaan Missinne, sarebbe giunto alla conclusione (come espone nel suo libro The Da Vinci Globe ) che si trattasse dell'opera del celebre artista rinascimentale basandosi sul fatto che Leonardo avrebbe realizzato un disegno per il globo nel 1503, che si trova nel Codex Arundel.

Un altro disegno, della nave mostrata sulla mappa a sud dell'Oceano Indiano, è presente in un codice di Francesco di Giorgio Martini datato 1487-90, e proprio il proprietario di questo codice era lo stesso Leonardo.

 È l'unico libro sopravvissuto della vasta biblioteca di Da Vinci, e quindi l'unico che contiene annotazioni nella sua stessa calligrafia.


Secondo i ricercatori, sia i dettagli pittografici che il modo di applicare le incisioni (realizzate da un mancino) indicano Leonardo come suo autore. In questo senso la mappa del globo presenta, secondo Missinne e Geert Verhoeven, un esempio di prospettiva inversa, una forma di anamorfosi di cui il primo esempio noto è anche attribuito a Da Vinci.

Inoltre, sul recto della pagina 331 del Codice Atlantico , che risale al 1504, Da Vinci scrisse: el mío mappamondo che ha Giovanni Benci (il mio globo che ha Giovanni Benci), sottintendendo che avesse creato un globo. Oggi non è solo il più antico mappamondo inciso che conosciamo, ma anche il più antico a rappresentare l'America, come dicevamo all'inizio.

Nelle parole di Missinne e Verhoeven:

Mentre viveva a Firenze nel 1504 Leonardo aveva accesso non solo alle mappe più recenti, ma a molte altre fonti di conoscenza come le tecniche di incisione e fusione. Incidendo questi gusci d'uovo di struzzo molto esotici e costosi, ha voluto sottolineare la nascita del quarto continente: l'America. Nonostante sia intitolato ad Amerigo Vespucci, il nome che compare sul globo è Mundus Novus (Nuovo Mondo), esattamente come lo aveva chiamato Vespucci.

Fonte:  amusingplanet.com