sabato 16 maggio 2020
La sera dei 31 maggio 1944 un incendio al museo di Nemi distrusse le navi romane di Caligola
Il recupero delle due navi di Caligola, affondate nel piccolo lago di Nemi, fu un’impresa molto complessa, che richiese cinque anni di lavoro, dal 1928 al 1932, e probabilmente rappresentò la più grande opera di recupero archeologico subacqueo mai compiuta sino ad allora.
Le grandi navi, che rimasero per 1900 anni sul fondo di quello che in età romana veniva chiamato Speculum Dianae (lo specchio di Diana), il lago Nemi, sono un esempio di tecnologia molto avanzata, tanto che per lungo tempo si ritenne che fossero di età posteriore.
La nave più grande era in sostanza un palazzo galleggiante, ornato da marmi e mosaici, dotato di bagni e riscaldamento.
Uno degli aspetti più affascinanti della storia delle navi è che si trasformò in leggenda: la loro presenza sul fondo del lago era narrata fin dal I secolo dC., e nel corso dei secoli si continuò a parlare di due grandi navi romane affondate nello specchio d’acqua: la leggenda del lago di Nemi.
Il laghetto di origine vulcanica, di soli 1,67 chilometri quadrati, si trova poco distante da Roma, sui Colli Albani, circondato da boschi e paesaggi meravigliosi: una delle mete di villeggiatura preferite dagli antichi romani, ma anche luogo di culto dedicato a Diana, la dea della caccia.
Non si sa con certezza cosa spinse Caligola a costruire delle navi così grandi, destinate a non navigare, per un lago così piccolo; proprio le loro dimensioni (70 x 20 e 73 x 24 metri ) fanno pensare che si trattasse di palazzi galleggianti, usati come luogo di svago e vacanza, il lusso di un imperatore capriccioso e spendaccione.
Gli storici avanzano ipotesi differenti: secondo alcuni la prima nave era un tempio galleggiante dedicato a Diana, mentre la seconda era un rifugio per il despota dai mille vizi.
Altri sostengono che Caligola costruì le navi per dimostrare la supremazia di Roma su siracusani ed egiziani, mentre per altri ancora venivano usate per simulare battaglie navali.
Lo storico romano Svetonio (molto posteriore a Caligola) fece una descrizione delle due navi: per la struttura legno di cedro, e poi innumerevoli e preziose decorazioni. Le prue come gioielli, sculture ruotanti su sfere di piombo, vasi d’oro e d’argento, vele di seta viola, bagni di bronzo e alabastro sono solo alcuni dei lussi voluti da Caligola.
Il giovane imperatore fu assassinato, a soli 28 anni, nel 41 dopo Cristo, da alcuni pretoriani, per ordine del Senato romano, probabilmente a causa della sua sconsiderata gestione delle casse dello stato, oltre che per la sua (presunta) crudeltà e dissolutezza.
I senatori, spesso umiliati da Caligola, odiavano a tal punto quel giovane despota che per cancellarne il ricordo fecero distruggere le opere da lui costruite.
Fra queste anche le navi di Nemi, che furono fatte affondare.
La gente del luogo, ed in particolare i pescatori, hanno sempre saputo della presenza di questi relitti, perché nel corso dei secoli sono affiorati molti reperti, mentre altri erano “pescati” con l’ausilio di rampini.
Il primo tentativo di recupero, nel 1446, fu affidato a Leon Battista Alberti dal Cardinale Prospero Colonna, ma fu un fallimento, seguito da diversi altri nei secoli successivi.
Il recupero andato a buon fine, voluto a scopo propagandistico dal governo fascista di Benito Mussolini, richiese cinque anni, con il drenaggio di parte delle acque del lago, effettuato grazie ad un tunnel sotterraneo di epoca romana, che collegava il lago con i terreni agricoli della zona.
L’impresa riuscì grazie all’interessamento gratuito dell’ingegner Guido Uccelli e alla fornitura della strumentazione necessaria da parte della Riva Calzoni di Milano, uno dei gioielli dell’industria meccanica di precisione italiana di inizio-metà ‘900.
Con l’abbassamento di oltre 20 metri del livello del lago, finalmente dopo 1900 anni, le navi rivedevano la luce, anche se molto danneggiate dai precedenti tentativi di recupero.
Dopo nemmeno dodici anni dalla conclusione dell’immane lavoro, nella notte fra il 31 maggio e il 1° Giugno del 1944, le navi furono distrutte, all’interno del Museo di Nemi, da un incendio di origine dolosa, con ogni probabilità provocato dai soldati tedeschi che presidiavano la zona.
La storia dell’incendio è una delle pagine più tristi della conservazione dei beni culturali italiani della Seconda Guerra Mondiale, e dimostra bene il dramma della guerra e dei soldati in fuga dai territori italiani, incalzati dagli alleati.
Il 28 Maggio i soldati tedeschi giunsero nei pressi del museo di Nemi, portando con sé 4 cannoni di artiglieria.
Il comandante della truppa, un tenente, fece allontanare i 4 custodi e le loro famiglie, che trovarono riparo nelle caverne naturali a circa 300 metri dal museo.
Il 29 e 30 Maggio la batteria dei tedeschi venne individuata dai soldati alleati, che bombardarono la zona antistante il museo, senza causare danni all’edificio, all’interno del quale i militari nel frattempo avevano trovato riparo.
La sera del 31 Maggio si svolse un grande conflitto a fuoco, che vide gli alleati cannoneggiare i dintorni del museo sino alle 20.15, secondo quanto riportato dal capo custode Giacomo Cinelli.
Alle 21.20 i custodi osservarono un lume aggirarsi all’interno del museo, e poi alle 22.00, un’ora e tre quarti dopo la fine dei bombardamenti, il fuoco divampò all’interno dell’edificio, mandando in cenere un’eredità culturale romana custodita dalle acque del lago di Nemi per quasi due millenni.
Il 1° Giugno il museo risultò interamente distrutto, e i nazisti abbandonarono la postazione il 2 Giugno. Due giorni dopo gli statunitensi giunsero infine al museo, ma per le navi romane non c’era più nulla da fare.
Scrive
Giuseppina Ghini nel suo: Museo delle Navi Romane – Santuario di Diana – Nemi:
“Una commissione appositamente creata giunse alla conclusione che con ogni verisimiglianza l’incendio che distrusse le due navi fu causato da un atto di volontà da parte dei soldati germanici che si trovavano nel Museo la sera dei 31 maggio 1944″.
Fonte: vanillamagazine.it
Ezio Bosso e la teoria delle 12 stanze
“C’è una teoria antica che dice che la vita sia composta da dodici stanze.
Sono le dodici in cui lasceremo qualcosa di noi, che ci ricorderanno.
Dodici sono le stanze che ricorderemo quando passeremo l’ultima. Nessuno può ricordare la prima stanza perché quando nasciamo non vediamo, ma pare che questo accada nell’ultima che raggiungeremo.
E quindi si può tornare alla prima. E ricominciare”.
Ezio Bosso lo aveva detto presentando il suo primo disco solista di pianoforte: “The 12th Room”, un concept album composto da due CD.
Nella sua stessa vita si era aperta una stanza che gli aveva fatto conoscere Helena Blavatsky, “una teosofa che tra i suoi libri cita frammenti del libro tibetano proibito o maledetto che si chiamava proprio ‘Libro delle 12 stanze’, un libro perduto che racchiude il pensiero di cui scrivevo all’inizio”.
Scriveva ancora Bosso: “La parola stanza significa fermarsi, ma anche affermarsi. E' una parola così importante eppure non ci pensiamo mai. La diciamo e basta. Le abbiamo inventate. Le abbiamo costruite quando abbiamo trovato finalmente un posto dove fermarci.
E gli abbiamo dato nomi, numeri e significati, a volte poetici: la stanza dei giochi, la stanza della musica, la stanza dei sogni. La stanza della luce o la stanza cieca.
Altre volte pratici: la sala, il salone, la stanza da bagno, la cucina. Sono infinite le stanze, ma non ci pensiamo mai”.
Le stanze rappresentano le fasi della nostra vita ed i sentimenti che le accompagnano. Il dolore, l’amore, la rabbia, la felicità, la serenità, la pace.
ROBERTA RAGNI