giovedì 14 novembre 2019

Il lago Gerundo e il drago Tarantasio


Provate solo un istante a concentrarvi su Google Maps o su una vecchia carta geografica e focalizzatevi sulla grande città metropolitana di Milano. 
Ora scendete un poco verso sud-est e fermatevi in corrispondenza del grande bacino idrografico formato dagli affluenti alpini di destra del Po: Adda, Lambro, Serio e Oglio. 
Molto bene. Quello che potete vedere è un fitto reticolato di corsi d’acqua naturali come i sopracitati e una serie di canali, di cui alcuni artificiali, creati nel corso dei secoli dalla mano dell’uomo al fine di poter irrigare al meglio le infinite campagne padane.
 In poche parole una sovrabbondanza di oro azzurro: l’acqua.


 E proprio dall’acqua parte la nostra storia. In questa vasta area infatti si hanno notizie di un grande bacino lacustre chiamato in tempi antichi Lago Gerundo e attualmente scomparso.
 Un grande specchio d’acqua di oltre 200 km, 2 di superficie e di una profondità massima di 10 metri. 
Andando più nel dettaglio locale, il lago era il cuore blu pulsante delle odierne Province di Lodi, Cremona e Bergamo.
 Curiosamente la sua forma può somigliare al grande cranio di un essere preistorico o di un alligatore che pare tuffarsi a capofitto sul placido Po che scorre ai suoi piedi.
 E fra poco vedremo come la scelta dell’alligatore come paragone sia tutt’altro che casuale. 

Ma per il momento torniamo al nostro lago arcaico.

 I primi accenni al lago (o mare) Gerundo risalgono all’epoca romana (se ne fa riferimento, ad esempio, nelle opere di Plinio il Vecchio) ma le descrizioni più dettagliate si hanno nel periodo medievale, negli scritti dello storico del VII secolo d.C. Paolo Diacono e di altri cronisti dell’epoca. 
Originatosi con tutta probabilità in seguito al ritiro dei ghiacciai durante il Pleistocene, il Gerundo si formò al di sopra di un’ampia zona ghiaiosa grazie alle esondazioni dei fiumi Adda, Serio e Oglio.


Il lago, che già a partire dal XI secolo d.C. andò riducendosi di estensione, si prosciugò definitivamente nel corso del XII secolo d.C. 

Tra le cause più accreditate di questa “misteriosa” scomparsa vi sono le ingenti opere di bonifica intraprese dai monaci cistercensi, benedettini e cluniacensi prima e dal comune di Lodi poi.

 Più che un vero e proprio lago, è probabile che il Gerundo fosse un insieme di paludi e acquitrini collegati dalle frequenti esondazioni dei fiumi circostanti. 
Ma come detto, questo bacino compensava la scarsa profondità con un’estensione ragguardevole. 

Pur essendo difficile tracciare dei confini precisi, nel momento della sua massima ampiezza arrivò a spingersi a Nord fino a Brembate, in Provincia di Bergamo, e a Sud fino a Pizzighettone, vicino a Cremona, lambendo con le sue acque la città di Lodi a Ovest e Grumello Cremonese a Est. 

Al suo interno, il lago conteneva una lunga striscia di terreno, detta isola della Mosa o Fulcheria, sulla quale in un periodo compreso tra il IV e il VI secolo d.C. fu edificata Crema. 

Testimonianze storiche del lago Gerundo, un nome che forse deriva dal termine ghiaia, di cui la zona era particolarmente ricca, sono rintracciabili nella toponomastica di molti paesi della zona dell’Adda e del pavese o, in maniera ancora più esplicita, nei nomi di vie o piazze, come ad esempio a Zelo Buon Persico, dove si trova tutt’oggi una piazza Lago Gerundo.

 Sul nome, fra l’altro, negli anni si sono accavallate diverse teorie. Secondo alcuni storici locali il termine potrebbe derivare dal greco “gyrus” (spira, curva), con riferimento ai meandri fluviali che abbondano nell’area. 
Mentre un’ipotesi più fantasiosa farebbe derivare il termine Gerundo dal greco Ăchĕrōn, ossia Acheronte, un fiume infernale nella mitologia greca, poiché il lago sarebbe dovuto essere paludoso, e quindi inospitale e malsano.

 Ed è in questo contesto fatto di acquitrini nebbiosi e inquietanti che è nata la leggenda del drago Tarantasio, una specie di mostro antidiluviano dal corpo di serpente, la grande testa cornuta di sauro, la lunga coda e le zampe palmate, con le sue varianti e i suoi particolari, tali da far impallidire i miti di Nessie e Larry, il mostro di Loch Ness e il mostro di Colico .

Recandosi nei luoghi sopracitati si riesce ancora a capire da dove derivi il nome “Tarantasio” e trovare traccia dei suoi misfatti nella tradizione orale e scritta.
 Esiste infatti una località chiamata Taranta, una piccola frazione tra Fara D’Adda e Cassano D’Adda che reclama insistentemente i natali della creatura. 
Ma non solo. Andando a investigare nella toponomastica di frazioni e piccoli comuni di questa area geografica troviamo innumerevoli vie “della bissa”, vale a dire della biscia o del serpente. 

Pare infatti che Tarantasio fosse una “viverna” ovvero, nella classificazione operata dal naturalista cinquecentesco Ulisse Aldrovandi, un particolare tipo di drago a forma di serpente con due zampe e due piccole ali, ed è sicuro che, come tutti i draghi, egli considerava gli esseri umani ed in particolare i bambini, le proprie prede preferite, aspettando ogni occasione propizia per uscire dall’acqua e compiere le sue temute scorrerie catturandone qualcuno. 


 Narra la leggenda che dopo la morte di Ambrogio, vescovo di Milano, un drago avrebbe insidiato la città meneghina, divorando gli incauti cittadini che osavano mettere il naso fuori dalle mura. Fu il nobile Uberto Visconti, armato di coraggio, il solo uomo ad affrontare il mostro e ad ucciderlo presso Calvenzano, dalle parti di Bergamo, con un colpo netto di sciabola.


 Da allora il biscione con un giovinetto in bocca compare nello stemma della città e della potente famiglia Visconti che vi regnò per lungo tempo. 


Vi sono poi diverse leggende, fra cui quella che ci narra le gesta di San Cristoforo, coinvolto su invocazione del vescovo di Lodi, nel prosciugamento del lago Gerundo per far sì che il drago fosse rinvenuto cadavere, come pure vi è quella che vede San Giorgio, spesso rappresentato come cacciatore di draghi nell’iconografia giudaico-cristiana, nel ruolo di colui che pose fine alle scorribande di Tarantasio. 
Ma la storia che più ci fa sentire vicini a quanto successe in quell’epoca remota sulle sponde del Gerundo è quella che ci narra del predicatore San Colombano, anch’egli famoso cacciatore di draghi, che arrivò in Italia proveniente dal Nord Europa.


Colombano, divenuto monaco quando ancora era un ragazzo, partì dall’Irlanda all’età di cinquant’anni. Insieme a dodici compagni iniziò a percorrere l’Europa diffondendo con la parola ed il proprio comportamento l’idea di una rinnovata ricerca di vera spiritualità. Giunto finalmente in Italia entrò in contatto con il re longobardo Agilulfo, dal quale ricevette l’incarico di occuparsi della “questione“ di Tarantasio.

 Una volta arrivato sulle sponde del lago il predicatore utilizzò le sue arti per attirare il mostro fuori dalle acque, che costituivano il suo naturale elemento, per affrontarlo ad armi pari. Trovatosi così all’asciutto il drago cercò subito di ghermire Colombano, ma non fu abbastanza veloce, tanto che il cacciatore ebbe modo di scansarsi per tempo e di colpirlo con il suo lungo bastone. 
Ferito gravemente, Tarantasio ricadde nel lago ed in breve scomparve tra i flutti facendo perdere le proprie tracce per un lungo periodo.


 Dopo parecchi mesi, in una località molto più a valle rispetto a quella dove si svolse il combattimento, fu rinvenuta un’enorme carcassa che venne subito attribuita al mostro scomparso.
 Oggi, nella zona, le città fanno a gara per accreditarsi come i custodi dei “veri” resti del drago. 
Alcuni sostengono che la tomba dell’essere mostruoso sia situata sull’isolotto Achilli, visibile attraversando il ponte sull’Adda a Lodi.
 Altri resti dello scheletro sarebbero stati conservati nella chiesa di Sant’Andrea a Lodi fino al 1700. 
Esistono numerose testimonianze scritte della presenza dello scheletro all’epoca. 

Inoltre, una costola faceva bella mostra di sé nella chiesa di San Cristoforo, sempre a Lodi, appesa alla volta fino all’inizio delle campagne napoleoniche in Italia nell’Ottocento.




Un medico di Lodi, tale Gemello Villa, riuscì ad esaminare la cosiddetta costola e nel suo referto scrisse che aveva “la lucidità delle ossa fresche”, sollevando così qualche dubbio sul fatto che fosse anche un semplice reperto fossile.

 Questa è l’ultima testimonianza dei resti del Tarantasio di Lodi perduti ormai per sempre assieme alle due lapidi marmoree che ricordavano gli eventi.
 Anche perché al tempo della campagna napoleonica il convento di San Cristoforo venne invece destinato a scopi militari e utilizzato come infermeria di fortuna: il campo di battaglia al Ponte di Lodi era vicinissimo al convento.
 Alla fine dell’Ottocento i locali del San Cristoforo vennero poi utilizzati come caserma militare e, dopo la Seconda Guerra Mondiale, adattati ad abitazioni civili.
 Altre “costole di Tarantasio” sono contenute in chiese e abbazie dei territori gerundi, anche se in realtà si tratta di reperti fossili di ossa di cetacei preistorici. 
La costola del drago lunga poco più di un metro e mezzo conservata nella sagrestia della Chiesa di San Bassiano a Pizzighettone in provincia di Cremona.
 Altra “costola” lunga più due metri e mezzo conservata nella Chiesa romanica di San Giorgio in Lemine nel comune di Almenno San Salvatore in provincia di Bergamo. 
Oppure una costola lunga quasi due metri conservata nel Santuario de “La Natività della Beata Vergine” a Sombreno nel comune di Paladina in provincia di Bergamo. 

Quest’ultima costola in particolare attirò l’attenzione del naturalista Enrico Caffi, che la identificò come appartenente ad un grosso esemplare di mammuth. 


Ma l’eredità del drago Tarantasio non si limita a suggestioni o leggende noir da raccontare ai bambini davanti al camino. 
Il suo lascito è molto più tangibile di quello che si possa credere.




Immergendoci tra le vie della metropoli milanese con occhio attento possiamo scorgere ovunque la presenza ancestrale del drago. Tarantasio infatti nel corso dei secoli è stato rappresentato anche come un serpente, mostro alato, drago, leone di mare o un enorme cane. 

Lo stesso stemma dell’Inter è un biscione, ripreso da questa leggenda tutta milanese, e anche nel logo dell’Alfa Romeo e di Mediaset troviamo la stessa iconografia.

 Perfino tra le guglie del Duomo è possibile scorgere un drago, molto simile a quello descritto e rappresentato da Aldrovandi nelle sue tavole bestiarie. 

Il drago è visibile praticamente ovunque a Milano, basta fare un po’ di attenzione e lo si potrà trovare sulle insegne comunali, sulle fontanelle pubbliche, le cosiddette “vedovelle” nella pavimentazione ed è perfino il nome di una città vicino Milano. 

Ma non è finita qui, Tarantasio è noto a livello internazionale, anche se pochi lo sanno, perché ha ispirato Luigi Broggini, uno dei principali scultori italiani a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, che prese a modello Tarantasio per ideare l’immagine del cane a sei zampe, marchio simbolo di Eni. La società petrolifera fondata da Enrico Mattei avrebbe preso spunto dal mostro lacustre per tratteggiare quello sarebbe diventato il suo simbolo famoso a livello internazionale perché il primo giacimento di metano venne scoperto nel 1944 a Caviaga, frazione di Cavenago d’Adda, nel Lodigiano, in piena zona Gerundo.


L’odore pestilenziale che usciva dal terreno che per secoli le leggende dicevano fosse l’alito del drago, erano in realtà le esalazioni di gas naturale dovute ai depositi alluvionali stratificati, costituiti da sedimento paludoso molle con residui fossili.

 E qui, nel 1952, Agip trovò dei grossissimi giacimenti di metano che vennero commercializzati nel mondo sotto il marchio del cane a sei zampe, ovvero del drago Tarantasio. 

 Fonte: storiedimenticate.it