mercoledì 18 settembre 2019
“Pecunia non olet”: l’imperatore Vespasiano e la tassa sull’urina
“Pecunia non olet”, ovvero “il denaro non ha odore”: quando l’imperatore romano Vespasiano pronunciò questa famosa frase – almeno secondo il racconto dello storico Svetonio – probabilmente non pensava che nei secoli a venire molte persone l’avrebbero fatta propria, per giustificare affari non troppo “puliti”.
E certamente non immaginava che i bagni pubblici, chiamati comunemente “vespasiani” dal popolino romano, avrebbero mantenuto quel nome ancora duemila anni dopo.
Gli abitanti di Roma, mordaci allora come oggi, avevano “intitolato” le latrine pubbliche all’imperatore Vespasiano perché fu il primo a inventarsi una tassa sull’urina, la centesima venalium.
Tacito e Svetonio insistono molto sulla grande avarizia di questo imperatore arrivato a governare, tra il 69 e il 79 d.C., il più celebre impero della storia antica, in quel periodo di disordine civile e militare seguito alla morte di Nerone: quello tra il giugno del 68 e il dicembre del 69 d.C. fu un periodo decisamente difficile per Roma, “l’anno dei quattro imperatori”.
Dopo le quasi contemporanee pretese al trono di Galba, Otone e Vitellio, Vespasiano fu acclamato imperatore dalle sue legioni, mentre stava combattendo in Giudea.
Una straordinaria “elezione”, ratificata dal Senato, che segnò la fine della dinastia Giulio-Claudia, iniziata con Ottaviano Augusto. Straordinaria anche perché Vespasiano non discendeva da una delle famiglie nobili di Roma, era anzi un “campagnolo” nato in Sabina (nell’odierna Cittareale, in provincia di Rieti) e allevato dall’amatissima nonna paterna in una colonia latina sul litorale toscano (oggi Ansedonia).
Anche da imperatore il suo rifugio era quello: la casa della nonna, mantenuta invariata come ai tempi della sua infanzia.
Era avaro per necessità questo nuovo imperatore, viste le casse dello Stato disastrate e l’impero sull’orlo della bancarotta: “erano necessari quaranta miliardi di sesterzi perché lo Stato potesse reggersi” (Svetonio).
Per riportare la situazione della finanza pubblica (e non personale, è bene ricordare) alla normalità, Vespasiano aumentò i tributi dovuti dalle provincie, e si inventò nuove tasse.
La più originale, disdicevole secondo il parere del figlio Tito, fu quella che impose sulla raccolta dell’urina (per la verità l’aveva applicata anche Nerone, ma per un breve periodo).
Eh sì, perché l’urina aveva molteplici usi, ed era quindi un “prodotto” che alcune categorie di persone volevano comprare: tra tutti c’erano i fullones, ovvero coloro che lavavano i panni.
Questo perché l’urina, trasformandosi in ammoniaca, è un eccellente detergente che rimuove il grasso e sbianca i tessuti, lana compresa.
La pipì veniva usata anche dai conciatori, che mettevano le pelli animali a mollo nell’urina per rimuovere i peli più facilmente, ma anche da tessitori e tintori.
C’era poi anche un uso che oggi farebbe storcere il naso: l’urina veniva usata nella composizione di dentifrici e collutori… sempre per il suo potere sbiancante.
L’urina era quindi una merce preziosa, che veniva raccolta in tutti i bagni pubblici e poi probabilmente versata in grandi vasche.
La pipì garantiva un consistente introito fiscale, che effettivamente aiutò molto Vespasiano a rimpinguare le casse dello Stato, che alla sua morte erano tornate in attivo.
La tassa non era però di gradimento del figlio maggiore Tito, che poi diventerà imperatore.
Quando Tito fece le sue rimostranze all’imperatore per quel tributo che lo disgustava, lanciando alcune monete in una latrina, Vespasiano non si scompose, anzi: raccolse il denaro e lo fece annusare al figlio, chiedendogli se puzzava.
Tito non potè che rispondere negativamente, dando al padre l’occasione per pronunciare la famosa frase "Pecunia non olet"
Con quelle parole Vespasiano voleva far intendere al figlio che, se anche il prodotto tassato – l’urina – puzzava, la ricchezza prodotta a favore dello Stato non aveva alcun odore.
L’imperatore Vespasiano quindi è più conosciuto per la sua tassa sulla pipì e per quella frase così sfruttata in seguito con valenze ben più negative, che per quel grandioso monumento – ancora oggi simbolo di Roma in tutto il mondo – che fece costruire durante il suo regno: il Colosseo.
Fonte: vanillamagazine