mercoledì 27 marzo 2019

Il Papiro di Edwin Smith: il 1° trattato di Chirurgia risale a 3.500 anni fa


L’anno era il 1862, il luogo era Luxor, “il più grande museo all’aperto del mondo”.
 L’Egitto già da decenni esercitava un fascino irresistibile per archeologi e avventurieri, per studiosi e semplici collezionisti d’antichità. 
Poteva capitare all’epoca che un prezioso papiro si trovasse confuso in mezzo ad altra mercanzia nel negozio di un qualche rigattiere.

 Proprio nella bottega di un certo Mustafà Aga, un signore americano appassionato di egittologia, Edwin Smith, comprò un papiro del quale non comprese fino in fondo la straordinaria importanza.

Il papiro risale all’incirca al 1500 a.C, quando la capitale dell’Egitto era Tebe e il paese attraversava una fase di transizione segnata da lotte intestine, invasioni di popoli non identificati, mentre sul trono sedevano faraoni “stranieri”.

 In quegli anni così turbolenti, almeno un paio di scriba compilarono, usando la scrittura ieratica (una sorta di corsivo dei geroglifici, usato nel quotidiano perché più semplice), un vero e proprio trattato di medicina. 

Il papiro di Edwin Smith non è però solo il più antico manuale di chirurgia conosciuto, o la dimostrazione delle approfondite conoscenze raggiunte in quel campo dagli antichi egizi, ma è molto di più. 
 Ciò che lo rende unico è proprio quello che manca rispetto ad altri papiri: è assolutamente scientifico, senza alcun riferimento a una qualsivoglia forma di magia (tranne per la presenza di un’unica formula scaramantica), sia nella diagnosi della malattia sia nella sua cura.
 Il particolare è curioso perché la scienza medica egiziana si basava parecchio sull’uso di amuleti, su riti magici e incantesimi, propiziati dai sacerdoti. 

 Invece, nel papiro di Edwin Smith non c’è nulla di tutto questo, solo l’esame di 48 traumi, con relativa anamnesi del paziente, diagnosi, cura e prognosi, che poteva essere favorevole, incerta o sfavorevole.
 Appare quindi ancor più sorprendente il fatto che gli scriba del XVI secolo probabilmente copiarono un documento molto più antico, risalente addirittura al 3000/2500 a.C.


 Il papiro è formato da 12 fogli, alcuni dei quali sono vergati fronte retro (ma il retro è successivo e appare più simile agli altri trattati di medicina/magia), poi si interrompe a metà di una riga.

 Non sapremo mai perché il papiro fu lasciato incompleto, ma quello che resta dimostra come gli egizi fossero in grado di riconoscere le malattie e di trattarle anche grazie all’uso della chirurgia.

 Si parla di ossa rotte che venivano immobilizzate con stecche, di suture e bendaggi, del miele usato per cicatrizzare le ferite, e così via.
 E sopratutto si parla del cervello, organo mai citato prima in un trattato medico, e del quale ne scriveranno nuovamente in alcuni studi dei medici greci, ma solo 2500 anni dopo.


Nel papiro di Edwin c’è una descrizione accurata della struttura cranica, della parte esterna del cervello, delle pulsazioni intracraniche e addirittura del fluido cerebrospinale.

 Stupefacente anche il collegamento del chirurgo fra lesioni cerebrali e difficoltà motorie.

 Oltre a questo, nel papiro si parla di spina dorsale, di cuore e vasi sanguigni, di muscoli e tendini, legamenti e nervi, il tutto descritto con termini scientifici, probabilmente neologismi mutuati da elementi della natura, ma anche da modi di dire usati nel quotidiano.


I 48 esempi descritti nel papiro riguardano ferite molto profonde riportate da uomini: si suppone quindi che il trattato fosse destinato a chirurghi che curavano soldati reduci da battaglie. 

 Il papiro di Edwin rappresenta una straordinaria testimonianza del grado di conoscenza raggiunto dagli antichi Egizi in campo medico, ma il suo moderno proprietario non lo seppe mai: anche se consapevole dell’importanza del trattato, non fu in grado di tradurlo. 
Nonostante questo lo tenne per sé fino alla sua morte, e poi lo lasciò in eredità alla figlia, che lo donò alla New York Historical Society, nel 1906.


Il papiro fu tradotto nel 1930 dal professor James Henry Breasted, che si avvalse della consulenza di un medico. 

Breasted produsse due sontuosi volumi: nel primo pubblicò ogni pagina del papiro con a fronte la traslitterazione in geroglifico, mentre nel secondo c’è la traduzione in inglese, con relativi commenti e un glossario. 

Oggi il papiro è conservato alla New York Academy of Medicine. 


Fonte:vanillamagazine.it

La donna che balla con gli squali


Ha vissuto sotto l’oceano oltre tre anni e mezzo della sua vita. Infila le braccia nella bocca degli squali senza timori, li accarezza e passa con loro le ore più felici della sua vita.
 Più che una subacquea di fama internazionale, Cristina Zenato è parte stessa dell’oceano. 

Classe 1970, nata e cresciuta nella foresta pluviale del Congo africano, Cristina aveva le idee chiare fin da bambina: a 8 anni decise che avrebbe lavorato con gli squali e sarebbe diventata una ranger subacquea. 

 Oggi vive alle Bahamas, il luogo che per primo le rivelò le meraviglie dell’oceano e le sussurrò tutte le sfumature di blu che avrebbero colorato il suo destino.

 «La prima volta che uno squalo mi si è adagiato sul grembo, sono riuscita ad accarezzarlo per oltre venti minuti, era una femmina di quasi due metri, sentivo il peso sulle mie gambe e la sensazione di ascoltarla respirare», racconta la subacquea, il cui legame con queste creature diventa sempre più forte, immersione dopo immersione.


Nella casa di Cristina ci sono tre cani, molti libri e nemmeno una tv. 

Prima donna ad aver connesso una grotta d’acqua dolce, nell’entroterra, ad un «blue hole» nell’oceano delle Bahamas, Cristina ha portato il suo amore per questi animali anche al di fuori delle profondità: nel 2011, grazie alla collaborazione con le associazioni ambientaliste locali, è riuscita a ottenere l’approvazione della prima legge da parte del governo bahamense per la tutela completa di tutti gli squali. 

Guardare negli occhi queste creature considerate da molti pericolosi predatori è per la subacquea un’ispirazione quotidiana, un contatto emozionale complesso e variegato. 

«Ognuno di loro ha caratteristiche e peculiarità.
 Ci sono squali curiosi, giocherelloni e poi c’è Grandma, una gentile signora dai capelli grigi», scherza descrivendo una degli squali a cui è più legata.


Immergersi con questi animali può essere un’ottima formula per riscoprire se stessi e cercare di trovare un punto di equilibrio nella propria relazione con la natura: 
«Il mare non si lascia conquistare.
 In acqua non possiamo vedere o respirare autonomamente, non possediamo un riparo, non possiamo utilizzare nulla del mondo sottomarino a nostro vantaggio.
 L’uomo vorrebbe conquistare anche questo mondo e lo squalo rappresenta quindi un naturale antagonista, la viva rappresentazione delle sue paure», commenta.

 In questo mondo, solo apparentemente silenzioso, gli abissi ci sussurrano una verità quasi dimenticata: gli squali sono la perfezione, sono i dominatori del mare e siamo noi, ospiti non invitati, a doverci adattare al loro ambiente. 
«Parlo correntemente cinque lingue straniere — dice — ma è comunicando con gli squali che continuo a imparare.

 E non ho intenzione di smettere».


 Tratto da: www.corriere.it