lunedì 30 settembre 2019

Amuleti e pendenti femminili rinvenuti nelle casa del Giardino a Pompei


Custoditi in una cassa in legno, e da poco restaurati e riportati al loro splendore dalle restauratrici del Laboratorio di Restauro del Parco Archeologico di Pompei, si trattava di una parte dei preziosi di famiglia, che forse gli abitanti della casa non riuscirono a portare via prima di tentare la fuga.

 La traccia della cassa in legno che conteneva i reperti, le cui cerniere bronzee si sono ben conservate all’interno del materiale vulcanico, a differenza della parte lignea decompostasi, è stata individuata accanto all’impronta di un’altra cassa o mobile nell’angolo di uno degli ambienti di servizio, probabilmente usato come deposito. 
 Sul fondo dell’impronta sono stati rinvenuti i numerosi oggetti preziosi, tra cui due specchi, diversi vaghi di collana, elementi decorativi, bronzo, osso e ambra, un unguentario vitreo, due frammenti di una spiga di circa 8 cm e una figura umana, entrambi in ambra, probabilmente dal valore apotropaico, e varie gemme (tra le quali una ametista con figura femminile e una corniola con figura di artigiano). 
Diversi pezzi si contraddistinguono per la qualità pregiata dei materiali, oltre che per la fattura.
 Tra le paste vitree, straordinarie sono quelle con incise, su una la testa di Dioniso, sull’altra un satiro danzante. 

 Alcuni oggetti preziosi sono stati rinvenuti anche in una altra stanza della casa, presso l’atrio, dove sono stati documentati i resti scheletrici di donne e bambini, sconvolti da scavi clandestini di età moderna (XVII – XVIII secolo), probabilmente finalizzati proprio al recupero dei preziosi che le vittime portavano con sé.
 Solo un anello in ferro, ancora al dito della vittima, e un amuleto di faïence sono casualmente sfuggiti a questo saccheggio. 


 Considerate le straordinarie condizioni di conservazione e la particolare qualità dei manufatti è stato possibile donar loro una nuova vita mediante un intervento di semplice pulitura e consolidamento con materiali reversibili.






“Si tratta di oggetti della vita quotidiana del mondo femminile e sono straordinari perché raccontano microstorie, biografie degli abitanti della città che tentarono di sfuggire all’eruzione. 
Nella stessa casa, abbiamo scoperto una stanza con dieci vittime, tra cui donne e bambini, di cui stiamo cercando di stabilire le relazioni di parentela e ricomporre la biografia del gruppo familiare, attraverso le analisi sul DNA. 
E chissà che la cassetta di preziosi non appartenesse a una di queste vittime.

 Particolarmente interessante è l’iconografia ricorrente degli oggetti e amuleti, che invocano la fortuna, la fertilità e la protezione contro la mala sorte. E dunque i numerosi pendenti a forma di piccoli falli, o la spiga, il pugno chiuso, il teschio, la figura di Arpocrate, gli scarabei.
 Simboli e iconografie che sono ora in corso di studio per comprenderne significato e funzione” – dichiara il Direttore Generale Massimo Osanna 

 Fonte: ilgiornaledelrestauro

venerdì 27 settembre 2019

Donauquelle: il luogo dove nasce il fiume Danubio


L’inizio del grande fiume Danubio, che scorre per 2.860 chilometri, attraverso 10 paesi Europei fino al Mar Nero, si trova nella cittadina di Donaueschingen in Germania.
 Nonostante Donaueschingen sia la seconda città più popolosa del circondario della Foresta-Nera Baar, e sia costruita con un affascinante centro storico, l’unica vera attrazione della città è Donauquelle, il luogo che viene identificato come la fonte del Danubio (Donau, in tedesco).


 Il bacino d’acqua è circondato da una recinzione in ferro battuto e da un gruppo di statue allegoriche scolpite da Adolf Heer nel 1895. Le sculture raffigurano il Baar, il grande altopiano centrale della Germania, come una madre che mostra alla figlia, il Danubio, la via d’uscita del mondo.




Il Danubio inizia ufficialmente nel punto d’incontro di due corsi d’acqua, il Breg e il Brigach. 
Individuare la sorgente del fiume è stata un’operazione di geografia che ha sviluppato, nel corso dei secoli, diverse polemiche. 
Il Breg, il più grande dei due torrenti che alimentano il fiume, ha origine nella città di Furtwangen, i cui abitanti affermano che questo lo caratterizzi come la vera origine del Danubio. 
 A dispetto dell’opinione degli abitanti di Furtwangen, è Donaueschingen che è stata ampiamente considerata come la fonte del Danubio fin dai tempi dell’Impero Romano, e nel 1981 il governo tedesco ha concesso allo stagno di Donaueschingen l’univoca designazione ufficiale di Donauquelle. 

 Oggi il monumento dedicato è visitato da numerosi curiosi che passano nei pressi di Donauquelle.

 Fonte: vanillamagazine.it

giovedì 26 settembre 2019

I Tulou degli Hakka, le case rotonde cinesi che resistono alle intemperie da oltre otto secoli


Un villaggio autosufficiente racchiuso in un'unica costruzione cilindrica fatta di terra e fango. 
Sono questi i Tulou, delle «fortezze» create dal popolo Hakka nella Cina meridionale, sopravvissute a secoli di intemperie. 
Così preziosi e «unici» da esser entrati tra i Patrimoni dell'umanità protetti dall'Unesco. 

 Stiamo parlando di 46 edifici costruiti tra il tredicesimo e il ventesimo secolo nella provincia del Fujian, nell'entroterra di Taiwan, incastonati tra piantagioni di riso, tè e tabacco. 

La loro pianta circolare, in alcuni casi quadrata, custodisce all'interno una corte comune su cui si affacciano centinaia di abitazioni.
 Insomma, un esempio eccezionale d'insediamento umano in grado di ospitare interi «clan», composti anche da 800 persone.


Da fuori potrebbe sembrare un'unica struttura spoglia, con una sola porta di ingresso e una serie di finestre disposte solo nella parte alta della facciata. 
Ma le alte mura di fango fortificate, spesse anche sei metri, celano un'architettura elaborata, in alcuni casi finemente decorata. 
Un villaggio in armonia con l'ambiente circostante, anche detto «piccolo regno per la famiglia», ancora oggi in uso.




C'è chi definisce i Tulou un esempio di democrazia: possono ospitare clan anche allargati, tutti in unità abitative identiche, senza alcuna distinzione di rango tra le famiglie. 
Gli spazi comuni, come il pozzo, i bagni, il lavatoio e i terreni agricoli circostanti sono condivisi dall’intera comunità e ognuno ha un compito preciso per mandare avanti il villaggio, che era in grado di resistere anche ad un lungo assedio.


Uno dei più particolari è il Chengqilou Tulou, nel villaggio di Gaobei, formato da quattro anelli concentrici attorno a un piccolo cortile rettangolare.


 Fonte: lastampa.it

mercoledì 25 settembre 2019

Un luogo dalle sfumature assolutamente strabilianti: le Flaming Mountains in Cina


La montagna alpina, Flaming Mountains, nota anche come la “Montagna Rossa”, si trova a nord di Turpan, nella regione nord-occidentale dello Xinjiang in Cina. 

Questo affascinante luogo si trova a 10 km ad est della città di Turpan. La montagna si estende per circa 100 km dalla contea orientale di Shanshan a quella occidentale di Turpan. 

L’altezza media della Flaming Mountains è di 500 metri, mentre la vetta più alta è di circa 831 metri. 
 Le Flaming Mountains rappresentano il posto più caldo in Cina con la temperatura più alta intorno a 47,8 ° C. La temperatura delle superfici supera i 70 ° C in estate.
Questa caratteristica, rende assai difficile lo sviluppo della vegetazione.


Le Flaming Mountains sono diventate assai popolari grazie ad un romanzo cinese classico, dello scrittore della dinastia Ming (1368-1644), Wu Cheng’en. 
Il viaggio verso l’ovest narra le vicissitudini dell’affascinante eroe: il Re delle Scimmie.

 Il protagonista, si è scatenato in Paradiso e ha dato il via al forno per fare pillole immortali.
 I carboncini prodotti dalla follia del Re delle Scimmie cadevano dal cielo, raggiungendo anche il luogo in cui ora giace la montagna fiammeggiante.
 È per questo motivo che la montagna in ogni momento dell’anno ha temperature elevate.


 Centinaia di anni dopo, però, il Re delle Scimmie scortò il suo maestro, Tang Sanzang (un famoso monaco cinese nella Dinastia Tang 618 – 907), per acquisire le scritture buddiste nel paradiso occidentale.
 Durante il tragitto furono interrotti proprio dalla montagna.
 Così il Re delle Scimmie prese in prestito delle foglie di palma per fermare la fiamma, al fine di passare la montagna sano e salvo. 

 Fonte: viaggiare.moondo.info

martedì 24 settembre 2019

È autentico il Cimabue ritrovato in casa da un'anziana signora francese


Non è insolito scorgere nelle case di persone anziane, quadretti, iconcine sacre, dipinti provenienti da chissà quale parente, appesi con indifferenza sulle pareti di camere da letto, salotti e persino cucine. 
Vi consigliamo di osservare questi cimeli con attenzione, perché potrebbero riservare sorprese. 
 Così è accaduto alla signora di Compiègne, nei pressi di Parigi, quando ha voluto far valutare quel piccolo quadretto in legno, che da anni sostava nella sua cucina. 

Si è rivolta alla casa d’aste Actéon e, non osiamo immaginare l’espressione apparsa sul suo volto quando le hanno comunicato che quel “Cristo Deriso” è di Cimabue e che il suo valore di mercato si aggira tra i 4 e i 6 milioni di euro.
 Ad analizzare il quadro, in ottimo stato di conservazione, è stato lo studioso Eric Turquin: si tratta di un’opera su legno di piccole dimensioni (25,8 cm x 20,3 cm), realizzata a tempera a uovo su fondo dorato. 
La riflettografia infrarossa eseguita sul dipinto lo data intorno al 1280.
 Si presume faccia parte di un dittico raffigurante la passione di Cristo.
 Dal medesimo, proverrebbero anche altre due tavole: La Flagellazione conservata alla Frick Collection di New York e la Maestà con due angeli, alla National Gallery di Londra. 

Delle altre parti del dittico non vi è invece traccia, almeno fino ad oggi.


Ora la casa d’aste Actéon ha deciso di vendere all’incanto il Cristo Deriso di Cimabue il prossimo 27 ottobre: si tratta di una rarità, visto che l’ultimo pezzo del Maestro fiorentino è andato all’asta da Sotheby’s nel 2000 e, guarda il caso, si trattava proprio della Maestà parte del dittico da cui proverrebbe anche l’opera della signora di Compègne. 

Il prezzo di partenza è da grandi numeri e scommettiamo che ci farà guardare ai “quadri della nonna” con altro spirito. 

 Fonte: artribune.com

Aci Trezza, il borgo siciliano che ispirò Omero


Aci Trezza è un luogo magico, dove storia e mitologia si sovrappongono in una danza infinita, fino a confondersi.
 È qui che Omero ebbe l’ispirazione per la titanica lotta tra Ulisse e Polifemo, ma non solo.

 Oggi Aci Trezza potrebbe sembrare un paesino della costa siciliana come tanti altri, dedito al turismo per le sue splendide spiagge e le acque cristalline su cui si affaccia. Ma è in realtà un posto incantato, un piccolo paradiso di inestimabile valore culturale e storico.

 Fondato nel 1600 da Stefano Riggio come approdo marittimo per il suo feudo, per moltissimi decenni il borgo ha vissuto grazie alla pesca, fin quando non si è trasformato in un polo turistico molto apprezzato da chi trascorre le proprie vacanze in Sicilia


Ciò che affiora dal passato del piccolo villaggio di pescatori è a dir poco incredibile. 

Si narra infatti che Aci Trezza abbia ispirato Omero e Virgilio per alcune delle più famose scene delle loro opere mitologiche. 
Ulisse venne imprigionato da Polifemo proprio nel territorio su cui oggi sorge il borgo siciliano, e quando riuscì a fuggire accecando il ciclope scatenò talmente la sua ira che quest’ultimo gettò in acqua enormi massi, dai quali ebbero origine le isole dei Ciclopi.

 Per Virgilio, invece, l’eroe troiano Enea incontrò proprio ad Aci Trezza il compagno di Ulisse, Achemenide. 
Questi venne dimenticato nel paese dei ciclopi durante la fuga che tanto fece arrabbiare Polifemo.


In anni più recenti, il paesino fu protagonista del romanzo I Malavoglia, di Giovanni Verga: la casa del Nespolo, in cui l’umile famiglia di pescatori guidata da Padron ‘Ntoni aveva dimora, è ancora oggi uno dei luoghi simbolo di queste terre. 

Sempre ad Aci Trezza venne girato il film La terra trema, di Luchino Visconti, ispirata al romanzo di Verga. 
Era il 1948 quando le riprese di questo capolavoro del cinema italiano ebbero luogo, ma presso il piccolo borgo siciliano si respira ancora la stessa atmosfera.


Siete nei pressi di questo splendido paesino siciliano e non sapete cosa fare? 
Di alternative ce ne sono sicuramente moltissime, a partire da una bella passeggiata lungomare, ammirando i faraglioni che spuntano dalle acque cristalline della Riviera dei Ciclopi. 

L’intera area è posta sotto la tutela della Riserva Naturale integrata nella Regione Sicilia dal 1998, per il suo interesse storico e naturalistico.
 Se amate le immersioni, l’area marina protetta delle isole dei Ciclopi offre un panorama mozzafiato: potrete godere la meraviglia delle rocce di origine vulcanica che si combinano perfettamente con la flora e la fauna locali.




Poco distante, ad Aci Castello, sorge una splendida costruzione di origine bizantina, che fu il fulcro dello sviluppo urbanistico di questa zona. 
Il Castello venne edificato su una roccia lavica a picco sul mare, ed è divenuto ben presto uno dei simboli di queste terre. 

Oggi moltissimi turisti vi si recano per visitarlo, e al suo interno è possibile ammirare alcuni interessanti reperti storici custoditi presso il Museo Civico che vi è stato allestito. 

 Fonte: siviaggia

venerdì 20 settembre 2019

La zebra a pois esiste davvero


La celebre zebra a pois cantata da Mina esiste davvero: è stata avvistata nella riserva Masai Mara, al confine tra Kenya a Tanzania. Ad accorgersi del cucciolo dal mantello unico è stata una guida che ha anche dato un nome alla piccola zebra, chiamata Tira.

 I piccoli pois sono comparsi sul mantello della zebra a causa di una mutazione genetica. 
Un caso decisamente raro, ma non unico, come spiega la Riserva, che ha anche diffuso alcune foto della giovane zebra: «Qualche anno fa c’è stato un caso simile, tuttavia la zebra in questiona aveva mantenuto ancora alcune strisce». 

 La Riserva ha fatto anche sapere che presto i ricercatori studieranno meglio il caso della piccola zebra a pois, in modo da determinare quali siano le cause che hanno portato al singolare mutamento.


Il caratteristico pattern del manto delle zebre ha una funziona ben specifica: le strisce, infatti, consentono all’animale di regolare la propria temperatura corporea. 
 La zebra, come il “cugino” estinto quagga, è a strisce bianche e nere perché sembra che in questo modo riesca a riflettere e assorbire calore in modo discontinuo, permettendo un costante refrigerio del corpo.
 In passato, invece, si credeva che le strisce sul manto fossero un deterrente in grado di tenere lontano i predatori, creando illusioni ottiche.
 Un’ipotesi suggestiva ma che tuttavia non ha mai trovato alcun riscontro scientifico. 


 FONTE: RIVISTANATURA.COM

mercoledì 18 settembre 2019

“Pecunia non olet”: l’imperatore Vespasiano e la tassa sull’urina


“Pecunia non olet”, ovvero “il denaro non ha odore”: quando l’imperatore romano Vespasiano pronunciò questa famosa frase – almeno secondo il racconto dello storico Svetonio – probabilmente non pensava che nei secoli a venire molte persone l’avrebbero fatta propria, per giustificare affari non troppo “puliti”.
 E certamente non immaginava che i bagni pubblici, chiamati comunemente “vespasiani” dal popolino romano, avrebbero mantenuto quel nome ancora duemila anni dopo. 

Gli abitanti di Roma, mordaci allora come oggi, avevano “intitolato” le latrine pubbliche all’imperatore Vespasiano perché fu il primo a inventarsi una tassa sull’urina, la centesima venalium.


Tacito e Svetonio insistono molto sulla grande avarizia di questo imperatore arrivato a governare, tra il 69 e il 79 d.C., il più celebre impero della storia antica, in quel periodo di disordine civile e militare seguito alla morte di Nerone: quello tra il giugno del 68 e il dicembre del 69 d.C. fu un periodo decisamente difficile per Roma, “l’anno dei quattro imperatori”. 

 Dopo le quasi contemporanee pretese al trono di Galba, Otone e Vitellio, Vespasiano fu acclamato imperatore dalle sue legioni, mentre stava combattendo in Giudea. 
Una straordinaria “elezione”, ratificata dal Senato, che segnò la fine della dinastia Giulio-Claudia, iniziata con Ottaviano Augusto. Straordinaria anche perché Vespasiano non discendeva da una delle famiglie nobili di Roma, era anzi un “campagnolo” nato in Sabina (nell’odierna Cittareale, in provincia di Rieti) e allevato dall’amatissima nonna paterna in una colonia latina sul litorale toscano (oggi Ansedonia). 
Anche da imperatore il suo rifugio era quello: la casa della nonna, mantenuta invariata come ai tempi della sua infanzia.


 Era avaro per necessità questo nuovo imperatore, viste le casse dello Stato disastrate e l’impero sull’orlo della bancarotta: “erano necessari quaranta miliardi di sesterzi perché lo Stato potesse reggersi” (Svetonio). 
Per riportare la situazione della finanza pubblica (e non personale, è bene ricordare) alla normalità, Vespasiano aumentò i tributi dovuti dalle provincie, e si inventò nuove tasse.
 La più originale, disdicevole secondo il parere del figlio Tito, fu quella che impose sulla raccolta dell’urina (per la verità l’aveva applicata anche Nerone, ma per un breve periodo). 

 Eh sì, perché l’urina aveva molteplici usi, ed era quindi un “prodotto” che alcune categorie di persone volevano comprare: tra tutti c’erano i fullones, ovvero coloro che lavavano i panni. 
Questo perché l’urina, trasformandosi in ammoniaca, è un eccellente detergente che rimuove il grasso e sbianca i tessuti, lana compresa.


La pipì veniva usata anche dai conciatori, che mettevano le pelli animali a mollo nell’urina per rimuovere i peli più facilmente, ma anche da tessitori e tintori.


C’era poi anche un uso che oggi farebbe storcere il naso: l’urina veniva usata nella composizione di dentifrici e collutori… sempre per il suo potere sbiancante. 

 L’urina era quindi una merce preziosa, che veniva raccolta in tutti i bagni pubblici e poi probabilmente versata in grandi vasche. 

 La pipì garantiva un consistente introito fiscale, che effettivamente aiutò molto Vespasiano a rimpinguare le casse dello Stato, che alla sua morte erano tornate in attivo. 
La tassa non era però di gradimento del figlio maggiore Tito, che poi diventerà imperatore.

Quando Tito fece le sue rimostranze all’imperatore per quel tributo che lo disgustava, lanciando alcune monete in una latrina, Vespasiano non si scompose, anzi: raccolse il denaro e lo fece annusare al figlio, chiedendogli se puzzava. 
Tito non potè che rispondere negativamente, dando al padre l’occasione per pronunciare la famosa frase "Pecunia non olet" 

 Con quelle parole Vespasiano voleva far intendere al figlio che, se anche il prodotto tassato – l’urina – puzzava, la ricchezza prodotta a favore dello Stato non aveva alcun odore.


L’imperatore Vespasiano quindi è più conosciuto per la sua tassa sulla pipì e per quella frase così sfruttata in seguito con valenze ben più negative, che per quel grandioso monumento – ancora oggi simbolo di Roma in tutto il mondo – che fece costruire durante il suo regno: il Colosseo. 


 Fonte: vanillamagazine

martedì 17 settembre 2019

Gli aborigeni hanno vinto: niente più scalate sul monolite sacro


Alla fine gli aborigeni ce l’hanno fatta: Uluru, l’enorme monolite di arenaria nel cuore del “Red Centre” in Australia, considerato sacro per gli Anangu, non si potrà più scalare.

 Dal 26 ottobre stop alle scalate dell’ex Ayers Rock. A stabilirlo è stato il consiglio del Parco nazionale Uluru-Kata Tjuta dopo un lungo dibattito iniziato nel lontano 2010, anche se il possibile stop era stato deciso un anno e mezzo fa.

 Come sappiamo Uluru è sacro per gli aborigeni che da anni chiedono ai visitatori di non arrampicarsi e di non scalare il monolite australiano.
 “Abbiamo la responsabilità di insegnare ai visitatori a salvaguardare la nostra terra. La salita può essere pericolosa. Troppe persone sono morte nel tentativo di scalare Uluru. Molti altri sono rimasti feriti durante l’arrampicata. Proviamo grande tristezza quando una persona muore o è ferita nella nostra terra. Ci preoccupiamo per te e ci preoccupiamo per la tua famiglia. La nostra legge tradizionale ci insegna il modo corretto di comportarci”, si legge sul sito del parco.
 E ancora: 
 “Per noi, quella che stai scalando è una cosa sacra, non dovresti arrampicarti”.


Senza tralasciare che tutto il sito è pieno di cartelli che recitano: “Noi, i proprietari tradizionali Anangu, abbiamo da dirvi questo. Uluru è sacra nella nostra storia, un luogo di grande cultura.
 Sotto la nostra legge tradizionale, scalarla non è permesso. Questa è la nostra casa. Per favore non salite”.


Scoperto nel 1872 dall’esploratore britannico Ernest Giles, il monolite è un luogo sacro per gli Anangu perché legato a tanti miti tra cui quello di Tatji, la Lucertola rossa che viveva nelle pianure. Secondo la leggenda Tatji giunse a Uluru e qui lanciò il kali (boomerang), che si piantò nella roccia.
 Tatji scavò la terra alla ricerca del suo kali, lasciando numerosi buchi rotondi sulla superficie della roccia. 

Questa parte della storia giustificherebbe alcuni insoliti fenomeni di corrosione sulla superficie di Uluru. 

Non essendo riuscito a trovare il suo kali, Tatji morì in una caverna e i grossi macigni che vi si trovano oggi sarebbero i resti del suo corpo.


Uluru è alto 348 metri e questa è la seconda vittoria degli aborigeni. La prima, era stata quella di ripristinare il vero nome del monolite che, nel corso degli anni, era diventato all’inglese Ayers Rock. Adesso, viene riconosciuto lo status di montagna sacra, uno status che era stato bistrattato nel tempo per via di un turismo sfrenato.

La chiusura del sito Unesco coinciderà con il 34esimo anniversario della riconsegna di Uluru ai nativi. Una buona notizia per gli aborigeni, ma in generale per tutti perché dal 1940 sono state 37 le vittime del monolite, senza dimenticare che il sito si stava trasformando in una discarica abusiva di rifiuti.

 

giovedì 12 settembre 2019

Tra gli antichi Maya una comunità di navigatori giunti dal Mediterraneo


Un rituale funerario tipico di antiche culture mediterranee, ma sconosciuto nelle civiltà americane pre-colombiane, è stato scoperto nella necropoli di Comalcalco, città maya sulla costa del golfo del Messico: sepolture di corpi in giara (la cui simbologia potrebbe significare il ritorno nel ventre della madre terra all'interno dell'utero, rappresentato dal vaso contenitore) sono state portate alla luce numerose nel complesso cimiteriale della città e, insieme ad altri forti indizi emersi in scavi recenti, autorizzano l'ipotesi (da verificare) dell'insediamento di una comunità di navigatori giunti dal Mediterraneo.


 E' viva l'attesa dell'esito degli scavi, tutt'ora in corso. "La recentissima scoperta della necropoli di Comalcalco - spiega l'archeologa americanista italiana Maria Longhena - ha restituito numerose sepolture in giara: questo tipo di rituale funerario, molto in uso presso antiche culture del Mediterraneo, non trova corrispondenze nei contesti americani".




La città di Comalcalco, nell'attuale stato messicano del Tabasco, fiorì nel periodo classico Maya (circa 250-980 d.C.), ma la sua fondazione, rivela Longhena, "affonda le sue radici già nel periodo pre-classico.

 Il sito presenta caratteristiche singolari e avulse dal contesto culturale maya e comunque amerindio, che da molti decenni sono oggetto di discussione tra gli studiosi.
 In particolare, l'uso dei mattoni di argilla cotti in forno per la costruzione delle piramidi, e il sistema di condutture idriche sempre in argilla cotta: entrambi gli elementi rappresentano un unicum nel Nuovo Continente", ma costituiscono elementi architettonici comuni nell'antico Mediterraneo.


Fonte: www.rainews.it

mercoledì 11 settembre 2019

Il vulcano Kelimutu e i suoi incredibili laghi colorati


Sulla cima del vulcano Kelimutu, la cui ultima eruzione risale al 1968, nella piccola isola di Flores, in Indonesia, si trovano tre laghi di origine vulcanica che regalano un panorama spettacolare con i loro giochi cromatici dovuti alle reazioni chimiche dei minerali presenti nell’acqua e alla fuoriuscita di gas sotterranei composti da biossido di zolfo, anidride carbonica, cloruro di idrogeno e solfuro. 


L’isola di Flores deve il suo nome ai primi esploratori portoghesi che vi giunsero nel 500’. 
Furono loro a chiamarla “Cabo del Flores” (Capo dei Fiori) proprio per la ricchezza di fiori e piante assolutamente unici.

 In un’area ad alto rischio sismico sorge Tiwi Ata Mbupu, soprannominato “lago degli anziani”, con i suoi colori dall’azzurro al blu intenso. Stando alle numerose credenze locali, è qui che le anime degli anziani si riuniscono per riposare dopo una vita giusta.



A circa 200 metri di distanza si trovano altri due laghi, divisi da una roccia di un netto spessore: il più grande è il Tiwu Nuwa Muri Kooh Fai, tra il verdino ed il turchese pallido, noto anche come “lago degli uomini giovani e delle fanciulle”, mentre il più piccolo, Tiwu Ata Polo, detto “lago incantato” o “vita da strega”, varia tonalità dal marrone al rosso sangue.
E' il lago degli spiriti del male.


I tre bellissimi laghi cangianti, considerati sacri dagli indigeni perché luogo del riposo delle anime dei defunti, furono scoperti nel 1915 dall’olandese Van Tale Talen ma resi noti al mondo solo nel 1929 da Y. Bouman, che nei suoi scritti raccontò i meravigliosi specchi d’acqua dai colori variopinti.

 Tratto da: meteoweb

martedì 10 settembre 2019

I meravigliosi giardini di agrumi a Pantelleria


Se dovesse capitarvi di raggiungere la meravigliosa Pantelleria, avrete modo di notare dei curiosi muretti in pietra lavica di forma prevalentemente circolare, alti fino a 3-4 metri, tutt’intorno a singoli alberi di agrumi.
 Ebbene, questi muretti apparentemente solo decorativi, svolgono in realtà un’importante funzione: proteggono le piante dai forti venti tipici dell’isola, dalla salsedine e persino dalla siccità dato che trattengono all’interno l’umidità notturna, formando così un microclima ideale per la crescita degli alberi e dei loro deliziosi frutti, senza bisogno di ricorrere all’irrigazione artificiale.




I recinti sono i famosi giardini di agrumi panteschi, ovvero di Pantelleria, che nel dialetto locale prendono il nome di “jardinu”. Bisogna infatti sapere che la parola giardino nell’etimologia originaria significa recinto, e da qui deriva il nome dei giardini, che sono appunto recinti protettivi risalenti addirittura ai Sumeri del terzo millennio a.C., epoca a cui risalgono le prime testimonianze della loro presenza. 
 Ma al di là della funzione pratica si nasconde un aspetto simbolico perché questi giardini rappresentano il grembo materno, uno spazio sacro, chiuso, che protegge il proprio “bambino”.
 D’altronde per crescere alberi pieni di frutti succosi, occorre coltivarli con lo stesso amore che una madre dona al proprio figliolo. 


 Gran parte di questi giardini “culla” hanno forma circolare ma ne esistono anche di rettangolari e pentagonali. E in tutto sull’isola se ne trovano circa 500. 

 Tra i più rappresentativi e meglio conservati si ricorda il giardino situato in Contrada Khamma, donato al FAI dalla cantina siciliana Donnafugata.


Realizzato in un anfiteatro naturale formato da terrazze coltivate a vigneti di Zibibbo, ha la forma classica del giardino pantesco, con piccola apertura per accedervi, pianta circolare, diametro di 11 metri, altezza fino ai 4 metri, struttura in pietra lavica a secco.
 Il recinto protegge una pianta di arancio dolce “Portogallo”. 

 Laura De Rosa

martedì 3 settembre 2019

Durlindana: la straordinaria storia della Spada del Paladino Orlando


Benché non famosa come Excalibur, la leggendaria spada di Re Artù, la Durlindana (o Durendal, Durindana, Durendala) non ha niente da invidiare alla più conosciuta arma del Re di Camelot, almeno in fatto di storie mitiche sulla sua origine, sul suo potere e sulla sua fine. 

Al contrario di Excalibur, estratta dalla roccia (almeno in alcune versioni del mito) da Artù, la Durlindana finisce la sua gloriosa carriera, non si sa bene come, incastrata in una parete rocciosa verticale, in uno sperduto villaggio francese : Rocamadour 


 Prima di allora era stata l’arma indistruttibile del più valoroso dei paladini di Carlo Magno, Orlando (o Rolando), l’eroico cavaliere protagonista della Chanson de Roland. 

 In realtà Orlando non è una figura leggendaria: prefetto della marca di Bretagna morì veramente nella battaglia di Roncisvalle (778 d.C.). 
Di lui, come persona reale, si sa ben poco, ma in compenso è diventato il protagonista di molte storie medioevali del ciclo carolingio, nelle quali si dice che è nipote di Carlo Magno, e addirittura il più valoroso dei Dodici Pari, ovvero i migliori guerrieri della corte imperiale. 

 E se non è leggendaria la battaglia di Roncisvalle, la narrazione che ne viene fatta nella Chanson è totalmente romanzata.
 I nemici, che nella realtà erano baschi, nel racconto epico diventano saraceni, ovvero musulmani da combattere a costo della vita, per la sopravvivenza della cristianità.

 Nella retroguardia, pur di non richiamare l’esercito di Carlo Magno, Orlando muore, non colpito da un nemico, ma per aver suonato con troppa forza il suo olifante. 
Ma solo quando, ormai ridotti in tre sopravvissuti, si decide ad avvisare l’imperatore della tragica disfatta, non per invocare soccorso (che sarebbe stato disonorevole), ma per consentire alle forze cristiane di annientare quelle musulmane.


E morendo si preoccupa della sua preziosa e potente spada, la Durlindana: preziosa perché contiene sacre reliquie (un dente di San Pietro, sangue di San Basilio, capelli di San Dionigi e un lembo della veste di Maria) e potente perché indistruttibile.

 Nelle storie del ciclo carolingio non è ben chiara quale fosse l’origine della spada, ma pare fosse stata forgiata dal mitico Weland, fabbro che compare nelle leggende nordiche.

 Nella Chanson de Roland invece, la Durlindana viene consegnata addirittura da un angelo a Carlo Magno, che poi ne fa dono al paladino più valoroso, il nipote Orlando.


Nel racconto medioevale, Orlando tenta di distruggere la spada per non farla cadere nelle mani dei nemici, lanciandola contro un costone di roccia.

 La Durlindana rimane intatta, ma in compenso si rompe la roccia


L’eroico cavaliere allora decide di nascondere la spada sotto il suo corpo, quando ormai arrivato allo stremo, si accascia sul terreno in attesa della morte, che puntuale arriva insieme a uno stuolo di angeli che lo portano in cielo. 

 Per non si sa quali vie misteriose, la straordinaria Durlindana sarebbe poi finita incastrata in una roccia di Rocamadour, pittoresco villaggio dell’Occitania, dove oggi è legata a una catena per evitarne il furto.


 Fonte: vanillamagazine

domenica 1 settembre 2019

Il “sesto senso” del piccione viaggiatore


I piccioni viaggiatori, i cosiddetti "postini del cielo", furono protagonisti del mondo delle comunicazioni fin dall'antichità. Merito delle loro prestazioni, impensabili per qualsiasi altro servizio che sfruttasse spedizioni via terra: riuscivano a coprire in una sola giornata oltre 900 chilometri, all’incirca la distanza aerea tra Roma e Praga.

 L’uso dei piccioni viaggiatori si diffuse già nell’antico Egitto (all’incirca dal 2900 a. C.), soprattutto in ambito militare per il recapito dei messaggi dai fronti di guerra. 


 L'uso dei colombi viaggiatori iniziò quando ci si rese conto che era possibile sfruttare una loro particolarissima caratteristica: l’istinto che li induce a far ritorno, se allontanati, al luogo in cui sono nati. Scoperto ciò, i primi allevatori dovettero soltanto affinare le tecniche di allevamento dei piccioni, con un lungo processo di selezione e incroci di razze.


I centri di allevamento oltre che in Egitto sorsero in Cina, in India e in Persia, e ben presto i piccioni viaggiatori si affermarono anche nel mondo greco.

 Questa particolare “posta aerea” si tramandò poi all’epoca romana e medioevale: nel XII secolo si stabilì un regolare servizio di colombi viaggiatori tra Baghdad e la Siria, mentre durante le Crociate i Saraceni lo usarono per scambiarsi informazioni sui movimenti degli eserciti cristiani.


 L'epoca d'oro di questi volatili in ambito bellico fu però durante l’assedio di Parigi del 1870-1871 (guerra franco-prussiana), quando i francesi poterono comunicare con l’esterno della città solo grazie ai fidi volatili. 
A partire da allora i colombi vennero arruolati da quasi tutti gli eserciti del mondo.


 Diedero il loro meglio nelle due guerre mondiali, quando molti di loro divennero vere celebrità.
 Nel primo conflitto ai colombi furono affidate le comunicazioni tra le forze alleate (opposte ai tedeschi) in particolare nella battaglia della Marna (1914) e nell’offensiva delle Argonne (1918).




I volatili-spia contribuirono, tra le altre cose, all’organizzazione dello sbarco in Normandia (6 giugno 1944).

 L’evento fu annunciato in Inghilterra da un colombo che riuscì a beffare le misure anti-piccioni tedesche. 
Questo e altri suoi compagni di specie furono insigniti della Dickin Medal, una medaglia speciale legata a un premio nato nel 1943 (su idea della veterinaria Maria Dickin) per onorare la categoria degli “animali soldato”. 
Alle eroiche gesta di questi piccioni sono stati dedicati perfino monumenti in numerose città, tra le quali Bruxelles, dove si trova il Monument au Pigeon-Soldat.


Nei primi decenni del Novecento i colombi cominciarono poi ad affiancare al ruolo di postini anche quello di ricognitori e reporter. L’idea era semplice. 
I pennuti venivano dotati di una minuscola macchina fotografica, fissata al petto con un sistema di cinghie e programmata con un timer per scattare foto in sequenza lungo la rotta. 
Il vantaggio rispetto ad altre tecnologie (come gli aquiloni o i palloni aerostatici) era di poter volare a quote relativamente basse e ottenere scatti dettagliati senza essere intercettati.


Ai nostri giorni vi è persino chi, nell’era della comunicazione digitale e delle fughe di notizie sul Web, sostiene che in certi casi i colombi potrebbero tornare a essere usati. 
Anche se più lenti di mail e chat, assicurano, da sempre, un ottimo livello di privacy. 

Del resto chi, oggi, penserebbe a sguinzagliare rapaci nei cieli, a caccia di “postini volanti”? 

 Fonte: focus.it