giovedì 30 maggio 2019
La Sardegna e il popolo di Shardana, tra miti e ipotesi archeologiche
Tra le molte popolazioni mitiche proliferate in Italia in ogni tempo, si può forse inserire anche quella degli Shardana.
Di loro tutto è supposizione, tutto è mitizzato, niente certo o molto poco.
In più, a quel poco che sappiamo di reale, sono stati aggiunti nel susseguirsi delle epoche altre teorie, resoconti di racconti pseudo –fantastici, testimonianze ritrovate presso altri popoli molto più conosciuti e documentati; insomma degli Shardana si sa poco ma si immagina molto …
Tra le tante storie non documentate della loro origine c’è anche quella che furono uniti come popolo in Sardegna da Shard, anch’essa figura più che mitologica che alcuni addirittura presentano come un fratello di Ercole.
Eracle o Ercole è stato nell’antichità effettivamente molto presente come culto e (pare) anche personalmente nell’Italia meridionale, ce ne sono notevoli tracce documentate anche presso il popolo dei Sanniti , ma che avesse un fratello di nome Shard, quindi figlio di Alcmena, oltre al noto Ificle, non c’è n’è in verità traccia nella mitologia romana e greca o precedente.
Un’altra ipotesi nasce dagli scritti del I° secolo a.c. di Sallustio, secondo cui Sard sarebbe stato un figlio di Ercole venuto dalla Lidia con molti uomini per abitare in Sardegna, ma dalla mitologia classica non risulta che l’eroe greco abbia avuto figli con questo nome.
Più mitologicamente corretta potrebbe essere invece l’affermazione di Diodoro Siculo quando scriveva che Ercole inviò il nipote Iolao e i suoi figli in Sardegna per fondare una colonia dopo aver portato a termine le dodici fatiche, tesi confermata anche da scritti Pseudo Aristotele.
C’è di vero che la figura di Sard o Sardo, chiunque sia stato, è in ogni caso rimasta presente nella mitologia sarda al pari di un Dio che cambiò addirittura il nome dell’isola da Ichnusa a Sardegna. Puntualizzato questo, possiamo procedere all’analisi dei vari misteri che accompagnano gli Shardana, come ad esempio la forma degli elmi e delle imbarcazioni, così simili a quelli vichinghi, ma anche qui subito ci imbattiamo in una curiosità inspiegabile, perchè l’archeologia ha in realtà dimostrato che i tanto famosi elmi vichinghi con corna non esistevano o non venivano usati in battaglia, non ne sono mai stati trovati e sono presenti in pochissime illustrazioni.
L’uso di questi elmi era forse riservato solo alle cerimonie, ne esistevano invece, (e questo è documentato) di questa fattura sulla testa dei guerrieri Shardana e sono moltissime le statuine in bronzo di varie misure ritrovate in Sardegna con queste vestigia guerriere. In verità di elmi cornuti se ne sono trovati in Italia anche in Liguria e presso i Sanniti stanziali nel Molise e Abruzzo.
La tipica spada, lo scudo rotondo con dentro le altre spade, l’elmo con corna sormontato da un ovale o un cerchio, tipici dei guerrieri sardi, possono bastare per far identificare il popolo Shardana con quello sardo della civiltà nuragica?
L’archeologia egiziana ha riportato alla luce iscrizioni, documenti, graffiti in cui i guerrieri Shardana erano raffigurati in ogni dettaglio della loro tenuta guerriera e in effetti era molto simile a quella dei bronzetti ritrovati in Sardegna.
Famosi per la loro combattività, gli Shardana sembra che amassero molto scorrazzare nel Mare Mediterraneo in cerca di popoli da razziare e perfino gli allora potentissimi imperi egiziani ne fecero le spese più volte.
I primi scritti che lo testimoniano si trovano in documenti della XVIII° dinastia egizia del 1350 a.c., ma anche nei testi ugaritici ritrovati in Siria dove appunto la città di Ugarit fu distrutta da questi “popoli del mare”.
Tra loro si fa preciso riferimento agli Šrdn/Srdn-w, descritti come pirati e mercenari.
Ramses II° nel 1278, poi il figlio Meremphta, poi Ramses III° sconfissero invasioni e saccheggi dei “popoli del mare” e pare che ogni volta arruolassero nelle proprie file i valorosi guerrieri Shardana catturati; nel 1274 alla battaglia di Qadesh, questi guerrieri fecero addirittura parte della guardia personale del faraone.
Quando poi i “popoli del mare” sconfissero Ramses III° , acquisirono il possesso di parte del territorio di Palestina dove si insediarono.
E’ certo che anche gli Shardana vi si stabilirono, non si parla invece, presso gli Egizi, della loro provenienza dalla Sardegna.
A questo punto si potrebbe anche citare la versione, invero molto improbabile, secondo la quale il popolo Shardana, venuto chissà da dove e posta base in suolo palestinese, sarebbe stato guidato da un certo Shardan (che dovrebbe essere tradotto come “salvato dalle acque”) verso la libertà quando, dopo essere entrato a far parte delle tribù presenti in Palestina, si sarebbe ritrovato sotto il dominio dei faraoni.
Questo racconto che ricorda molto la storia di Mosè, è stato spesso accostato ad ogni popolazione mitica che si rispetti come altri già conosciuti che vedremo poi, gli Shardana non fanno eccezione e sono stati anche loro ricoperti di miti già sfruttati e narrati per altri popoli.
Al contrario, l’ipotesi archeologica che il popolo degli Shardana sia originario della Sardegna è recente e si basa soprattutto sulla possibile sovrapposizione delle rappresentazioni dei guerrieri nei graffiti egizi pervenute a noi e la gran quantità di sculture di varie misure in bronzo trovate in Sardegna.
Se questo corrispondesse a verità ci sarebbe stata una popolazione che centinaia di anni prima del X°secolo a.c., partendo dalla Sardegna, avrebbe costruito un impero marinaro nel Mediterraneo con basi dall’Asia minore alle coste della Spagna, all’Africa settentrionale, alla costa tirrenica.
E’ documentato che furono espertissimi navigatori e combattenti di mare, dotati di navi molto ben progettate per il loro tempo.
Tra le piccole sculture in bronzo pervenuteci, ce ne sono molte ispirate a soggetti di navi che poi si sono rivelate anche lampade votive.
La forma ricorda molto quella dei “Drakkar” vichinghi, con la prua adorna di testa animale dalle lunghe corna, ma presenta invece un albero che ha sulla sommità uno stravagante disco con delle corna, certo inadatto a sostenere vele.
L’assiduità di questa rappresentazione tenderebbe ad escludere che questa particolarità sia dovuta all’uso eventuale di lampada e rafforzerebbe l’idea che effettivamente le navi avessero qualcosa che ancora oggi resta un mistero.
A questo punto le teorie archeologiche più ardite si spingono oltre la fantasia e si arriva a congetturare che gli Shardana, abilissimi navigatori, si fossero spinti oltre le “Colonne d’Ercole” e abbiano risalito le coste europee fino alla penisola scandinava dove, i loro elmi adorni di corna sarebbero rimasti così impressi nella mitologia dei popoli autoctoni fino a diventare l’effige dei valorosi guerrieri vichinghi.
Quindi, gli Shardana, dopo essere stati i portatori di uno stile di vita guerriero efferatamente predatore, sarebbero ridiscesi diffondendosi in Europa, per poi scomparire a poco a poco mescolandosi con le popolazioni dei vari luoghi, rimanendo presenti alla fine solo nell’isola di Shardana , ovvero in Sardegna.
Ma la provenienza autoctona sarda degli Shardana è comunque tutta da provare, sembra infatti stridere il confronto con altri reperti di età nuragica che dimostrano usi e costumi molto diversi.
L’innegabile corrispondenza di vestiario nelle rappresentazioni bronzee però tende a scartare l’ipotesi che non ci sia stata una congruenza, così si è ipotizzato che gli Shardana potessero essere un popolo proveniente dal Mediterraneo orientale insediatosi in Sardegna nel XIII° secolo a.c., chissà per quale motivo, forse in fuga da una rovina o più probabilmente per muovere guerra all’ Egitto e infine stanziatosi dove già era presente la popolazione nuragica.
In questo caso non sarebbe stata la Sardegna a dare nome al questo popolo, ma il popolo Shardana a dare il nome di Sardegna alla sua nuova patria ed anche gli scritti e parte dei miti già citati troverebbero corrispondenza.
E’ certo che nel 929 a.c., il dominio dei popoli del mare, di cui non è ancora chiara la parte riservata agli Shardana, era ben esteso in tutto il Mediterraneo, ma si narra che proprio in quell’anno iniziò il suo declino, in realtà rovinoso e fulmineo.
Fonti non accreditate recitano che il vulcano sottomarino Marsili situato a 140 km a nord della Sicilia e a circa 150 km ad ovest della Calabria, esplose causando uno tsunami che sommerse parte della Sardegna e delle coste italiane, il popolo Shardana ne fu distrutto, e non raggiunse più l’espansione precedente.
Si è addirittura avanzata l’ipotesi che il mito di Atlantide sia nato da quell’evento.
Mitologia, congetture, ipotesi sono talmente legate a questo popolo che se ne potrebbe parlare per giorni, ma la verità è forse percepibile, oppure si può arrivare almeno a scartare le ipotesi più fantasiose, con il buon senso e la ricerca.
E’ infatti poco probabile che il vulcano Marsili abbia avuto una tale eruttiva prorompenza: situato a grandissima profondità, non avrebbe mai potuto provocare un cataclisma del genere, allora come oggi.
E’ probabile quindi che il regno dei popoli del mare,(di cui facevano parte anche gli Shardana pervenuti chissà da dove fino in Sardegna), sia finito perché fagocitato dalle altre popolazioni autoctone e dal crescente dominio greco nel Mediterraneo.
E’ però un dato di fatto che la Sardegna attorno al X° secolo a.c. abbia conosciuto una civiltà molto sviluppata e intensa, prova ne sono anche le grandi sculture nuragiche dette “Giganti di Mont’e Prama” antecedenti ai bronzi, tra le più antiche sculture a tutto tondo rinvenute nell’area mediterranea dopo quelle egizie.
Fonte: mcarte.altervista.org
mercoledì 29 maggio 2019
Laguna rosa di Torrevieja: in Spagna lo spettacolare lago salato rosa
Rosa, di un rosa forte e intenso: a sud della provincia di Alicante, in Spagna, si dispiega agli occhi dei visitatori un fenomeno naturale unico.
È l’incredibile laguna rosa di Torrevieja, 1.400 ettari rientranti nel Parco Naturale di Lagunas de la Mata e Torrevieja.
Di questa splendida riserva naturale in Costa Blanca, infatti, fanno parte i due bellissimi laghi salati tra i più grandi d’Europa ed entrambi collegati al mare da canali: oltre alla laguna di Torrevieja, è da visitare anche la laguna La Mata, di un colore blu-verde, altro spettacolo della natura.
Dal rosa incredibile, che a volte tende al fucsia e che lascia senza fiato, le acque di Torrevieja sono in realtà il risultato di un fenomeno naturale unico prodotto da un batterio capace di rilasciare un pigmento rosato in acque ad alta concentrazione salina: nel caso della laguna rosa, 350 grammi per litro d’acqua, avvicinandosi di molto a ciò che accade nel Mar Morto.
Più precisamente, il colore rosa è dato dai pigmenti dei batteri Halobacterium, tipici degli ambienti salini estremi, ma anche da un’alga, la cosiddetta Dunaliella Salina, responsabile del colore rosso vivo del lago.
Acque splendide da ammirare e fotografare: in esse, infatti, non ci si può immergere per motivi ambientali, per salvaguardare gli ecosistemi della laguna e anche per ragioni di sicurezza.
Anche se non ci si può tuffare nelle acque rosa, ad attendervi è uno dei percorsi a piedi o in bicicletta tra fenicotteri e più di 100 tipi di uccelli acquatici e marini.
E non solo, da queste parti si ha a disposizione una autentica spa naturale: l’acqua che evapora è infatti ricca di sali minerali e di iodio in grado di rigenerare l’apparato respiratorio.
E, a conclusione di questo percorso spa, vi è il bagno di fango: sul fondale della laguna, anziché sabbia, troverete del fango nero che, se cosparso sul corpo, purifica la pelle e giova ai muscoli e alle articolazioni.
Germana Carillo
martedì 28 maggio 2019
L'incredibile visione a colori dei pesci abissali
Più in profondità vive una creatura acquatica, più primitivo sarà il suo sistema visivo: finora questo era uno dei pochi punti fermi di chi studia i pesci abissali, che sono impossibili da prelevare dal loro habitat naturale (per via della differenza di pressione, o anche per le conseguenze sulla vescica natatoria) e sono perciò poco conosciuti.
Ci sbagliavamo: secondo uno studio pubblicato su Science, pesci che nuotano a profondità non raggiunte dalla luce solare vantano un set di geni extra per la codifica dell'opsina, una proteina presente nei bastoncelli (un tipo di fotorecettori della retina) sensibile alla luce fioca.
Nell'uomo, questa proteina consente di distinguere le sagome in bianco e nero in situazioni di oscurità. Ma in diverse specie di pesci abissali sembra essere espressa in una varietà tale che consente di vedere a colori, distinguendo tra molteplici lunghezze d'onda anche nelle condizioni in cui noi vedremmo "nero".
In generale, l'ultima luce si percepisce in acqua a circa 1.000 metri di profondità.
Sotto quel limite è buio profondo, eppure gamberi, polpi, pesci e altre creature che vivono in zone più profonde sono in molti casi bioluminescenti.
A che cosa serve segnalare così la propria presenza, se nessuno lo vede?
Per approfondire la questione alcuni scienziati dell'Università di Basilea, in Svizzera, hanno studiato le proteine della retina dei pesci abissali, analizzando i genomi di un centinaio di specie - inclusi quelli di sette pesci abissali dell'Atlantico il cui DNA era già stato codificato.
La maggior parte di questi animali mostrava uno o due tipi di geni che codificano per l'opsina, come gran parte dei vertebrati. Tuttavia, quattro specie di pesci ne avevano almeno cinque, e una di queste, la spinosa d'argento (Diretmus argenteus) ne esibiva addirittura 38, 14 dei quali espressi ed attivi: una caratteristica completamente inedita per una creatura vivente, che oltretutto nuota a 2.000 metri di profondità.
Studiando le sequenze di amminoacidi dei vari tipi di opsina, gli scienziati sono riusciti a capire a quali lunghezze d'onda il pesce risultava più sensibile. E hanno scoperto che la spinosa sa captare diverse sfumature del blu e del verde, i colori della bioluminescenza, anche grazie a 24 mutazioni genetiche che affinano le opsine prodotte e le rendono specializzate ciascuna per un ristretto intervallo dello spettro luminoso.
Ognuna di queste opsine potrebbe essere specializzata nel percepire i segnali bioluminescenti che avvertono della presenza di cibo, che mandano segnali di pericolo o codificano comportamenti sociali.
L'abbondanza di geni per le opsine si riflette nella strana composizione della retina di questo pesce, che ha bastoncelli di dimensioni e forme diverse, talvolta disposti l'uno sull'altro, per catturare diverse lunghezze d'onda.
Le quattro specie di pesci muniti di più opsine appartengono a diverse famiglie, e questa è la prova che la sensibilità della vista si è evoluta in modo indipendente, in risposta alle condizioni ambientali.
Fonte: focus.it
lunedì 27 maggio 2019
Nel 2021 riaprirà il Corridoio Vasariano
Dal 2021 il Corridoio Vasariano, ovvero i 760 metri sospesi che collegano Palazzo Pitti agli Uffizi e poi a Palazzo Vecchio, sarà aperto al pubblico, così 500mila turisti avranno la possibilità di visitare quello che viene considerato come il corridoio più famoso del mondo. I lavori costeranno 10 milioni di euro e dureranno 18 mesi per garantire la messa in sicurezza del Corridoio Vasariano, il più celebre nel panorama mondiale.
Una volta aperto, sarà visitabile su prenotazione per un massimo di 125 persone alla volta.
Il corridoio potrà essere percorso in una sola e unica direzione, ovvero partendo dagli Uffizi, passando per Palazzo Pitti, fino al Giardino di Boboli e Ponte Vecchio.
Come sappiamo, il corridoio fu ideato da Giorgio Vasari e costruito nel 1565 su volere del granduca Cosimo I de’ Medici, in occasione delle nozze del figlio Francesco insieme a Giovanna d'Austria. Ma in generale, passando sopra case e negozi, il corridoio permetteva ai granduchi di muoversi liberamente dall’allora residenza, Palazzo Pitti, fino ai palazzi del Governo, gli Uffizi e Palazzo Vecchio.
Adesso il bando di gara di Invitalia dovrà essere assegnato e subito dopo, inizieranno i lavori che costeranno 10 milioni di euro, già finanziati dal ministero e da fondi europei che garantiranno uscite di sicurezza, accessibilità per le persone disabili, illuminazione a basso consumo energetico, videosorveglianza e climatizzazione. Previsti anche interventi di consolidamento strutturale e di restauro degli interni: dagli intonaci al pavimento.
Dunque il corridoio non sarà più un percorso visitabile solo nei grandi eventi e durante le visite istituzionali e sarà pronto secondo il direttore delle Gallerie degli Uffizi, Eike Schmidt, nel 2021.
"Sarà una passeggiata democratica accessibile con vista sul cuore di Firenze", spiega Schmidt.
La collezione di autoritratti che era tradizionalmente in mostra sarà sostituita da una selezione di antiche statue e iscrizioni, affreschi cinquecenteschi che originariamente decoravano le pareti esterne del Corridoio.
Nel progetto è previsto anche un nuovo ingresso, mentre al piano terra sarà allestita la biglietteria.
Un’altra novità del progetto sono i due memoriali: uno realizzato in corrispondenza di via Georgofili per vedere il punto in cui esplose l’ordigno nel 1993 e l’altro subito dopo Ponte Vecchio per ricordare la devastazione nazista del 1944.
Dominella Trunfio
venerdì 24 maggio 2019
Il mistero degli enormi vasi in pietra sparsi su un altopiano del Laos
Cosa ci fanno degli enormi vasi in pietra in mezzo a una remota foresta del Laos?
Se lo chiedono i ricercatori dall'Australian National University, che hanno scoperto 137 nuovi «vasi funebri», pesanti anche due tonnellate, spostati di chilometri dai loro luoghi originari.
Gli antichi vasi di pietra che costellano prati e colline del Laos rappresentano da sempre un enigma archeologico.
Parliamo di cimeli millenari che vanno da uno ai tre metri d'altezza, superando anche il metro di diametro che sembrano essere stati scolpiti in un luogo per poi essere posizionati altrove, nonostante la loro stazza.
E ora il mistero s'infittisce con questo nuovo ritrovamento in 15 diversi posti remoti dell'altipiano Xieng Khouang.
Gli esperti pensano che questi enormi vasi venissero utilizzati nei rituali di sepoltura, come urne funerarie o ancora per segnalare la presenza di una tomba.
Un'altra scuola di pensiero crede che servissero per raccogliere l'acqua piovana durante la stagione monsonica.
Le leggende locali sostengono invece che quegli enormi vasi non siano altro che i bicchieri utilizzati dai giganti che, nella notte dei tempi, popolavano il Laos
Oltre alle giare, gli archeologi hanno trovato diversi oggetti estremamente interessanti.
Al fianco di molte di esse sono stati rinvenuti dei rari dischi intagliati, che probabilmente segnalavano il luogo di sepoltura.
Sui dischi si possono osservare immagini di animali o disegni geometrici, tuttavia gli archeologi non ne conoscono il significato e il motivo per cui venivano utilizzati gli uni o gli altri.
La parte decorata dei dischi, curiosamente, era sempre rivolta all'ingiù.
Dai siti archeologici sono emersi anche copie in miniatura di argilla delle giare, ceramiche decorative, perle di vetro e vari utensili di ferro, alcuni dei quali adatti al trattamento dei tessuti.
Si tratta di luoghi estremamente affascinanti e colmi di misteri, che gli scienziati sperano di svelare studiandoli a fondo.
I dettagli sulla scoperta sono stati pubblicati sul sito ufficiale dell'Università Nazionale Australiana.
Fonti: lastampa.it
scienze.fanpage.it
giovedì 23 maggio 2019
Il complesso prenuragico di Monte d’Accoddi somiglia alle Ziggurat Mesopotamiche
Caratteristica peculiare dell’archeologia sarda sono senza dubbio le mastodontiche testimonianze lasciateci dalla civiltà nuragica, ma alcune costruzioni megalitiche risalgono a ben prima del più conosciuto periodo della storia dell’isola; il complesso prenuragico di Monte d’Accoddi ne è un emblematico esempio.
Il IV millennio a.C., in un clima di fermento culturale e crescita demografica, vede lo svilupparsi di vari insediamenti nella parte settentrionale dell’isola, principalmente sugli altopiani.
La competizione territoriale e per l’accaparramento delle risorse non doveva essere forte, data l’apparente assenza di strutture difensive, la locazione non strategica e la vicinanza, tra loro, dei villaggi.
Agricoltura e allevamento si fanno strada sostituendo progressivamente caccia, pesca e raccolta, che vennero relegate ad attività di integrazione di risorse alimentari.
La qualità della produzione artigianale, soprattutto delle ceramiche, verrà meno per via del minor tempo a disposizione della popolazione impegnata nella neo-arrivata lavorazione dei metalli e della produzione di cibo.
Nonostante ciò il lavoro artigianale continuerà ad avere un posto di primo piano nella vita del villaggio, così come attestato dai ritrovamenti delle case, divise in diversi spazi adibiti anche alla lavorazione del prodotto agricolo e alla tessitura.
L’incremento della popolazione nel millennio successivo farà affiorare la competitività umana, resa evidente dalla scelta di luoghi insediativi sopraelevati e favorevoli al controllo del territorio, possibilmente facili da difendere.
In questo contesto si colloca la costruzione del complesso di Monte d’Accoddi, un edificio a terrazze circondato da un villaggio, alcuni menhir e posto nelle vicinanze di una necropoli.
Il santuario, denominato “Tempio Rosso” poiché in passato doveva essere intonacato col rosso ocra, venne costruito in più fasi. Sostanzialmente se ne possono distinguere due: una collocabile nella prima metà del IV millennio b.c.e. che vide l’edificazione del corpo troncopiramidale centrale unito alla rampa, rivolta verso sud; e una seconda che interessò il terrazzamento costruito nella seconda metà del millennio a completare l’edificio preesistente.
Un ambiente rettangolare era posto sulla cima, con l’ingresso posto in corrispondenza della rampa.
Stabilire la sua specifica funzione non è semplice, e necessiterebbe di uno studio molto approfondito in quanto la struttura venne utilizzata non solo nel IV millennio, ma anche nel III, persino dopo essere stata danneggiata da un rovinoso incendio.
Innanzitutto si esclude la funzione funeraria, prediligendo sempre una funzione sacra, ma più nell’ambito delle cerimonie e delle processioni rituali verso un luogo sopraelevato.
La presenza di un dolmen, a est della rampa, provvisto di una serie di fori (forse per far defluire il sangue) fa pensare alla pratica di sacrifici votivi; non è, poi, ancora stata accertata la funzione delle pietre sferiche (la più grande dal peso superiore alla tonnellata e dal diametro di quasi cinque metri) situate nei pressi dell’edificio.
La sua struttura così simile alle ziggurat mesopotamiche ha fatto subito pensare a collegamenti tra la Sardegna e le culture mediorientali, ma tale ipotesi è stata fermamente smentita dagli esperti.
Il monumento pare sia unico nel proprio genere, infatti non sono mai state trovate in Europa strutture che ricordino così tanto i celebri edifici asiatici, i quali dovrebbero essere, per di più, successivi alla costruzione del monumento sardo.
La scarsità di prove, tuttavia, limita ampiamente il lavoro degli studiosi.
Molte domande, infatti, rimangono ancora senza risposta, e persino le poche fornite sino a ora sono lontane dall’essere provate con certezza.
Fonte: vanillamagazine.it
mercoledì 22 maggio 2019
Droghe di 1000 anni fa ritrovate in una borsa da sciamano
In Bolivia è stato effettuato un importante ritrovamento che conferma le buone conoscenze, in termini di medicina naturale, che avevano gli sciamani che vivevano in quelle zone circa 1000 anni fa.
Si tratta infatti della borsa di uno sciamano all’interno della quale sono stati ritrovati diversi utensili e strumenti ed una sacchetta. Questa piccola sacca trovata all’interno della borsa, è formata da tre musi di volpe cuciti assieme e contiene droghe di 1000 anni fa, sostanze psicotrope usate all’epoca come medicinali.
Oltre alla sacchetta all’interno della borsa, vi erano delle tavolette di legno per la macinazione delle piante officinali e del tabacco, due spatole in osso, una fascia intrecciata, ed una rudimentale pipa, ornata di trecce di capelli umani, usata per fumare le sostanze allucinogene.
Secondo l’antropologo Jose Capriles, si era già a conoscenza di quanto le sostanze psicotrope fossero importanti nei rituali religiosi e spirituali delle società delle Ande centro-meridionali, ma con questa scoperta si è potuta scoprire la grande varietà di composti utilizzati e le loro possibili combinazioni.
Capriles ha infatti dichiarato che “si tratta del più alto numero di sostanze psicoattive mai trovate in un singolo complesso archeologico del Sud America”.
La conoscenza e la comprensione di quali fossero lo sostanze, di origine vegetale, utilizzate dagli antichi per alterare la percezione, può dirci molto sulla cultura e sulla conoscenza degli uomini dell’epoca.
Possiamo infatti conoscere quali siano le piante e le sostanze vegetali culturalmente importanti nella società dell’epoca.
Durante gli scavi nella valle del fiume Sora in Bolivia, gli archeologi, che vi hanno lavorato nel 2008 e nel 2010, non erano prettamente alla ricerca di tali sostanze, ma di prove concrete di insediamenti umani nella zona.
In questi luoghi in una grotta conosciuta col nome di Cueva del Chileno, gli archeologi hanno ritrovato la borsa di cuoio contenente le droghe di 1000 anni fa.
La datazione dei reperti è stata eseguita con il radiocarbonio. Le droghe vegetali presenti all’interno della sacchetta di musi di volpe, sono state analizzate prelevandone dei piccoli campioni utilizzati per eseguire la cromatografia liquida e la spettrometria di massa. Con queste analisi i ricercatori hanno potuto individuare di che tipo di sostanze si trattasse.
Sembra che all’interno della sacchetta vi siano state forse cinque o quattro piante diverse, ma con certezza ne sono state individuate tre.
All’interno della borsa i ricercatori hanno individuato tracce di bufotenina, dimetiltriptamina, armine, cocaina e benzoilecgonina (un prodotto di degradazione della cocaina).
Queste sostanze suggeriscono la presenza di almeno tre piante che contengono questi composti.
Alcune di queste sostanze sono state indicate dai ricercatori come composti del famoso tè sciamanico noto con il nome di ayahuasca. Una scoperta davvero importante visto che attualmente non si sa per quanto tempo e dove si sia diffuso l’utilizzo di questa bevanda.
Dai reperti trovati nella borsa, possiamo dedurre che gli abitanti del luogo conosceva già l’utilizzo di queste droghe 1000 anni fa, anche se non possiamo sapere come siano state lavorate le piante. Inoltre appare chiaro che si trattasse della borsa di uno sciamano, una figura ritenuta depositaria dell’utilizzo e della preparazione di queste droghe, che usava per raggiungere la condizione di trance necessaria per comunicare con gli spiriti.
L’archeologa Melanie Miller, dell’Università di Otago, ha dichiarato che “nessuno dei composti psicoattivi trovati, proviene da piante che crescono in questa zona delle Ande, indicando la presenza di reti di scambio elaborate o il movimento di questo individuo in ambienti diversi per procurarsi queste piante speciali”.
Fonte: ocustech.it
martedì 21 maggio 2019
Manoscritto Voynich: è stato davvero decifrato il codice più misterioso della storia?
Sembra sia stato finalmente decifrato il 'codice' del testo più misterioso del mondo, il manoscritto Voynich.
Il documento, che risale alla metà del '400, è scritto in una lingua romanza molto antica ed estinta, ed è una sorta di enciclopedia illustrata realizzata da un gruppo di monache domenicane per Maria di Castiglia, all'epoca regina di Aragona.
Nell'impresa di scorprirne le chiavi di lettura sarebbe riuscito Gerard Cheshire, ricercatore dell'università britannica di Bristol, che ha pubblicato il risultato della sua ricerca sulla rivista "Romance Studies".
Dalla ricerca emerge che il manoscritto sarebbe un compendio di rimedi erboristici, bagni terapeutici e letture astrologiche riguardanti questioni di cuore, di mente e di riproduzione, secondo le credenze del periodo.
"Quando ho realizzato l'entità del risultato, sia in termini di importanza linguistica che di rivelazioni sulle origini e il contenuto del testo mi sono sentito incredulo ed eccitato", ha detto Cheshire.
Conservato nell'università americana di Yale, il manoscritto prende il nome dall'antiquario polacco Wilfrid Voynich che lo acquistò nel 1912, anno in cui il suo luogo di origine, il Castello Aragonese di Ischia, è stato acquistato da privati.
E' stato mostrato per la prima volta al pubblico nel 1915 e da allora le sue intriganti illustrazioni e i simboli sconosciuti hanno catturato l'immaginazione degli studiosi di tutto il mondo.
Il documento contiene anche una bellissima mappa che racconta la straordinaria missione di salvataggio via nave, guidata dalla regina Maria, per salvare i sopravvissuti di un'eruzione vulcanica vicino all'isola di Vulcano, nel 1444.
Secondo Cheshire, a rendere così affascinante il manoscritto è l'uso di una lingua estinta che ha preceduto le lingue romanze moderne, delle quali fa parte l'italiano, e che era utilizzata nel linguaggio quotidiano, ma non in quello scritto: il suo alfabeto combina simboli familiari ad altri insoliti, usa le lettere come punteggiatura ed è costellato di abbreviazioni di parole latine.
Ma la sua versione non convince tutti, in primis Lisa Fagin Davis, direttrice della Medieval Academy of America che spiega:
“Come la maggior parte delle interpretazioni sul manoscritto Voynich, anche questa versione è ambiziosa: Cheshire inizia teorizzando che cosa potrebbe significare una particolare serie di segni, di solito per via della prossimità di una parola con un’immagine che crede di potere interpretare.
Poi consulta il maggior numero possibile di dizionari medievali di lingue romanze fino a quando trova una parola che sembra adattarsi alla sua teoria.
In seguito sostiene che la sua teoria è corretta, visto che ha trovato una parola in una lingua romanza che ben si adatta alle sue ipotesi. Le sue traduzioni da ciò che è essenzialmente una farneticazione, un amalgama di più lingue, sono ambizioni più che traduzioni vere e proprie”, scrive la studiosa che smonta poi anche l’ipotesi di una lingua protoromanza: “L’argomento di fondo di tutto questo, cioè che ci sia una cosa come una “lingua protoromanza” – è completamente priva di prove e in contrasto con la paleolinguistica. Infine, la sua associazione di particolari segni con determinate lettere dell’alfabeto latino è ugualmente priva di prove.
Il suo lavoro non è mai stato analizzato da altri suoi studiosi indipendenti e alla pari”.
Fonte:repubblica.it
greenme.it
lunedì 20 maggio 2019
Barcellona: torna in vita una fontana di Gaudí distrutta 70 anni fa
La famosissima Sagrada Familia, il Parc Güell, Casa Battlò con la sua passerella a trenta metri d’altezza: non si può pensare alla Spagna (e alla Catalogna in particolare) senza citare il genio di Antoni Gaudí.
Oggi, ecco che – ad un tour sulle sue orme – bisognerà aggiungere un ulteriore tappa: una fontana demolita oltre settant’anni fa che oggi è stata fedelmente ricostruita.
Installata ora dinnanzi al Museu Agbar de les Aigües, un museo interamente dedicato all’acqua che vuole raccontare a grandi e piccini l’importanza di questo elemento (e che si trova poco lontano da Barcellona), la fontana fu disegnata per Casa Vicens – il primo progetto di Antoni Gaudí nella capitale catalana, aperto al pubblico solamente nel 2017 , ed è un’opera straordinaria.
Casa Vicens fu costruita tra il 1883 e il 1885, e la fontana – chiamata Cascada e installata nel suo giardino – era un elemento artistico ma anche un meccanismo per il raffrescamento degli spazi. Nel 1945, però, la famiglia Vicens fu costretta a vendere parte dei suoi terreni a causa dell’espansione della città e dei piani urbanistici, e la fontana fu demolita per fare spazio a nuove costruzioni.
Ora, un team di esperti guidato da Josep Vicenç Gómez Serrano (specialista di Gaudí e professore di architettura all’Università politecnica della Catalogna), ne ha prodotta una replica esatta per riportare così in vita l’opera dell’architetto.
«Per raggiungere l’obiettivo, abbiamo dovuto studiare le vecchie fotografie e le planimetrie di Casa Vicens», ha raccontato lo storico Daniel Giralt-Miracle. E, sebbene l’originale fosse stata per l’appunto demolita, la ricostruzione della fontana è stata possibile grazie alle moderne tecnologie.
Sulla base di tutti i materiali raccolti, gli architetti sono stati in grado di realizzare un’accurata ricostruzione digitale, che è stata utilizzata poi come piano per ricostruire la fontana.
La costruzione in sé è durata 6 mesi, un tempo record se si considera la complessità del progetto.
La fontana è stata ricostruita utilizzando gli stessi materiali e lo stesso processo costruttivo impiegati da Gaudí: è costituita da 27.000 mattoni artigianali e da 3000 piastrelle, con l’acqua che scende a cascata dall’arco.
Una nuova tappa, che i turisti già si sono appuntati in agenda.
Fonte: siviaggia.it
venerdì 17 maggio 2019
L'affascinante storia di Mont Saint-Michel
Rannicchiato vicino alle coste della Normandia, nel Nord della Francia, c'è un piccolo isolotto tidale la cui storia risale a molti secoli fa.
Fin dal Medioevo, il luogo in cui sorse Mont Saint-Michel è stato individuato come luogo strategico.
A partire dal VI secolo in poi, infatti, l'isolotto si è evoluto gradualmente, da luogo di insediamento a sito per un'abbazia, per poi diventare una prigione nel periodo della Rivoluzione.
L'aspetto di Mont Saint-Michel è decisamente fiabesco, con il pittoresco villaggio e un'alta torre che svetta su tutto il resto.
Ma è anche e soprattutto la sua storia affascinante a renderlo uno dei luoghi di interesse più importanti della Francia.
Mont Saint-Michel è classificato come isolotto tidale roccioso. Quando c'è bassa marea è raggiungibile attraversando un argine, che viene totalmente sommerso durante l'alta marea.
Questo fenomeno ha reso Mont Saint-Michel un grande vantaggio strategico.
Ma prima ancora del ruolo militare, il sito aveva un altro scopo.
In tempi antichi, infatti, era circondato dalla foresta di Scissy, che ospitava due tribù celtiche che usavano Mont Saint-Michel per i culti dei loro druidi.
Si crede che ci fosse un santuario dedicato a Beleno, dio gallico del Sole.
Le prime strade costruite dai romani intorno al Monte vennero spostate sempre più verso est, man mano che il livello d'acqua della Manica continuava a salire.
Per diversi secoli, fino al VII d.C., il luogo venne chiamato Mont-Tomb, e fu luogo di culto per i gallo-romani.
Fin dal IV secolo, però, i primi cristiani comparvero in quella che è l'odierna Normandia.
La leggenda vuole che nell'anno 709 l'arcangelo Michele sia comparso al vescovo di Avranches, chiedendo la realizzazione di una chiesa sulla roccia.
Dopo che il vescovo ebbe ignorato la richiesta, l'arcangelo lo punì bruciandogli il cranio, e questo lo convinse con più facilità. Instaurò così un oratorio in una grotta sull'isolotto, che iniziò ad essere chiamato Mont-Saint-Michel-au-péril-de-la-Mer.
Nei secoli successivi la chiesa sarebbe stata sottoposta a un gran numero di cambiamenti.
Nel 966 è stata ridisegnata in stile pre-Romanico, un'estetica che univa elementi mediterranei a quelli germanici.
Ma nel secolo successivo venne costruita nuovamente, e le fu conferita un'estetica romanica caratterizzata da archi, soffitti a volta e piccole finestre.
Dopo un incendio appiccato dai Bretoni, venne ricostruita un'ultima volta nel XIII secolo, stavolta con elementi tipici dell'architettura gotica.
Questa ultima versione dell'abbazia, rispetto alle precedenti, era ancora più alta e imponente.
Victor Hugo descrisse Mont Saint-Michel come "il castello fatato piantato in mezzo al mare".
"Il Mont Saint-Michel è per la Francia ciò che la Grande Piramide è per l'Egitto" scrisse il celebre artista.
Insieme all'abbazia l'Alto Medioevo portò sull'isolotto anche una serie di piccole abitazioni.
Il villaggio è fiorito sul lato sud-orientale della rocca, ed è circondato da mura che risalgono, per la maggior parte, alla Guerra dei Cent'Anni.
A partire dal XVI secolo l'isola iniziò a perdere la sua funzione militare e religiosa.
L'abbazia venne chiusa nel 1791, due anni dopo l'inizio della Rivoluzione.
Oggi, l'abbazia è considerata un monumento storico, ed è Patrimonio dell'Umanità dell' UNESCO.
Fonte: wonews.it