giovedì 28 febbraio 2019

I lupi sono salvi! Salta la votazione sulla legge che voleva abbatterli


I lupi non si toccano e almeno per ora sono salvi. 
Al consiglio regionale Veneto, salta la votazione sulla cosiddetta ‘legge ammazzalupi”, grazie alla pressioni e alla sensibilizzazione di migliaia di persone che finora hanno protestato contro il progetto di legge. 

 “Continueremo a vigilare perché non vengano avanzate proposte di Legge finalizzate a consentire l'uccisone di lupi, né in Veneto, né altrove: i lupi non si toccano!”, scrive la Lav fiduciosa. 

 Ecco cos’era successo. 

Parliamo spesso dei lupi, animali da sempre bistrattati e considerati nemici. 
Alcune regioni italiane avevano proposto un abbattimento controllato. In particolare, nelle province autonome di Trento e Bolzano, a luglio scorso, erano state varate due leggi, una per i lupi, una per gli orsi, che ne prevedevano l’abbattimento. Fortunatamente il Consiglio dei ministri si è schierato a favore degli animali, impugnando le leggi regionali davanti alla Corte Costituzionale, perché chi detta legge sono le direttive europee e “non le velleità di chi intende sacrificare gli animali selvatici per ricevere consensi.

 Il ministro Costa, a settembre scorso, aveva detto “le impugnerò, uccidere non serve” e promettendo che per le specie protette a livello europeo non potrà esserci alcun abbattimento forzato perché la competenza sulla fauna selvatica, in particolare quella protetta o in via d’estinzione, è dello Stato.


La fauna è un bene indisponibile dello Stato e la gestione delle specie più importanti e minacciate va fatta almeno su base nazionale, avendo una visione complessiva e non localistica della loro conservazione, tanto da essere regolata da Direttive Europee e internazionali.

 Adesso, arriva un’altra buona notizia, la votazione nell’Aula del Consiglio Regionale, sulla Proposta di Legge Regionale “Misure di prevenzione e di intervento concernenti i grandi carnivori”, fortemente voluta dalla maggioranza, è saltata e per adesso i lupi sono salvi. 
 Una votazione che diciamolo, non avrebbe avuto tanto senso visto che è stato conclamato che ci sono gravi profili di illegittimità costituzionale e che secondo la Lav sarebbe stata “esclusivamente un’operazione di propaganda politica voluta da alcuni rappresentanti già noti per le loro posizioni antilupo, visto che è già risaputo che la legge non potrà mai produrre effetti”. 

 Dominella Trunfio

Pantanal, il volto più selvaggio del Brasile


Il Pantanal è la più grande pianura alluvionale del pianeta, un ecosistema unico che ricopre una superficie di circa 200mila Kmq tra gli stati brasiliani di Mato Grosso e Mato Grosso do Sul, il nord del Paraguay e la Bolivia orientale. 

Si tratta della più vasta zona umida della terra, sommersa per circa 9 mesi l’anno dalle acque del Rio Paraguay e dei suoi numerosi affluenti. 


 Il nome Pantanal deriva dalla parola portoghese “pantano” e nonostante le eterne paludi e le estese zone fangose che rendono questa zona un ambiente poco ospitale per l’uomo, qui si trova la più alta concentrazione di flora e fauna del Sud America.
 Un vero paradiso ecologico che ospita la più grande varietà di piante acquatiche del mondo e che conta ben 650 specie di uccelli, 102 specie di mammiferi, 270 di pesci e oltre 250 specie tra rettili, anfibi e insetti. 
Re incontrastato di questa impervia foresta pluviale, oltre alle numerose varietà endemiche a rischio estinzione, è senza dubbio il Giaguaro.


Durante la stagione delle piogge (ottobre-febbraio) l’intera area rimane inondata e gli animali si rifugiano nei luoghi rialzati. 

Tra aprile e maggio le acque iniziano ad abbassarsi e solo a settembre la natura esplode in tutta la sua bellezza.

 Il continuo ricambio delle acque trascina con sé il nutrimento essenziale per ogni forma animale e vegetale, regolando il ritmo della vita e assicurando loro un habitat ricco di risorse.


Nonostante le condizioni ambientali non abbiano mai consentito alcun sfruttamento di questo territorio i suoi abitanti, i pantaneiros, vivono da generazioni in sintonia con la natura selvaggia del luogo, allevando bovini e cavalli.

 Una parte del Pantanal brasiliano è entrata a far parte del Parco nazionale Pantanal Matogrossense e nel 2000 è stato inserito nell’elenco delle Riserve della Biosfera e in quello dei Patrimoni dell’umanità dell’UNESCO.




Un ecosistema incontaminato e lussureggiante, dal quale trae beneficio il mondo intero. 

 Fonte: http://mybestplace.com

mercoledì 27 febbraio 2019

PolarBearDay: così l'uomo sta cancellando gli orsi polari dalla faccia della terra


Oggi 27 febbraio è il Polar Bear Day, la Giornata internazionale dell'Orso Polare. 

Creature forti, capaci di resistere alle bassissime temperature dei Poli ma anche molto fragili, minacciati dalle conseguenze dei cambiamenti climatici e dello scioglimento dei ghiacciai. 
Una specie a rischio, che sta facendo le spese della pesante impronta umana sulla Terra. 
 Suo malgrado, infatti, l'orso polare è diventato proprio il simbolo della lotta ai cambiamenti climatici e dei catastrofici impatti sul nostro pianeta, a partire proprio dal Polo Nord.

 Per gli orsi dell'Artico la lotta per la sopravvivenza si contrappone al più grande problema ambientale del nostro tempo, contro il quale questi animali non possono fare molto se non nulla. 
 Negli ultimi 30 anni abbiamo perso tre quarti della calotta polare e sono anni che il centro di ricerca statunitense National Snow and Ice Data Center registra un preoccupante record negativo dell'estensione della calotta artica. 
Pare che non se ne possa più uscire: il riscaldamento globale scioglie i ghiacciai che aiutano a raffreddare la temperatura della Terra, rendendo il nostro pianeta ancora più caldo.

 Gli orsi, purtroppo, stanno sperimentando gravi effetti. 
Sono cambiate le loro abitudini alimentari, ad esempio. 
Per la prima volta essi si sono visti costretti a mangiare i delfini.


Ma c'è di peggio. Sempre più immagini mostrano orsi polari denutriti, costretti a scavare tra i rifiuti per trovare il cibo o addirittura morti di fame. 

Un'immagine triste è quella della fotografa Kerstin Langenberger che in un'isola dell'arcipelago delle Svalbard, nel Mar Glaciale Artico, ha fotografato un orso magrissimo, emaciato. 

 Un recente studio, condotto dagli scienziati dell'Università della California Santa Cruz in collaborazione con l'US Geological Survey, ha scoperto che gli orsi polari stanno affrontando una crescente lotta per trovare cibo a sufficienza per sopravvivere mentre i cambiamenti climatici trasformano costantemente il loro habitat.
 Di fatto, la loro estinzione potrebbe essere più vicina di quanto pensiamo. 

 Due anni fa, Jenny E. Ross dell'International League of Conservation Photographers (ILCP), ci ha mostrato cosa accade a Manitoba, in Canada dove gli orsi vanno a caccia nelle discariche.


A novembre 2016, il fotografo Lars Ostenfeld dopo 12 anni è tornato a visitare la baia di Hudson, in Canada, nota da sempre come la capitale degli orsi polari.
 Ebbene, non c'era più neve.


O ancora, succede anche che gli orsi finiscano per diventare creature da mettere in bella mostra, com'è accaduto in un centro commerciale cinese.


Anche noi, nel nostro piccolo, possiamo fare per qualcosa per salvare i meravigliosi orsi polari.
 Basta seguire alcune semplici accortezze che indirettamente riducono la nostra "impronta" sul pianeta: regoliamo sempre il termostato di casa o dell'ufficio a pochi gradi. 
Ricordiamoci che 20 gradi, con 2 di tolleranza, è il limite massimo di temperatura stabilito da una normativa nazionale (DPR 412/1993 modificato dal DPR 551/99) per abitazioni, uffici, scuole e negozi. Per ogni grado di temperatura oltre questa soglia, per tutto l'inverno, la spesa di riscaldamento aumenta del 6 o 7%. 
E di conseguenza aumentano le emissioni nell'ambiente. Investiamo, inoltre, in efficienza energetica, usiamo poco l'auto e tanto la bici. 
 E, soprattutto, insegniamo ai nostri figli a vivere una vita sostenibile! 

 Fonte: greenMe.it

martedì 26 febbraio 2019

La leggenda del mandorlo in fiore


Il mandorlo è un albero bellissimo e dal profondo significato.
 Già a marzo si veste in festa con i suoi meravigliosi fiori, è il primo albero a fiorire e proprio per questo è simbolo di rinascita e di resurrezione. 
 Preannuncia la bella stagione che sta per arrivare e fiorisce così, come all’improvviso ad annunciare che il gelo e il buio dell’inverno è ormai al termine.
 I suoi rami sembrano innalzarsi al cielo per dare il benvenuto festosi e profumati alla primavera imminente.


Nella mitologia greca il significato del mandorlo è attribuito alla speranza e alla costanza e i suoi semi commestibili, le mandorle, sono da sempre considerati divini perchè protettori della verità (il loro guscio forte e duro custodisce il seme-verità conoscibile solo se si riesce a spaccare la scorza).


 Legata al mandorlo vi è un’antichissima leggenda, una storia d’amore mitologica: la storia di Fillide e Acamante.


Acamante, eroe greco, si trovava in viaggio verso Troia. Durante una sosta a Tracia conobbe la principessa Fillide. 
Appena i due si videro nacque un amore profondo. 
Acamante dovette però lasciare la sua amata per andare a combattere a Troia. 
Fillide lo aspettò per 10 anni ma quando venne a conoscenza della caduta di Troia e non vedendo l’innamorato tornare pensò che fosse morto e si lasciò morire di dolore. 

 La dea Atena impietosita dalla storia degli innamorati trasformò Fillide in un mandorlo e quando Acamante, in realtà ancora in vita, venne a conoscenza di questa trasformazione, si recò nel luogo dove c’era l’albero e lo abbracciò con amore e con dolore. 
Fillide sentì quell’abbraccio e fece spuntare dai rami dei piccoli fiori bianchi.

 L’abbraccio dei due innamorati si mostra ogni inizio di primavera a testimoniare l’amore eterno tra i due. 

 Fonte: eticamente.net

Corsa contro il tempo per salvare la bellissima Mont-Saint-Michel dalla plastica


Invaso dalla plastica.
 L'isolotto di Mont-Saint-Michel, Patrimonio mondiale dell’umanità, sta vivendo la sua stagione più buia: la sua baia è disseminata di rifiuti di plastica che arrivano dai vicinissimi allevamenti di mitili: 120 aziende, con circa 600 dipendenti, che producono alcune delle ostriche più famose della Francia e le uniche cozze locali che vantano la denominazione Doc. 

 A denunciare la situazione è Pierre Lebas, presidente dell'associazione Amis du rivage de la baie du Mont-Saint-Michel: «È inaccettabile che su un sito così favoloso come Mont-Saint-Michel, Patrimonio mondiale dell'Unesco, gli escursionisti possano ritrovarsi faccia a faccia con un mucchio di rifiuti di plastica».


Secondo quanto riportato da Le Parisien, per proteggere le loro produzioni di pregio, i professionisti utilizzano reti e coni per evitare che i granchi e gli uccelli raggiungano cozze e ostriche. Materiali plastici che, durante le maree e le tempeste, il mare strappa dall'allevamento per poi «scaricarli» nella baia. 

 Gli ambientalisti ora chiedono azioni mirate per difendere l’ambiente e l’immagine di Mont-Saint-Michel. Ma gli allevatori alzano le spalle:
 «Sarebbe suicida trascurare l’ambiente dal quale siamo interamente tributari. Ma il mare e le tempeste sono perfino più forti dei materiali che utilizziamo. È vero, c’è una parte di perdita di questi rifiuti, ma non lo possiamo evitare», ha dichiarato Sylvain Cornée, vice-presidente del Comité régional de la conchyliculture della Bretagna del Nord, ricordando che gli allevatori «si rivolgono a un’associazione che, tre giorni al mese, raccoglie i rifiuti lungo il litorale». 

 Poi c'è anche da dire che gli allevatori non sono gli unici a generare rifiuti, che vengono gettatati in mare anche da pescatori e turisti, peggiorando la situazione, che per ora non ha una soluzione, se non nell'uso del buon senso dalla parte di tutti. 

 Fonte: lastampa.it

lunedì 25 febbraio 2019

Questa tartaruga gigante non è estinta. Dopo 100 anni ritrovata nelle Galapagos


Dopo più di un secolo dall’ufficializzazione della sua estinzione, una tartaruga gigante endemica dell’isola Fernandina è stata ritrovata nel meraviglioso Arcipelago delle Galapagos.


 Inserita dall’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) nella lista degli animali estinti nel lontano 1906, si tratta una femmina adulta appartenente alla specie Chelonoidis Phantasticus, individuata da una spedizione di esperti del Parco nazionale delle Galapagos e dell’Ong statunitense Galapagos Conservancy e per ora trasportata in un centro di riproduzione sulla vicina isola di Santa Cruz.

 Gli esperti ritengono che non sia la sola, perché sarebbero evidenti le tracce e l'odore di altre tartarughe probabilmente della stessa specie.




La tartaruga gigante Fernandina è una delle 14 specie di tartarughe giganti originarie delle isole Galapagos e molte di esse sono in pericolo di estinzione. 

Le tartarughe sono state uccise negli ultimi due secoli ma questa scoperta costituisce un buon motivo per sperare in un futuro migliore. 

 “Questo ci incoraggia a rafforzare i nostri piani di ricerca per trovare altri (tartarughe), che ci permetteranno di avviare un programma di allevamento in cattività per recuperare questa specie”, racconta Danny Rueda, direttore del Parco Nazionale delle Galapagos.


L'arcipelago delle Galapagos comprende 19 isole nell'Oceano Pacifico a circa 1.000 km dalla costa ecuadoriana. 

Fernandina, la terza più grande e più giovane delle isole, rimane la più vulcanicamente attiva. 

Le Galapagos furono dichiarate parco nazionale nel 1959 e patrimonio mondiale dell'Unesco nel 1978 e ad oggi qui ci sono ben undici specie di tartarughe giganti: cinque a Isabela, una a San Cristobal, due a Santa Cruz, una a Espanola, una a Pinzon e una a Santiago. 

 Speriamo che questo posto magnifico si ripopoli di queste centenarie abitanti! 

 Germana Carillo

venerdì 22 febbraio 2019

I nativi americani utilizzavano reti di condivisioni simili ai nostri social media


Anche i nativi americani utilizzavano delle reti di condivisioni che ricordano molto i social media della nostra generazione, chiaramente con strumenti diversi. 

A stabilirlo è un nuovo studio pubblicato su PNAS. 

Molto tempo prima che Snapchat, Instagram, Facebook e persino l’indimenticabile MySpace entrassero a far parte della nostra quotidianità, anche i nativi americani degli Appalachi meridionali utilizzavano dei sistemi di comunicazione e delle reti di condivisioni che ricordano (con le dovute accortezze del caso) i nostri canali social.

 La ricerca è stata condotta dalla Washington University di St. Louis. 
 “Proprio come abbiamo le nostre reti di ‘amici’ e followers su piattaforme come Facebook e Twitter, anche i nativi americani tra il 1200 e il 350 avevano le loro reti di condivisioni”, spiega Jacob Lulewicz, docente di archeologia nel Dipartimento di Antropologia in Arte e Scienze. 

 Lo studio ha trovato il modo di ricostruire tali reti di comunicazioni sostenendo che queste hanno gettato poi la base per lo sviluppo di sistemi politici successivi. 

Vediamo allora come funzionava questo sistema che univa amici e famiglie di villaggi vicini ben prima dell’arrivo degli esploratori europei. 

 Chiaramente non parliamo di giga, di post su Facebook o di tweet, ma di un archivio di messaggistica che avveniva tramite tavolette di ceramiche ritrovate a dozzine nei siti vicino al Mississippi.
 I frammenti in ceramica rappresentano un patrimonio incredibile: 276.626 sono stati trovati in 43 siti nel Tennessee orientale e 88.705 frammenti in 41 siti nel nord della Georgia.


La collezione rappresenta tavolette in ceramiche creata tra l’800 e il 1650 d.C., un periodo che ha visto l’emergere graduale e il successivo declino di intere dominazioni che controllavano i villaggi locali.

 Gli scienziati si sono concentrati sull’evoluzione e sui cambiamenti di queste ceramiche, ovvero la loro forma, i simboli culturali utilizzati per decorarli e via dicendo arrivando alla conclusione che questi reperti rappresentano una mappa cronologica dettagliata delle connessioni esistenti tra diverse comunità.

 Lo studio si concentra sui villaggi raggruppati attorno al sito di Etowah nella contea di Bartow, in Georgia, un’importante comunità Mississippiana dove c’erano perfino grandi edifici cerimoniali.
 Uno di questi serviva come sede regionale del potere sociale, politico, economico e religioso di tutta la regione.
 E ancor prima che arrivassero gli europei, la leadership di chi stava al potere era fortemente influenzata proprio da ciò che veniva inciso su queste ceramiche. 

 “Quello che abbiamo dimostrato in questo studio è che mentre i domini e i capi cambiavano, le fondamenta della società così come la rete di parentela e amicizia con le persone dei villaggi vicini, rimanevano intatte, grazie a questo tipo di comunicazione”, scrive Lulewicz nello studio.

 Questa scoperta suggerisce che i legami sociali hanno sempre giocato un ruolo importante nell’aiutare le società a coalizzarsi con o contro i leader e le classi dominanti.

 E’ proprio per questo motivo che i ricercatori rimandano al ruolo dei social network attuali. 

 “Queste reti di comunicazione sono state una costante sociale per queste persone e hanno permesso alle loro culture di persistere per migliaia di anni anche attraverso trasformazioni che avrebbero potuto essere catastrofiche”. 

 Dominella Trunfio

In Svizzera c’è una città devota al numero 11


Undici chiese, undici fontane, undici torri.
 E poi ancora undici musei, undici pozzi e un orologio con undici numeri. 

In Svizzera c’è una città devota al numero 11: si tratta di Soletta, città romana dalle fattezze barocche, l’undicesimo stato della Confederazione nella lista dei cantoni.

 La storia della città di Soletta è inestricabilmente legata al numero undici, a partire dalla cattedrale di Sant’Orso e San Vittore (o St. Ursenkathedrale) costruita tra il 1762 e 1783 (in 11 anni!) dall’architetto di Ascona Gaetano Matteo Pisoni.


Il campanile misura 6 metri per 11. 
Sulla torre sono appese undici campane mentre all'interno ci sono undici altari, visibili tutti insieme solo da un posto : dall’undicesima pietra nera della navata. 
Le scale sono formate da 11 gradini e il numero delle pipe dell’organo sono multiplo di 11.


Gli abitanti di Soletta chiamano persino la loro birra Oufi, che nel dialetto regionale significa appunto undici. 
Il «numero magico» compare poi in molti nomi e viene celebrato in modo speciale nelle ricorrenze famigliari, per i compleanni e gli anniversari. Vietato qui non celebrare gli 11 anni, i 22, 33, 44 e così via. 

 Fra le cose da non perdere in città c’è senz’altro la torre dell’orologio con il suo quadrante astronomico e l’antico carosello con un cavaliere, uno scheletro e un re con un berretto da giullare che ad ogni rintocco - tutti i giorni dal 1545 - rovesciano la clessidra.






Ma il «vero» orologio di Soletta non si trova nella piazza principale, bensì sulla facciata di una banca, in piazza Amthauspl: un'opera di 3 metri creata dall’artista Paul Gugelmann Gretzenbach con un quadrante a undici ore, che suona la canzone di Soletta alle 11 e a mezzogiorno, poi nuovamente alle 17 e alle 18.



Fonte: lastampa.it

mercoledì 20 febbraio 2019

Un eccezionale affresco di Narciso a Pompei


Nella domus dove pochi mesi fa era stato rinvenuto il quadretto di Leda e il cigno, è stato scoperto uno splendido affresco del mito di Narciso.
 Il dipinto si trova nell’atrio della lussuosa casa, a fianco delle figure di menadi e satiri. 
Narciso è raffigurato secondo l’iconografia classica, nell’atto di specchiarsi nell’acqua, rapito dalla sua immagine.


Gli scavi di questa domus hanno portato alla luce un ambiento ricco e raffinato.
 Già il corridoio di ingresso accoglieva gli ospiti con l’immagine vigorosa e di buon auspicio di Priapo. 
La stanza con l’affresco di Leda era invece una camera da letto: le decorazioni in IV stile mostrano delicati ornamenti floreali, intervallati da grifoni con cornucopie, amorini volanti, nature morte e scene di lotte tra animali. 

Ora è tornata la luce anche una parte dell’atrio della casa, con pareti dai colori ancora vividi e un magnifico affresco di Narciso al centro di un muro. 

Anche il soffitto, rovinosamente crollato durante l’eruzione del Vesuvio, era decorato con affreschi. 
I frammenti sono stati recuperati e i restauratori cercheranno di ricomporne la trama. 

Su un muro sono ancora visibili le tracce delle scale che conducevano al piano superiore. 
Ma ancora più interessante è quel che c’era nel sottoscala, utilizzato come deposito: una dozzina di contenitori in vetro, otto anfore e un imbuto in bronzo.
 Una situla bronzea (un secchio per liquidi) è stata invece rinvenuta accanto all’impluvio.




«La bellezza di queste stanze, evidente già dalle prime scoperte, ci ha indotto a modificare il progetto e a proseguire lo scavo per portare alla luce l’ambiente di Leda e l’atrio retrostante – dichiara la Direttrice Alfonsina Russo – Ciò ci consentirà in futuro di aprire alla fruizione del pubblico almeno una parte di questa domus.
 Lo scavo è stato possibile nell’ambito del più ampio intervento di messa in sicurezza e riprofilamento dei fronti di scavo, previsto dal Grande Progetto Pompei, che sta interessando gli oltre 3km di perimetro che costeggia l’area non scavata di Pompei. 
Nel rimodulare la pendenza dei fronti che incombevano minacciosamente sulle strutture già in luce, sono venute fuori questi eccezionali ritrovamenti.
 In questa delicata fase, il collega Massimo Osanna sta proseguendo la direzione scientifica dello scavo per fornire il suo prezioso e competente supporto e garantire una linea di continuità scientifica alle attività di scavo».

 «Proseguono le straordinarie scoperte di questo cantiere – dichiara Massimo Osanna – Si ripropone nell’atrio della casa la scena di un mito, quello di Narciso, ben noto e più volte ripetuto a Pompei. Tutto l’ambiente è pervaso dal tema della gioia di vivere, della bellezza e vanità, sottolineato anche dalle figure di menadi e satiri che, in una sorta di corteggio dionisiaco, accompagnavano i visitatori all’interno della parte pubblica della casa.
 Una decorazione volutamente lussuosa e probabilmente pertinente agli ultimi anni della colonia, come testimonia lo straordinario stato di conservazione dei colori».



Fonte: ilfattostorico.com

martedì 19 febbraio 2019

200 cani destinati al macello salvati da un allevamento di carne in Corea del Sud


Ferite non curate, ammassati l’uno sull’altro senza possibilità di muoversi in gabbie tenute all’esterno anche con rigide temperature. Il tutto succedeva in una sorta di fattoria coreana a circa 150 chilometri a sud della capitale Seoul, trasformata in un allevamento di cuccioli di cani, alcuni destinati al macello, altri ad essere venduti come animali domestici.
 Una situazione che andava avanti ormai da otto anni e che finora non era mai stata cambiata. 

A salvare 200 cani tra chihuahua, bulldog francesi, Yorkshire terrier, barboncini e meticci è stata la HSI, un ente di beneficenza per animali che da anni si batte per i diritti degli amici a quattro zampe.



Così non solo i cani sono stati salvati da una fine ignobile, ma la fattoria è stata finalmente chiusa, evitando così che altre vittime innocenti, finissero nelle mani di allevatori senza scrupoli. Parliamo di cani che non avevano mai conosciuto la libertà, che non avevano mai corso felici nell’erba.


Vivevano in gabbie di ferro poggiate sul cemento, esposti a lampade e senza mai vedere la luce del sole.
 Carne da macello, insomma, in attesa di essere servita nei ristoranti locali. 

L’operazione è iniziata il 13 febbraio e adesso i cani saranno trasferiti in Stati Uniti e Canada in attesa di essere adottati.

 Questa storia ha un bellissimo lieto fine, ma in Corea del Sud ogni anno circa un milione di cani viene mangiato. 
Una tradizione che indigna, ma che purtroppo continua ad esistere. 


"Questi cani non sono diversi dagli altri, adesso hanno bisogno di cure amorevoli", ha detto a AFP Kelly O'Meara, un funzionario della HSI.




Questa fattoria è la 14esima chiusa dal 2015 per gli stessi identici motivi. 

 Dominella Trunfio

lunedì 18 febbraio 2019

Kylemore Abbey, fuga d’amore in Irlanda


Il San Valentino è appena passato ma non per questo bisogna rinunciare alla ricerca di dimensioni (e situazioni) magiche che urlano romanticismo.
 L’amore, il più nobile dei sentimenti, è come una fiamma: deve essere alimentato per rimanere acceso. E non di certo una solta volta l’anno. 

Chi ha voglia di emozionarsi ed emozionare può prendere di mira l’Irlanda più autentica, ovvero la regione del Connemara , soprannominata luogo di “selvaggia bellezza” da Oscar Wilde, per scoprire con i propri occhi un vero e proprio gioiello: la Kylemore Abbey . 

 Questa meravigliosa tenuta custodisce una bella, anche se tragica, storia d’amore che rimanda alla fine dell’800: quella tra Margaret Vaughan e Mitchell Henry, un medico inglese originario di Manchester che, alla morte del padre (commerciante di cotone di origini irlandesi), ereditò una fortuna.

 Dopo aver abbandonato la carriera medica, si dedicò alla politica: era convinto che, con il suo operato, potesse apportare grandi benefici tanto al territorio quanto ai locali fortemente provati dalla grande carestia che aveva colpito il Paese. E aveva ragione. Trasformò migliaia di ettari di terra aspra e inospitale in zone agricole produttive, creò nuovi posti di lavoro e, addirittura, una scuola per i figli dei suoi dipendenti.


Una volta convolato a nozze, decise di acquistare quel padiglione di caccia che tanto aveva colpito la moglie, nel 1852, durante la luna di miele per trasformarlo nella casa dei sogni.

 La Kylemore Abbey rappresentava il posto ideale in cui crescere i loro figli lontano dal caos di Londra e, soprattutto, dall’inquinamento delle città industriali inglesi dell’epoca. Purtroppo però nella vita reale le cose non vanno sempre come si legge nelle più belle fiabe in cui tutti vissero felici e contenti.


Era il 1874 quando la famiglia Henry si recò in Egitto ma quella che doveva essere una vacanza si rivelò un incubo.
 Margaret infatti, a causa della dissenteria, morì a soli 45 anni. 

La notizia spezzò il cuore di Mitchell che, pur di averla sempre accanto, fece imbalsamare il corpo della sua amata per riportarla a Kylemore e collocarla in un mausoleo costruito nei boschi.
 Proprio qui il suo amato la raggiunse, nel 1910, quando venne a mancare. 

Successivamente la tenuta passò prima nelle mani del nono duca di Manchester e poi, nel 1929, venne acquistata dalle monache benedettine scappate dal Belgio dopo che l’abbazia di Ypres venne distrutta durante la Prima Guerra Mondiale.

 Ebbene sì proprio qui venne istituita, nel 1923, la Girl’s Boarding School, un collegio femminile la cui fama fece il giro del mondo tanto da richiamare l’attenzione di innumerevoli studenti stranieri. Tra le più famose studentesse si ricordano l’attrice americana Angelica Huston nonché due principesse indiane, nipoti di Sua Altezza Maharaja Ranjit . 

 Nel 2010 la scuola venne chiusa ma la struttura è rimasta comunque un punto di riferimento per le religiose che, tutt’oggi, grazie a donazioni e all’aiuto di volontari, portano avanti le loro attività.
 Si dedicano infatti alla produzione di saponi e del cioccolato e ancora della manutenzione dei giardini e della tenuta stessa. 

Tutti possono ammirare con i propri occhi quella che è stata definita ‘la più grande attrazione turistica dell’Irlanda Occidentale’: alcune delle stanze, infatti, sono aperte al pubblico come le sale da ricevimento e quelle da pranzo.


E che dire poi degli spazi esterni? A incantare è la ricca tavolozza di colori che caratterizza il Victorian Walled Garden dove, in una superficie di circa 6 ettari, è possibile ammirare antichissime piante, le serre, gli alberi da frutta nonché il giardino delle erbe aromatiche. 
Ma non solo, il punto di partenza è ideale per godersi romantiche passeggiate alla volta di affascinanti percorsi naturalistici che, tra laghi e boschi, sono in grado di mozzare il fiato.




A regalare una romantica pausa è poi la Tea House, molto più che un semplice bar, è un vero angolo di quiete avvolto in un contesto unico così come il Mitchell’s Café e il Craft&Design Shop dove concedersi un delizioso pasto e acquistare qualche souvenir per portare sempre nel cuore il ricordo di questo magico luogo.




Non in ultimo, degna di nota l’incantevole chiesa neogotica fatta costruire da Mitchell stesso in onore della sua Margaret.

 Non aspettatevi però mostri di pietra come i famosi Gargoyles perché, al loro posto, ci sono bellissimi angeli sorridenti.
 E’ proprio con il sorriso che bisogna ricordare questo posto magico frutto di una bellissima storia d’amore. 

 Fonte: lastampa.it

venerdì 15 febbraio 2019

Scoperto lo scheletro di una giovane ragazza egiziana alla base di una piramide di 4.600 anni fa


La scoperta è stata fatta alla base della piramide di Meidum, un sito archeologico a circa 100 chilometri a sud del Cairo, a pochi passi dal fiume Nilo, secondo un annuncio fatto questa settimana del Ministero delle Antichità di Egiziano . 
Anche se non ci sono ancora prove che suggeriscano quando fu sepolta, la piramide alla cui base è stato fatto il ritrovamento, è stimato sia stata costruita 4.600 anni fa, all’incirca nel periodo in cui furono costruite le prime piramidi in Egitto.

 Basandosi su uno studio delle ossa, gli archeologi ritengono che i resti appartenessero a una femmina adolescente, forse di età intorno ai 13 anni. 
Un piccolo muro di mattoni circonda il sito di sepoltura, suggerendo che la zona fosse un tempo un cimitero.
 Attualmente è un mistero chi fosse questa adolescente, tuttavia ci sono alcuni suggerimenti intriganti con cui i ricercatori potranno lavorare. 
Lo scheletro era situato accanto a tre piccoli vasi e un papiro sigillato, che gli archeologi stanno attualmente tentando di decifrare.


Curiosamente, la tomba conteneva anche i teschi di due tori. Ancora una volta, è sconosciuto il motivo per cui si trovano esattamente questi due teschi, ma la figura del toro compare spesso nell’antica mitologia egizia. 
Apis , ad esempio, era una divinità che veniva spesso rappresentata come un toro per rappresentare forza e fertilità. 

Questo da solo non ha molto rilievo, ma di solito le persone che sono state sepolte accanto a tali simboli, e in una posizione così prominente, probabilmente avevano uno status sociale rispettato o privilegiato. 

 Meidum sarebbe stata iniziata sotto Huni, l’ultimo faraone della III dinastia , il cui regno terminò intorno al 2600 aC, ma fu completata sotto il suo successore Sneferu. 

Come si può vedere nelle immagini, la struttura non è simile alla tipica piramide. In effetti, ricorda a malapena una piramide dopo secoli di rovine, quindi viene spesso definita “el-haram el-kaddab”, che in arabo significa “Falsa Piramide”.


Si pensa che i lavori di costruzione siano iniziati come una piramide a gradoni, come molte delle prime piramidi egizie, ma fu trasformata poi in una vera piramide. 

Vi sono numerose teorie sul perché siano stati cambiati i piani a metà della costruzione, tuttavia, secondo Live Science, alcuni suggeriscono che questa piramide mostra uno dei primi tentativi degli egiziani di creare una vera piramide usando tentativi ed errori. Ciò è davvero notevole se si considera che il successore di Sneferu, Khufu, è stato accreditato di aver commissionato la Grande Piramide di Giza , il monumento colossale considerato la più alta struttura costruita dall’uomo nel mondo per oltre 3.800 anni. 

Tratto da www.iflscience.com