lunedì 3 dicembre 2018

Un mini villaggio in giardino per topini nelle foto di Simon Dell


Recentemente, il fotografo naturalista Simon Dell si è imbattuto in una famiglia di topini che abitavano nel suo giardino, ma invece di mettere delle trappole per catturarli, ha costruito un villaggio in miniatura e i topini riconoscenti lo hanno ripagato posando davanti alla sua macchina fotografica.


In un'intervista Dell racconta: 
"Ero fuori in giardino a scattare foto agli uccelli e avendo appena tagliato l'erba ho notato qualcosa che si muoveva per terra.
 Ho puntato la mia macchina fotografica in basso e sono rimasto scioccato, ma molto felice, nel vedere un piccolo topolino, molto carino, in piedi proprio nell'erba appena tagliata. 
 Ho intuito subito era una star!
 Così tornai di corsa in casa per prendere un paio di noccioline per lui. Poi mi sono seduto lì ad aspettare. 
Erano passati solo pochi minuti che tornò fuori per i dolcetti.
 Fu a quel punto che pensai di costruirgli un piccolo riparo, un posto sicuro dove nascondersi e nutrirsi.


Il topolino se ne andò all'inizio della primavera di quest'anno, forse per trovare una compagna. 
Quindi ho sperato nel suo ritorno.

 All'inizio c'era solo un topo. 
Aveva un taglio su un orecchio e noi lo abbiamo chiamato George. Nel frattempo, sperando nel suo ritorno ho accatastato dei piccoli tronchi attorno a una scatola per preparargli una casa e l'ho anche coperta con muschio e paglia. 
Ho anche fatto un piccolo recinto di protezione in modo che eventuali gatti o altri animali possano raggiungere la piccola abitazione. 

 Qualche giorno fa ho notato del movimento e mi sono reso conto che forse c'era più di un topo.
 Infatti ce erano alcuni e quindi ho continuato ad ingrandire il piccolo villaggio per loro.


I topi sembrano amare le casette di legno e non hanno perso tempo a trasferirsi.
 Sono animali selvatici, quindi scappano ancora se mi avvicino o mi muovo troppo velocemente, ma spesso riesco a sedermi a pochi metri di distanza con uno zoom e sembrano felici di entrare e uscire dai loro rifugi per un seme.


I topi sono ancora qui e vivono una vita molto felice.
 Ora le giornate sono più brevi ed escono meno spesso. Una volta che fa buio, può essere difficile vederli. 
Tuttavia, durante il giorno, li vedo uscire infatti il mattino dopo il cibo è sempre sparito. 

 Oltre al cibo, frutta e semi, ultimamente ho aggiunto anche una manciata di piume tolte da un vecchio cuscino e loro le prendono naturalmente soddisfatti per rivestire i loro letti e tenersi al caldo in queste fredde notti del Regno Unito". 


 Fonte: tulipanorosa

Scoperto l’anello di Ponzio Pilato: potrebbe averlo indossato alla condanna di Gesù


Tra le centinaia di reperti recuperati nel 1968 e nel 1969 dal sito archeologico dell'Herodion, in Cisgiordania, se ne nascondeva uno dall'incredibile valore storico: l'anello di Ponzio Pilato. 

L'oggetto, in bronzo e deteriorato, fino ad oggi era considerato di scarso interesse, ma grazie a un macchinario di ultima generazione un team di scienziati israeliano è riuscito a decifrarne le criptiche iscrizioni.
 Shua Amurai-Stark del Dipartimento di Arte ed Estetica presso il Kaye Academic College e Malcha Hershkovitz dell'Università Ebraica di Gerusalemme a fianco della coppa centrale hanno rilevato il nome di Ponzio Pilato.
 Fu il famigerato prefetto di Gerusalemme (all'epoca provincia romana) che governò in Giudea tra il 26 e il 36 dopo Cristo, noto per aver a processato e condannato Gesù alla crocefissione, in base a quanto riportato dai testi sacri.

 Non c'è l'assoluta certezza che l'anello appartenesse proprio a questa controversa figura, tuttavia ci sono diverse prove a sostegno. Innanzitutto, come dichiarato dal professor Danny Schwartz sul quotidiano israeliano Haaretz, “quel nome era raro nell’Israele di quei tempi”, aggiungendo che non conosce nessun altro Pilato di quel periodo.
 L’anello mostra inoltre che il proprietario era una persona di “rango e benestante”, anche se il gioiello era tutto fuorché raffinato. Probabilmente, spiegano gli studiosi, Pilato lo indossava tutti i giorni, e lo avrebbe avuto anche quando fece il gesto di lavarsi le mani davanti alla folla, sostenendo di non essere responsabile del sangue (della morte) di Gesù pur condannandolo.
 Proprio dal suo gesto deriva il detto di lavarsi le mani, ovvero di non interessarsi a una questione e non prendere una decisione al riguardo. 

 Poiché non è possibile stabilire l'età esatta dell'anello, gli archeologi debbono affidarsi al luogo in cui è stato trovato.

 In questo caso si tratta di un giardino con ruderi, la cui costruzione non è sicuramente superiore al 70 dopo Cristo.
 Di conseguenza, l'epoca di riferimento abbraccia anche quella in cui avrebbe governato Ponzio Pilato e sarebbe stato crocifisso Gesù. 

L'anello faceva parte di una collezione di centinaia di reperti recuperati dall'archeologo Gideon Foerster circa mezzo secolo fa, che scavò con la sua squadra – dopo la Guerra dei Sei Giorni – in una sezione della tomba di Erode e nell'omonimo palazzo. 

Dopo aver celato a lungo il suo segreto, l'anello si è improvvisamente trasformato in uno dei pezzi più pregiati emersi dal complesso archeologico. 

I dettagli sono stati pubblicati nel volume 68/2 della rivista scientifica Israel Exploration Journal a cura della storica Israel Exploration Society .


 Fonte: https://scienze.fanpage.it/

Una piccola Babele su un'isola australiana


La comunità di Warruwi sull'isola di South Goulburn, un fazzoletto di terra ricoperta di foreste al largo della costa settentrionale australiana, è uno degli ultimi luoghi al mondo in cui convivono, in una stretta porzione di territorio, diverse lingue indigene: addirittura 9, per l'esattezza, su una popolazione di circa 500 abitanti. 
Una è l'inglese, ma poi ci sono il Mawng, il Bininj Kunwok, lo Yolngu-Matha, il Burarra, lo Ndjébbana e il Na-kara, il Kunbarlang, l'Iwaidja, il creolo dello Stretto di Torres.


Come ci si parla, a Warruwi? 
Non, come ci si potrebbe aspettare, esclusivamente in inglese. E neppure si tratta di un'isola di poliglotti.

 Gli abitanti del luogo riescono a comprendersi perché ciascuno capisce alcuni o tutti gli altri idiomi, ma continua a rispondere nel proprio: un fenomeno diffuso e noto come multilinguismo recettivo, che a Warruwi trova una delle sue massime espressioni. 

Molti anglofoni che vivono in zone di confine negli Stati Uniti, per esempio, comprendono lo spagnolo perché vi sono stati esposti, anche se lo parlano poco. E molti immigrati di seconda generazione parlano e scrivono la lingua del Paese in cui vivono, anche se continuano a capire la lingua dei genitori. 

 Ruth Singer, linguista dell'Australian National University, ha recentemente studiato il multilinguismo recettivo a Warruwi e riportato le sue osservazioni in un articolo su Language and Communication. 
«Quando ho iniziato a lavorare al multilinguismo e a prestare attenzione a come le persone utilizzavano i diversi linguaggi, ho iniziato a sentire conversazioni in multilinguismo recettivo in tutta Warruwi, per esempio tra due uomini che lavoravano per riparare una staccionata, o tra due persone in un negozio», spiega Singer all'Atlantic.

 In questa comunità le diverse lingue sono associate ad altrettante origini territoriali, e la lingua è considerata "una proprietà" del clan di origine.
 Passare a un idioma diverso dal proprio (nella fattispecie da quello trasmesso dal padre) significa reclamare qualcosa che non appartiene - si può parlare una lingua soltanto se si ha "il diritto" di farlo.
 Nessuna restrizione vige, al contrario, sulla possibilità di comprendere una lingua diversa dalla propria: ecco perché a Warruwi si è diffusa questa forma di comunicazione "mista", che sembra funzionare e tutelare allo tempo diversità culturale e convivenza pacifica.


Anche se il multilinguismo recettivo è diffuso e istituzionalizzato anche altrove (per esempio in Svizzera, dove le lingue ufficiali sono quattro: tedesco, francese, italiano e romancio), la particolarità di Warruwi è che anche la comprensione è considerata una abilità linguistica di tutto rispetto, "da curriculum", e non una sorta di apprendimento a metà di una lingua che non si sa (o non si può, in questo caso) parlare. 

Fonte: focus.it