mercoledì 8 agosto 2018
Il mistero degli abiti al mercurio di due mummie Inca
Tra i 500 e i 600 anni fa, due ragazze di 9 e 18 anni affrontarono il loro ultimo viaggio: una scarpinata di quasi 1.200 km dalla capitale Inca Cusco, nell'attuale Perù, fino al sito di Cerro Esmeralda ad Iquique, Cile.
Una volta giunte alla meta finirono vittime di un sacrificio rituale, furono mummificate e infine sepolte con un ricco corredo: figurine metalliche, gioielli in argento, conchiglie e vesti di un colore rosso sgargiante.
La storia delle due mummie del 1399-1475 d. C. è nota dal 1976, anno del loro ritrovamento.
Ora però un articolo pubblicato sulla rivista Archaeometry fa emergere un dettaglio inquietante sui loro abiti: il colore rosso proveniva dal cinabro o solfuro di mercurio, un minerale tossico di origine vulcanica conosciuto presso altre antiche civiltà, ma mai finora attestato nelle antiche sepolture del Cile.
Le analisi chimiche degli abiti sono state condotte dagli archeologi dell'Università di Tarapacá, in Cile, che si sono interrogati sul motivo di questa scelta.
Per il colore rosso, i popoli delle Ande ricorrevano all'ematite, un ossido di ferro non tossico, largamente usato nell'abbigliamento e nel trucco.
Il cinabro era utilizzato a scopo rituale nell'antica Roma, e presso civiltà del passato di Cina, Spagna, Etiopia. Ma in questo luogo del Cile settentrionale l'impiego del minerale, soltanto sulle vesti e non sul corpo delle bambine, suona come un dettaglio del tutto esotico.
A che cosa serviva?
Forse l'obiettivo era evidenziare l'elevata estrazione sociale delle vittime.
Le ragazze furono immolate in una capacocha, una cerimonia sacrificale che marcava gli avvenimenti più importanti per il popolo Inca, legati alla vita dell'imperatore, o che aveva lo scopo di scongiurare disastri naturali.
Da quelle parti, l'unica fonte naturale di cinabro è la miniera di Huancavelica, nel Perù centrale, molto lontano dal sito di sepoltura. Per tingere quelle vesti, fu dunque necessario un lungo viaggio, un fatto che fa pensare che le vittime fossero di alto rango, e che il rituale fosse stato preparato con estrema cura.
Un'altra possibilità è che la sostanza tossica servisse ad allontanare i ladri di tombe, attratti dal colore vivace delle vesti, e facilmente "avvelenabili".
Lo stesso rischio, mettono in guardia gli autori dello studio, potrebbe interessare gli archeologi odierni, che faranno bene ad attrezzarsi per non rimetterci le penne.
L'esposizione al mercurio, infatti, può causare problemi muscolari, al sistema nervoso e al tratto gastrointestinale, ma può persino a risultare, in alcuni casi, letale.
Fonte: .focus.it
L'elmo di Milziade, l'eroe di Maratona
Ad osservarlo oggi nel museo di Olimpia, in Grecia, difficilmente potremmo immaginare gli eventi epocali di cui è stato testimone; eppure essi sembrano trasparire ugualmente dall'aurea minacciosa che esso emana.
L'elmo di Milziade ci parla, infatti, della battaglia di Maratona, una storia che non tutti conoscono e che vale la pena di essere ricordata, perché senza di essa l'Occidente e noi stessi saremmo "altro" da quello che conosciamo.
Siamo nel 490 a.C. a Maratona, in Grecia, dove la prima guerra persiana è destinata a concludersi, ma i suoi protagonisti ancora non lo sanno.
Il conflitto era stato scatenato dal re di Persia Dario I, con due obiettivi: innanzitutto, punire Atene ed Eretria per il loro precedente appoggio alla rivolta delle poleis ioniche; e al tempo stesso, estendere il dominio persiano in Europa e rafforzare la frontiera occidentale del suo vasto impero.
Inizialmente il potente impero persiano aveva avuto la meglio nello scontro, ottenendo l'obbedienza di quasi tutte le città elleniche, ad eccezione di Atene e Sparta.
Fu così che Dario lanciò la seconda temibile offensiva, che avrebbe dovuto schiacciare una volta per tutte l'opposizione. Ma, arrivati nella piana di Maratona, dove avrebbe avuto luogo l'ultimo scontro diretto, le cose andarono diversamente da quanto aveva progettato.
La schiacciante superiorità numerica dell'armata persiana, con i suoi 25.000 uomini, non riusci ad imporsi sui 12.000 soldati dell'esercito ateniese.
Questi avevano dalla loro strategia, tattica ed equipaggiamento migliori; e soprattutto, il loro comandante: Milziade.
Il generale ateniese irrobustì le ali per contrastare la cavalleria avversaria, assottigliò il centro, e coraggiosamente lanciò l'attacco, puntando tutto su sorpresa e paura.
La coralità del modo di combattere ateniese si impose su quello individuale persiano, e l'armatura integrale fu di estremo aiuto; il centro indietreggiò ma non cedette e le ali, come una morsa, si chiusero a tenaglia sui persiani.
La brillante strategia di Milziade ebbe uno strepitoso successo.
Ma non fu tutto.
I Persiani, reimbarcatisi, puntarono su Atene, per sorprenderla indifesa; Milziade, però, intuendo il piano, fece dietrofront, arrivando prima - anche se il primo fu il mitico soldato ateniese Fidippide che percorse i 42 km tra Maratona ed Atene, ispirando la moderna disciplina olimpica.
La vittoria ateniese sull'impero persiano fu talmente inaspettata e grandiosa che Milziade vi lesse l'intervento divino; e per ringraziare le divinità, donò il suo elmo al Tempio di Zeus a Olimpia, dopo avervi fatto incidere le parole "Milziade lo dedicò a Zeus".
E, a distanza di 2.500 anni, l'elmo di Milziade, pressoché intatto, continua a raccontarci della grandezza di un comandante e del coraggio del suo esercito, che cambiarono il corso della storia.
Fonte: curioctopus