mercoledì 15 febbraio 2017

Castel Sant’Angelo, possente custode della città di Roma


Possente custode del luogo più sacro della città, Castel Sant’Angelo da quasi duemila anni svetta al di sopra del Tevere, con la sua mole un tempo simbolo del potere imperiale di Roma e divenuta più tardi fortezza papale.
 Le pietre che lo compongono raccontano una storia di stratificazioni, trasformazioni e movimentate vicende che si sono susseguite nei secoli.

 Venne costruito nel 123 d.C. dall’imperatore Adriano che voleva farne una tomba monumentale per sé e per i suoi familiari. 
Il terreno su cui sorgeva, già utilizzato in tempi antichi per sepolture, si trovava in una posizione favorevole in prossimità del fiume e fu collegato alla terraferma tramite un ponte, chiamato “Elio”, uno dei nomi dell’imperatore.
 Ma Adriano morì prima che l’opera fosse portata a termine e a concluderla fu l’imperatore Antonino Pio che la utilizzò come sepolcro per la sua famiglia della quale l’imperatore Caracalla fu il più famoso rappresentante.
 Il monumento che si presentava alla vista, costituito da tre blocchi sovrapposti, doveva essere imponente.
 Sulla sommità svettava la statua di Adriano che guidava una quadriga di bronzo nella veste del sole. 
L’intera enorme costruzione era completamente rivestita di marmi preziosissimi e decorata da numerose statue.


Nel medioevo, la sua funzione fu completamente stravolta: l’enorme mausoleo fu trasformato in una fortezza e nell’arco di dieci secoli subì numerose modifiche.
 A quel tempo era una tecnica difensiva abbastanza diffusa il fatto di riutilizzare i monumenti della romanità (i teatri o le stesse tombe monumentali) all’interno delle mura per rafforzare alcuni tratti o per utilizzarli come avamposti nei punti più sensibili all’attacco dei nemici, così l’imperatore Aureliano, nel 271 d.C., lo inglobò nella nuova cinta muraria provvista di torri con cui circondò la città. 
 La sua posizione strategica di controllo all’accesso settentrionale della città, lo rendeva un avamposto fondamentale, così Castel Sant’Angelo, rafforzato da torri e mura, divenne un baluardo difensivo ai tempi delle invasioni barbariche e, già dal medioevo, si trasformò in una fortezza inattaccabile.


Il Castello mantenne nei secoli il suo ruolo difensivo, e la sua importanza aumentò soprattutto quando attorno alla tomba di San Pietro nacque il quartiere detto “Borgo”. 
Papa Leone III lo cinse con le mura, chiamate Leonine, fondando attorno al Vaticano una cittadella fortificata che fu poi completata da papa Leone IV.


Durante il medioevo Castel Sant’Angelo fu conteso fra le famiglie più potenti di Roma fino al ritorno della corte papale dal lungo soggiorno ad Avignone, nella seconda metà del 1300, quando passò definitivamente nelle mani dei pontefici. 
Al ritorno dalla Francia, papa Urbano V stabilì che l’unica garanzia del controllo su Roma era la consegna delle chiavi del castello, quindi pose a sua difesa una guarnigione francese, ma la popolazione insorse, lo occupò e tentò addirittura di raderlo al suolo.

 Bonifacio IX lo trasformò nella sua residenza, facendone una fortezza inespugnabile simbolo del potere temporale dei pontefici, collegata all’esterno con un ponte levatoio. 
Come ogni fortezza, il castello disponeva al suo interno di tutti i principali mezzi di sussistenza in caso di assedio: vi erano grandi cisterne d’acqua, granai, c’era addirittura un mulino.
 Disponeva anche di una via di fuga alternativa voluta dai papi: il cosiddetto “Passetto di Borgo”, un corridoio segreto che lo collegava alle mura leonine e al Vaticano, una comoda via di fuga che garantiva l’incolumità ai pontefici nelle situazioni di pericolo che certo non mancavano nella turbolenta Roma medievale.


Così non furono in pochi i papi che ne usufruirono percorrendolo piuttosto rapidamente: papa Alessandro VI Borgia lo usò per rifugiarsi nel castello sfuggendo alle truppe di Carlo VIII, mentre più famosa è la fuga di Clemente VII che lo sfruttò per sfuggire ai Lanzichenecchi, durante il più famoso sacco di Roma quello del 1527, correndo attraverso una pioggia di proiettili come nessun papa aveva mai fatto prima.
 Castel Sant’Angelo fu considerato talmente difficile da espugnare che i papi decisero che non esisteva posto migliore per contenere le loro ricchezze e crearono al suo interno una “Sala del Tesoro”, in cui era custodito un enorme forziere che conteneva l’erario. 
Questa enorme cassaforte fu costruita direttamente all’interno della sala e fu fatta molto più grande della porta d’ingresso proprio per impedire ai malintenzionati di riuscire a portarla via tutta intera.

 Ai primi del XVI secolo, sotto il pontificato di Alessandro VI, fu completamente trasformato.
 Fu allora che divenne una possente macchina bellica: il basamento romano divenne la base per poderosi bastioni, la via d’accesso al castello attraverso il ponte fu resa più sicura con la costruzione di un torrione cilindrico e attorno alla cinta di mura le acque del Tevere crearono un fossato. 
 Durante il Rinascimento vi lavorò anche Michelangelo e la zona degli appartamenti papali divenne sempre più sfarzosa.










Infine Bernini lo rese ancora più scenografico: reinventò completamente il ponte che lo collegava alla terraferma, che divenne ponte Sant’Angelo, e lo rese un passaggio obbligato per i pellegrini che avrebbero oltrepassato il Tevere protetti dallo sguardo rassicurante di dieci bellissimi angeli che portavano i simboli della passione di Cristo. 
 Ma la presenza degli angeli non basta a cancellare la memoria delle atrocità commesse all’interno del castello: nei suoi cortili avvenivano efferate esecuzioni per decapitazione e le teste dei condannati venivano appese ai parapetti del ponte come monito per la popolazione; nelle segrete del castello, buie, umide, oscure prigioni si consumarono le torture più spietate ed a patire le sofferenze ed il carcere più duro furono anche personaggi illustri come Giordano Bruno, accusato di eresia e messo al rogo a Campo de’ Fiori; il conte Cagliostro, mago, alchimista massone e guaritore, entrato e uscito dal carcere per truffe e rapine nel corso di una vita avventurosa e rinchiuso a Castel Sant’Angelo anche lui con l’accusa di eresia per poi essere trasferito al castello prigione di San Leo dove mori di stenti.




L’unico che riuscì ad evadere dalla fortezza fu Benvenuto Cellini, orafo, scultore e scrittore, imprigionato con l’accusa di aver sottratto beni al papa, anche se durante la fuga si fratturò una gamba. 

 Anche la musica infine, ha celebrato il monumento: Castel Sant’Angelo è lo scenario del tragico epilogo della “Tosca” di Giacomo Puccini, in cui la protagonista, sconvolta dal dolore per la perdita dell’amato e inseguita dalle guardie, si uccide gettandosi dal castello.

 L’aspetto attuale del monumento si deve ai restauri di fine ‘800. In seguito fu utilizzato come caserma.
 Nel 1925, cessate le funzioni militari, fu istituito qui il Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo che raccoglie collezioni d’arte. 

Chiunque entri a Roma oggi, dirigendosi verso il Vaticano, non può fare a meno di alzare gli occhi e ammirare quell’opera che è cambiata coi secoli e che non ha più bisogno di difendersi, custodita dalla rassicurante presenza dell’angelo che dalla terrazza più alta, con le vesti e la capigliatura mosse dal vento, vigila sulla città e ancora la protegge.



Fonte: http://umsoi.org

Amazzonia; ecco come gli antichi indigeni proteggevano la foresta


Terrapieni misteriosi che ricordano quelli di Stonehenge ma siamo dall'altra parte del mondo, nella foresta pluviale amazzonica. 
Qui oltre duemila anni fa antichi popoli realizzarono questi siti ancora avvolti nel mistero, nello stato di Acre nella zona occidentale del Brasile. 
 Questi disegni sul terreno erano rimasti nascosti ai nostri occhi per secoli per via della presenza di alberi. Ma la moderna deforestazione ne ha permesso la scoperta: si tratta di 450 grandi geoglifi geometrici, simili anche alle linee di Nazca, che occupano un'area di circa 13.000 kmq. 
 La funzione di questi siti misteriosi è ancora poco nota, è improbabile che si trattasse di villaggi visto che gli archeologi hanno recuperato pochissimi manufatti durante lo scavo. 
Esclusa anche la possibilità che fossero stati costruiti per ragioni difensive. 
È possibile che siano stati utilizzati solo sporadicamente, forse come luoghi di aggregazione rituali per le antiche poppolazioni indigene che vivevano in Amazzonia prima dell'arrivo degli europei.
 La ricerca è stata condotta da Jennifer Watling, ricercatrice del Museo di Archeologia ed Etnografia dell'Università di San Paolo, mentre stava studiando per un dottorato di ricerca all'Università di Exeter.


“Il fatto che questi siti laici siano rimasti nascosti per secoli sotto la foresta la dice lunga su quanto le foreste amazzoniche siano state ecosistemi incontaminati” ha detto Watling. “Abbiamo subito voluto sapere se la regione era già ricoperta dalle foreste quando i geoglifi vennero realizzati e in che misura le popolazioni influenzarono il paesaggio per costruire questi disegni sul terreno”. 

Il gruppo di ricerca è riuscito a ricostruire 6000 anni di storia e vegetazione intorno ai due siti che ospitano i geoglifi. 
Hanno così scoperto che gli esseri umani hanno alterato per millenni le foreste di bambù creando delle piccole radure. Ma invece di bruciare grandi tratti di foresta - sia per la costruzione dei geoglifi che per le pratiche agricole - le popolazioni dell'Amazzonia trasformavano il loro ambiente concentrandosi sulle specie arboree economicamente preziose come le palme, creando una sorta di 'supermercato preistorico' di prodotti utili forestali.
 Secondo gli scienziati, la biodiversità ancora presente in alcune delle foreste dello stato di Acre potrebbe essere il frutto di quelle antiche ma attente pratiche agroforestali. 

 “La prova che le foreste amazzoniche siano state gestitie dalle popolazioni indigene molto prima dell'arrivo degli europei non dovrebbe essere vista come giustificazione dell'azione distruttiva e non sostenibile praticata oggi su questi territori. 
Dovrebbe invece servire a mettere in evidenza l'ingegno dei regimi di sussistenza del passato che non hanno portato al degrado delle foreste, e l'importanza della conoscenza indigena nella ricerca di alternative sostenibili nell'uso dei territori”. 

 Gli antichi hanno molto da insegnarci, sempre.

 Francesca Mancuso