venerdì 29 settembre 2017

La duna più alta d'Europa è una giovane montagna di quarzo che divide il bosco dall'oceano


L'altezza non è tutto. Almeno non per la Dune du Pilat, una meraviglia della natura in grado di dividere il bosco dall'oceano, creando un paesaggio mozzafiato. 

 Siamo in Francia, vicino al bacino di Arcachon, a 70 chilometri da Bordeaux, e quella di Pilat è sicuramente la duna più grande d'Europa, anche se è in continua trasformazione.
 Un'enorme montagna di quarzo sbriciolato, con un colore che varia dal bianco all'oro rosa, esaltato dall'azzurro dell'Atlantico e della rigorosa pineta che la delimitano.


Grazie alla conformazione del terreno, la sabbia si accumula proprio in quel punto della costa, creando una duna di sabbia lunga 2,7 chilometri, larga 500 metro e alta sino a 108 metri.
 E pensare che a Dune du Pilat nel 1855 misurava «appena» 35 metri. 

Secondo gli esperti, la sua origine è legata alla distruzione di un enorme banco di sabbia che nel Diciottesimo secolo si estendeva davanti alla costa attuale: vento e maree l'hanno quindi riportato a riva, creando questo gigantesco spettacolo della natura.





Fonte: lastampa.it

Colchicum autumnale, come riconoscere il falso zafferano tossico


Prima di raccogliere piante, fiori ed erbe spontanee è sempre bene essere consapevoli di quello che si sta facendo.
 A rischio c'è la propria salute! 
Sapete ad esempio che esiste una pianta molto simile allo zafferano ma altamente tossica?
 Ecco come riconoscere il falso zafferano.
 Andare in prima persona a raccogliere ingredienti naturali che poi utilizzeremo in cucina o per realizzare prodotti fitoterapici fai da te è sicuramente un’attività che dà molte soddisfazioni. 
E' fondamentale però conoscere bene quello con cui abbiamo a che fare!
 Non solo i funghi, infatti, possono essere pericolosi se non si sanno riconoscere ma anche bacche, fiori e piante tossiche che all’apparenza sono molto simili ad alcune varianti commestibili. 

L’argomento si è riacceso dopo che una coppia di coniugi in Veneto è morta per aver raccolto e consumato il colchico autunnale, ovvero il falso zafferano con il quale hanno preparato un “risotto mortale” convinti di aver usato la pianta giusta.
 Subito dopo sono stati seguiti da un’altra famiglia che è finita in ospedale in seguito allo stesso errore ovvero dopo aver inavvertitamente consumato lo “zafferano bastardo” o “arsenico vegetale”.


Il pericolo deriva dal fatto che si tratta di un pianta velenosa (contiene colchicina) che se assunta porta alla comparsa di nausea, vomito, diarrea, dolori addominali e, nei casi di intossicazione molto forte o non subito individuata, anche alla morte.

 Questa pianta, il Colchico d'autunno (Colchicum Autumnale), è effettivamente simile allo zafferano anche se da quello originario (Crocus sativus) si distingue per alcune caratteristiche che bisogna saper individuare per evitare spiacevoli e drammatici incidenti.
 Le due piante sono molto simili per il loro colore violetto e l'aspetto del fiore. 
Bisogna dunque prestare attenzione ad altre variabili che riguardano sia il luogo di raccolta e il periodo di fioritura che caratteristiche particolari della pianta.


Colchicum autumnale - falso zafferano


Crocus sativus - vero zafferano

 Lo zafferano non si trova in alta montagna, davvero molto difficile quindi raccoglierlo nel Nord Italia

 La fioritura del falso zafferano va da agosto a settembre mentre il vero zafferano fiorisce tra fine ottobre e la prima metà di novembre 

Lo zafferano è composto da 3 stami (quei filamenti che troviamo all’interno del fiore che hanno funzione di organi sessuali) mentre il colchico ne possiede 6 

Il consiglio sempre valido rimane quello di evitare di raccogliere fiori, piante, erbe spontanee o funghi se non si ha la certezza di conoscerle molto bene! 

 Francesca Biagioli

giovedì 28 settembre 2017

Il curioso erbario di Elizabeth Blackwell


In certi casi, le difficoltà della vita portano alla nascita di grandi opere. 
Questo fu sicuramente il caso dell’artista scozzese Elizabeth Blackwell, nata Blachrie , che ottenne un grande successo nella prima metà del XVIII secolo con “A curious herbal”, un testo che è ancora oggi considerato un classico dell’illustrazione botanica e naturalistica. 

Blachrie era figlia di un ricco mercante di Aberdeen. In giovane età, Elizabeth sposò segretamente suo cugino Alexander Blackwell, medico e imprenditore.
 Le attività del marito crearono molti problemi al nucleo familiare, dato che dopo essere stato accusato di praticare la professione medica illegalmente, dalla Scozia dovette trasferirsi a Londra. Anche lì i Blackwell non ebbero maggior fortuna: la tipografia che venne avviata da Alexander fu chiusa dopo che venne pesantemente tassato per varie irregolarità. 
Ben presto, per il marito di Elizabeth arrivò il carcere per debiti. 

La giovane donna, rimasta sola, senza reddito e con un figlio piccolo da mantenere, si ingegnò per salvare la famiglia e trovò ben presto l’idea giusta per farlo: medici e farmacisti inglesi, in quegli anni, ricevevano di continuo nuove piante medicinali dal Nuovo Mondo, ma mancava un manuale che le raffigurasse e che elencasse le loro proprietà curative.
 Elizabeth si rese conto che un libro del genere avrebbe avuto grande successo e così, sfruttando la sua formazione come illustratrice diede alle stampe, nel 1737, “A curious herbal”, che ebbe da subito grande successo negli ambienti accademici.


Centinaia di splendide incisioni a colori, molto particolareggiate e scientificamente rigorose, vennero così create da Elizabeth. 

Per completare l’opera, l’artista visitò regolarmente il marito in carcere per farsi aiutare con le traduzioni dei nomi delle piante. 
Ad aiutare la giovane artista sul lato scientifico ci fu anche il botanico Isaac Rand, curatore del Chelsea Physic Garden, che contribuì alla stesura dei testi descrittivi.


Purtroppo però le vicissitudini della famiglia non finirono, soprattutto a causa di tanti investimenti errati da parte di Alexander che, dopo essere migrato in Svezia, fu accusato di tradimento e decapitato.

 Non si hanno notizie degli ultimi anni di vita di Elizabeth e, anche se venne superata in fama da un’altra Elizabeth Blackwell, la prima donna a laurearsi in medicina nella storia degli Stati Uniti, ancora adesso il suo splendido erbario delle piante americane rappresenta una pietra miliare nella storia dell’arte applicata alla scienza botanica.

 A lei è stato inoltre dedicato un intero genere di piante, le Blackwellia.

 FONTE: RIVISTANATURA.COM

mercoledì 27 settembre 2017

Alla scoperta dei Giardini Majorelle


Nel cuore di Marrakech, celato dagli schiamazzi dei bambini e quell'odore così pungente di spezie curative ed incensi asfissianti, si erge un'oasi incontaminata, un eden segreto che racchiude in sé l'Anima intera del Marocco esotico, una panacea per i sensi ed una delizia per gli occhi.

 In Rue Yves Saint Laurent sorge un complesso botanico idilliaco: decorazioni eccelse si mescolano ad un'infinita qualità di piante che si aggrovigliano e si lasciano ammirare con vanità, un' esplosione insolita di colori contrastanti accolgono il visitatore che non può far altro che genuflettersi in atto d'adorazione, lasciandolo sbigottito e inerme di fronte alla bellezza che solo la natura riesce ad emanare con così tanta grazia.


Fu Jacques Majorelle, un pittore orientalista francese, a volere fortemente la creazione di questi sontuosi giardini. 
Arrivato in Marocco nel 1917, si lasciò sedurre dell'esotismo arabo e nel 1923 piantò le prime palme, lì dove ora sorge il complesso botanico; il suo sogno era far convivere natura esotica ed arte araba, un connubio che la sua anima d'artista perseguiva ormai da anni, divenuto fulcro e motivo d'ispirazione per la sua arte.
 Nel 1931 toccò all'architetto Paul Sinoir creare lo studio d'artista in perfetto stile moresco cesellato dall'infinità di ghirigori propri di un Art Decò esasperata, dando alla luce inoltre, ad un particolare tipo di blu di una brillantezza senza eguali, che prese il nome di "blu Majorelle"
.





Questa particolare tonalità di blu intensa è il leitmotiv dell'intero giardino, ponendosi in netto contrasto con la calma e la quiete che dolci corsi d'acqua e varietà sfavillanti di fiori riescono a donare durante la passeggiata di pura contemplazione del bello, di cui potrete godere all'interno di questa meraviglia marocchina.








Nel 1947 il giardino venne reso pubblico e dopo la morte di Majorelle, l'eredità passò nelle mani dello stilista Yves Saint Laurent che, nel 1980, insieme al compagno Pierre Bergé furono catturati da questa magia cromatica eccelsa e dal senso di appagamento che questo luogo manifesta, tanto da divenire la prima fonte d'ispirazione per molte delle sue più celebri collezioni. 

Nel 2008, anno della sua morte, l'amore incondizionato per questo luogo incontaminato portò Yves Saint Laurent a non abbandonarlo, anche dopo la sua dipartita: le sue ceneri vennero disperse all'interno dell'orto botanico, a memoria di un luogo lungamente corteggiato da molti, che non sfiorisce neanche nell'inverno della propria vita, un luogo dell'anima che oltre alla bellezza eccelsa, culla in sé un incanto mistico senza eguali. 

 Fonte: blastingnews.com

martedì 26 settembre 2017

Scoperte nel Mar Nero sessanta navi affondate


Un tesoro di antichissimi navi affondate è stato scoperto sui fondali del Mar Nero da un team di ricercatori interessati inizialmente a scoprire gli effetti dei cambiamenti climatici.

 Sono sessanta le imbarcazioni presenti sul fondale risalenti ad epoche che vanno dall’Impero Romano a quello Ottomano passando per i bizantini. 
Ed è proprio una nave romana a rappresentare uno degli ultimi relitti scoperti, adagiato sul fondo in condizioni davvero ottimali, nonostante i suoi duemila anni.


La mancanza di ossigeno a profondità elevate ha consentito alle navi di giungere ai giorni nostri senza danni di rilievo. 

Anfore, ceramiche ed i più diversi oggetti sono stati avvistati nelle stive delle navi, alcune delle quali, come spiegano gli esperti, hanno forme mai viste prima.

 L’analisi dell’incredibile quantità di relitti presenti durerà mesi, forse anni.
 Le navi più antiche risalgono al V secolo Avanti Cristo mentre le altre sono affondate nell’Ottocento; tutte sono state protette dalla mancanza di acqua e da una particolare condizione che caratterizza questo bacino che, ad una determinata profondità, diventa anossico. 

I relitti saranno oggetti di un nuovo documento della Bbc, anche se l’area in cui è avvenuta la scoperta rimane segreta.

 Fonte: scienzenotizie.it

I barbagianni, con l'età, non perdono l'udito


I barbagianni mantengono intatto il loro senso dell'udito nonostante il tempo che passa: la scoperta pubblicata su Proceedings of the Royal Society B, ha risvolti che vanno al di là della pura curiosità scientifica.
 Come altri uccelli e a differenza dei mammiferi, questi rapaci sembrano protetti dalla perdita dell'udito dovuta all'invecchiamento. 
Possono infatti rigenerare le cellule sensoriali dell'orecchio interno, in modo analogo a come noi rimarginiamo le ferite. Una capacità cI ricercatori dell'Università di Oldenburg, in Germania, hanno testato 7 barbagianni (Tyto alba) addestrandoli a ricevere una ricompensa in forma di cibo in risposta a un richiamo sonoro.
 Tutti gli esemplari, compreso un barbagianni della veneranda età di 23 anni, hanno dimostrato un udito sopraffino (dote essenziale per localizzare le prede), immutato nonostante la vecchiaia.
 Altri pennuti in passato avevano dimostrato soltanto un lieve declino dell'udito dovuto all'invecchiamento.
 Per i barbagianni, invece, è come se gli anni - da questo punto di vista - non passassero.Una capacità che all'uomo risulterebbe molto utile, ma che purtroppo non abbiamo: quando raggiungiamo i 65 anni di età, abbiamo ormai perso in media più di 30 decibel di sensibilità alle alte frequenze
.

In natura, questi rapaci sopravvivono in media 3-4 anni: pertanto, la capacità di preservare l'udito così a lungo è ancora più stupefacente. Comprendere i meccanismi dietro all'udito di ferro potrebbe aiutare a studiare nuovi trattamenti contro la perdita dell'udito umana.

 Fonte: focus.it

lunedì 25 settembre 2017

La montagna delle uova


È conosciuta come la montagna delle uova.
 Si trova in Cina, è il Monte Gandeng, e ogni 30 anni “depone” uova di pietra.
 Un vero e proprio mistero. 
Incastonate nella roccia vi sono infatti delle strane uova rocciose, le cui origini sono ancora sconosciute. 

 Stiamo parlando di Chan Da Ya, che si trova nella Qiánnán Buyei and Miao Autonomous Prefecture, nella provincia cinese di Guizhou. Qui sorge questa altura di circa 20 metri, la cui superficie presenta le celebri uova di pietra. 
 La roccia ha una superficie irregolare punteggiata da dozzine di pietre rotonde e ovali di varie dimensioni. 
Anche se le intemperie, il vento e la pioggia, continuano a eroderla, le uova rimangono intatte, diventando ancora più dure ed esposte. Ogni 30 anni, a causa della perdita di roccia circostante, esse cadano al suolo dai loro alloggi naturali.


Il fenomeno della posa delle uova di Chan Da Ya è considerato unico al mondo, per cui i geologi hanno dovuto vederlo e studiarlo di persona per saperne di più.
 Dalle analisi è emerso che mentre la maggior parte del Monte Gandeng è costituito da sedimenti più duri, questa particolare sezione è costituita principalmente da roccia calcarea, che viene facilmente erosa.
 Le uova sono fatte di roccia molto più dura, quindi la differenza di tempo necessaria agli elementi per passare attraverso i diversi tipi di roccia, spiega il fenomeno della periodica deposizione dell'uova. Tuttavia, nessuno è riuscito ancora a spiegare come una sezione calcarea che si è formata 500 milioni di anni fa nel periodo Cambriano sia ancora esistente, o perché le uova di pietra siano tutte perfettamente rotonde o ovali.


Gli abitanti del vicino villaggio di Gulu conoscono le uova da generazioni, le considerano sacre, veri e propri portafortuna e più volte l'anno vanno a visitarle e toccarle.


Quasi tutte le 125 famiglie di Gulu ne avevano almeno una in casa. Tuttavia, negli ultimi anni, Chan Da Ya è diventata così famosa da essere ritenuta meta turistica, con tutto quello che comporta.

 Oggi, molte delle uova cadute vengono vendute a scopo di lucro al punto che a Gulu sono rimaste sono 70 uova. 

 Anche se si tratta della più grande montagna con la più alta concentrazione di uova di pietra, non è certamente l'unica. 
Esistono uova simili anche nelle montagne vicine. 

 Francesca Mancuso

venerdì 22 settembre 2017

Beelzebufo, la rana preistorica che mangiava i dinosauri


Che il mondo del passato fosse popolato da giganteschi e mostruosi animali era risaputo, ma che esistesse addirittura una rana in grado di mangiare dinosauri appare davvero una stranezza. 

Si tratta di Beelzebufo, una rana vissuta sessantotto milioni di anni fa in quello che oggi è il Madagascar.
 Si trattava di un animale caratterizzato da un appetito davvero impressionante ed in grado di mangiare prede molto grandi come i dinosauri. 

A scoprire la gigantesca rana è un team di studiosi dell’Università di Adelaide che hanno pubblicato lo studio su Scientific Reports. La differenza maggiore tra questa rana e quelle di oggi è l’incredibile potenza della mascella che riusciva a garantire una grande capacità di afferrare le prede come rettili o mammiferi. Anche i piccoli dinosauri erano potenziali prede della rana Beelzebufo.
 Per risalire alla potenza del morso gli esperti hanno ricostruito una serie di dati giungendo alla conclusione che il morso della rana fosse paragonabile a quello di grandi predatori come i lupi e le femmine di tigre.




I fossili della rana Beelzebufo sono stati scoperti nel 1993 sull’isola del Madagascar e dimostrano come questo particolare animale fosse in grado di raggiungere anche i quaranta centimetri di lunghezza per un peso di cinque chili. 

 Fonte: scienzenotizie.it

India: le regate delle barche di Kerala


400 anni fa i conflitti tra i re di Kerala si combattevano in acqua. Lottavano fino alla morte, a bordo di una barca che percorreva i canali della città.
 L’arma più potente era l’imbarcazione più resistente. Devanarayana è il nome dell’architetto che disegnò il primo “chundan vallam” o barca serpente.
 La sua prua ricorda un cobra che alza la testa per intimidire la sua preda. È la tradizionale barca da guerra di Kerala. 


 Oggi la lotta non è sanguinaria, ma ci si giocano il prestigio e la fama dei villaggi.
 Le regate delle barche serpente sono competizioni annuali che vengono disputate a Alappuzha, conosciuta anche come Alleppey e la Venezia d’Oriente, e nei suoi dintorni.
 La gara più importante è quella del trofeo Nehru, chiamata così in onore all’ex primo ministro indiano Sri Pandit Jawaharlal Nehru.


Il sole d’agosto riscalda le acque del lago Punnamada.
 La folla si è radunata sulla sua sponda, ma la vista migliore è riservata a coloro che hanno pagato il biglietto d’ingresso più alto. Il silenzio si rompe all’improvviso.
 I rematori intonano il “Vanchipattu” (il cantico dei marinai) per marcare il ritmo.
 È l’unico giorno dell’anno in cui l’acqua del Punnamada abbandona la sua solita quiete.

 In ogni barca c’è una squadra e in ogni squadra ci sono centinaia di uomini a torso nudo, con indosso solo un pantalone corto. Immergono i propri remi in acqua, perfettamente coordinati, ed è allora che i serpenti, dai 30 ai 36 metri di lunghezza, strisciano lungo il lago. 
I rematori più forti sono posizionati nella parte anteriore. 
I timonieri si distinguono dagli altri, perché restano in piedi. 
Alcuni reggono degli ombrelli, per evitare il sole. Tutti, però, sono scalzi in segno di rispetto. 

Il trofeo da vincere è una riproduzione d’argento di una barca serpente. Ma il vero premio è l’orgoglio di appartenere al villaggio che arriva primo alla meta. 

Yamir lavora come falegname nel villaggio di Aranmula. 
Durante tutto l’anno si occupa della manutenzione delle barche. “Affinché il legno resista all’acqua, lo lucido con un insieme di olio di pesce, olio di cocco e guscio d’uovo”. 
La decorazione invece non è merito suo. Gli abitanti di ogni villaggio adornano la loro “chundan vallam” con vocazione divina, utilizzando cordoni dorati, tele e bandiere colorate.


La regata del trofeo Nehru è quella che richiama più persone, ma la più antica è quella di Champakkulam Moolam.
 Si disputa a circa 25 chilometri da Alappuzha e segna l’inizio della stagione delle gare a Kerala.
 La regata Payippad Jalotsavam, a 35 chilometri, è quella che dura di più. 
Durante tre giorni i rematori agitano le acque cristalline del lago Payippad, ma la vera gara è all’ultimo. 

I due giorni precedenti, le barche serpente sfilano lungo il lago, creando una colorata processione accompagnata da cantici. In questi giorni non c’è né fretta né rivalità. Solo l’acqua di Kerala che vibra al ritmo dei remi.

 Fonte: passenger6a

giovedì 21 settembre 2017

La leggenda del mar Jindo


Esiste un posto nell’estremità meridionale della penisola di Corea dove, ogni anno, il gioco delle maree somiglia tanto al fenomeno biblico dell separazione delle acque del mar Rosso ad opera di Mosè.

 Il Jindo Sea-Parting Festival è una sorta di evento popolare che riunisce centinaia di persone che si radunano per assistere a un fenomeno molto singolare.
 Il mare di Jindo, nel nord del mar cinese orientale, ogni anno tra marzo e giugno, si ritira scoprendo una striscia di sabbia attraversabile a piedi. 
 Sono circa tre chilometri tra l’isola di Jindo e la vicina isola di Modo e turisti e abitanti ne approfittano per fare delle passeggiate. Mentre il Festival si tiene solo una volta l’anno, la separazione delle acque può avvenire più volte, ma ovviamente non ha nulla di miracoloso perché è un fenomeno scientifico.
 Le maree basse ne sono responsabili, ma sopra ci si è ricamata una storia.
 Il primo a paragonare il fenomeno al miracolò di Mosè scritto nel libro dell’Esodo è stato Pierre Landy, ex ambasciatore francese in Corea del Sud, in un articolo scritto nel 1975.


Nel mare di Jindo, secondo gli scienziati, c’è un semplice abbassamento del livello del mare che riporta in superficie un’altura sottomarina di circa 60 metri.
 Tuttavia, c’è chi ama inseguire la leggenda quella secondo cui, succede un evento molto particolare. 

 Si narra che un tempo l’isola fu invasa dalle tigri e tutti gli abitanti furono costretti a rifugiarsi nella vicina Modo.
 Una donna anziana di nome Bbyong che però era rimasta li per sbaglio si mise a pregare giorno e notte il dio dell'oceano, Yongwang, affinchè l’aiutasse a scappare. 
 Alla fine, il dio le apparve in sogno e le disse che al risveglio avrebbe trovato un arcobaleno in mare che avrebbe consentito la fuga.
 E così fu, da allora il fenomeno dell'acqua che si ritira, si ripete ogni anno e in memoria della donna sono state erette due statue che raffigurano una tigre e un’anziana.



Dominella Trunfio

mercoledì 20 settembre 2017

Il primo utilizzo del numero “0” scoperto sul manoscritto di Bakhshali


Un nuovo studio dell’Università di Oxford ha scoperto il più antico utilizzo del numero “0” al mondo.
 Il numero appare centinaia di volte in un antico testo indiano noto come il manoscritto di Bakhshali. 
 Il manoscritto consiste di 70 fogli di corteccia di betulla, pieni di testi in sanscrito e di matematica. In precedenza era stato datato intorno al IX secolo, ma la nuova datazione al radiocarbonio ha scoperto che è molto più antico: una sua parte risale tra il 224 e il 383 d.C. 
 Il testo sembra essere stato un manuale per i mercanti della Via della Seta. Include esercizi di aritmetica e di qualcosa che si avvicina all’algebra.

Il manoscritto venne scoperto in un campo da un agricoltore nel 1881 e gli venne dato il nome del villaggio del ritrovamento, Bakhshali, oggi in Pakistan.
 È ospitato nella Biblioteca Bodleiana dell’Università di Oxford dal 1902.
 Finora si pensava che il manoscritto risalisse tra l’VIII e il XII secolo circa. Ora però, per la prima volta, il manoscritto è stato datato al radiocarbonio rivelando che le pagine più antiche risalgono a ben prima, tra il 224 e il 383 d.C.

 Il manoscritto precede dunque l’iscrizione dello zero trovato sul muro di un tempio del IX secolo a Gwalior, in India – considerato in precedenza il più antico esempio di zero mai documentato. 

 Nel testo di Bakhshali ci sono centinaia di zeri indicati utilizzando un punto. 
È questo punto che in seguito si evolverà nel simbolo con un buco in mezzo come lo conosciamo oggi.
 In origine il punto veniva utilizzato come un “segnaposto” – come per esempio lo “0” nel numero 505 indica che non ci sono decine – ma non era ancora un numero in sé. 
L’uso dello zero in questo senso apparve in diverse culture antiche, come quelle dei Maya (nella forma di una conchiglia vuota) e dei Babilonesi (due cunei inclinati). Ma solo il punto indiano alla fine diventò un vero numero, descritto per la prima volta nel 628 d.C. dall’astronomo e matematico indiano Brahmagupta.

 «Alcune di queste idee, che diamo per scontate, hanno dovuto essere immaginate prima.
 I numeri servivano a contare le cose quindi, se non c’era niente, perché aver bisogno di un numero?», dice Marcus du Sautoy, docente di matematica presso l’Università di Oxford.
 Il concetto di zero permise lo sviluppo del calcolo ed è alla base dell’epoca digitale. 
«Tutta la tecnologia moderna è costruita sull’idea di qualcosa e di niente», spiega Sautoy. Datare il manoscritto di Bakhshali è sempre stato complicato: non tutte le pagine furono create nello stesso momento, le più antiche avevano ben 500 anni in più rispetto alle più recenti.
 La nuova ricerca, effettuata con l’Oxford Radiocarbon Accelerator Unit (ORAU), ha scoperto che di tre campioni uno risaliva tra il 224 e il 383, un altro tra il 680 e il 779, e l’ultimo tra l’885 e il 993. «Come tutti questi fogli furono raccolti insieme rimane un mistero», dice Sautoy. 

 Il manoscritto sarà esposto dal 4 ottobre nella mostra ‘Illuminating India: 5000 Years of Science and Innovation’, presso il Museo della scienza di Londra. 

Fonte: ilfattostorico.com

martedì 19 settembre 2017

Sulla Route 66 c'è un incredibile pozzo di acqua blu


A chi non verrebbe voglia di tuffarsi in questa incredibile piscina color zaffiro? 
Questo enorme buco blu è il Santa Rosa Blue Hole, si trova in New Messico ed è uno dei siti d'immersione più popolari degli Stati Uniti. 

 Si tratta di un pozzo artesiano di Santa Rosa, città della celebre Route 66, profondo 25 metri. 
Qui l'acqua circola continuamente, mantenendo una temperatura costante di 17 gradi, d'estate e d'inverno: il Santa Rosa Blue Hole è infatti collegato ad altri sei laghi gemelli della zona attraverso un vasto sistema di grotte sotterranee.


A rendere l'acqua di questo incredibile colore sono le poche piogge della regione, così come le pietre che circondano il pozzo largo 24 metri, una volta utilizzato come vasca per l'allevamento di pesci. C'è poi da dire che le correnti permettono all'acqua di cambiare completamente ogni sei ore e che l'intera zona viene tutelata e preservata da ogni tipo di inquinamento.


Non bisogna essere per forza sub per fare un tuffo qui dentro: la piscina è aperta tutti i giorni ma per immergersi c'è bisogno di un permesso. 
Arrivati sul fondo, si potrà vedere l'ingresso alle grotte che si collegano agli altri pozzi della zona: antri profondi oltre 40 metri che non sono stati ancora del tutto esplorati. 
Un alone di mistero che rende questo posto ancora più affascinante.



Fonte: lastampa.it

lunedì 18 settembre 2017

L’hotel da 10mila stanze che non ha mai visto un ospite


L’Hotel Prora oggi sarebbe l’albergo più grande del mondo, se solo avesse qualche ospite. Invece, nessuno ci ha mai trascorso una notte da quando è stato costruito 76 anni fa. 
 Con 10.000 camere, il cosiddetto ‘Hitler Hotel’ – che fu voluto dal Führer stesso – ha una facciata lunga 5 chilometri e ogni stanza è vista mare.
 Le camere sono tutte doppie e hanno il riscaldamento centralizzato che, per i tempi, era un vero lusso.
 Si trova sull’isola di Rugen, nel Mar Baltico, affacciato su una lunghissima baia. 
 Doveva essere la risposta alla catena di alberghi britannici Butlins, anch’essi sorti poco prima della Seconda Guerra Mondiale (1936) per consentire alle famiglie inglesi di trascorrere le vacanze spendendo poco.
 La costruzione del Prora, però, fu interrotta dallo scoppio del conflitto. 
 Oggi, quello che doveva dare alloggio a 25mila lavoratori tedeschi e alle loro famiglie, sorge come monumento autocelebrativo. Visitare l’edificio completamente vuoto, con porte che sbattono per via del vento, sembra di entrare nel set di un film horror.






Per riuscire a cogliere le sue impressionanti dimensioni è necessario guardare una foto aerea. Per percorrere l’intera lunghezza dell’hotel ci si impiega circa un’ora. 
È formato da cento edifici, ciascuno con cento camere collegate tra loro da decine di corridoi lunghi un chilometro e mezzo ciascuno.


Nei suoi 76 anni di storia, non una persona ci ha mai dormito una notte. 
Stranamente l’edificio è ancora intatto e si sta lavorando per trasformarlo in un resort di lusso, in parte hotel e in parte appartamenti.

 La società costruttrice tedesca Metropole Marketing ha acquisito i diritti dell’edificio.
 Gli appartamenti di lusso avranno anche una Spa, una piscina e un giardino e saranno costruite anche delle ville pronte nel 2022. Un appartamento costerà tra i 450 e gli 820mila euro a seconda della metratura. 
Ci saranno anche degli attici ancora più costosi.
 L’arredamento sarà ultramoderno e ci saranno nuovi ascensori, un nuovo riscaldamento e persino una lavanderia.




L’Hotel Prora fu costruito dai Nazisti per dimostrare la loro forza attraverso un programma di propaganda a favore delle famiglie tedesche.
 La gente del luogo oggi lo chiama ‘il colosso’ per via delle dimensioni monumentali. 
All’interno c’è anche un cinema, una scuola, un ospedale e un lunghissimo pontile che si getta nel mare. 
Il pontile avrebbe dovuto portare i villeggianti in crociera verso le Canarie, allora controllate dall’amico di Hitler, il Generale Franco. Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’isola di Rugen finì dalla parte della Russia e i sovietici pensarono addirittura di fare esplodere l’edificio.
 Tuttavia, poiché era troppo grande e non avevano dinamite a sufficienza per distruggerlo, lo impiegarono come deposito per le armi utili nella Germania Est e sparì completamente dalle mappe. Finora.

 Fonte: http://siviaggia.it