venerdì 30 giugno 2017

Trovata in Egitto una eccezionale protesi per il piede di 3000 anni fa!


Un team di ricerca dell’Università di Basilea (Svizzera) ha rinvenuto in Egitto la protesi di un alluce di ben 3mila anni, una delle più antiche in assoluto a disposizione degli scienziati.

 Gli archeologi elvetici, che hanno collaborato con gli esperti del Museo Egizio del Cairo e con l’Istituto di Medicina Evolutiva dell’Università di Zurigo, l’hanno trovata in una tomba saccheggiata della necropoli di Sheikh Abd el-Qurna, nei pressi della celebre Luxor.


La protesi apparteneva a una donna, la figlia di un sacerdote, e grazie alle scrupolose tecniche adottate per analizzarla in dettaglio, dalla tomografia computerizzata ai raggi X, è emerso che essa fu riparata e perfezionata diverse volte, al fine di renderla più confortevole per la proprietaria. 

Pur avendo ben 3mila anni, l’oggetto dimostra una cura maniacale anche sotto il semplice profilo estetico, con intagli estremamente precisi sia nel legno che nella cinghia in pelle, che serviva a tenerla ben salda al piede. 

La donna, molto probabilmente, perse l’alluce a causa di un brutto incidente, ma grazie al suo stato sociale elevato poté contare su una squadra di abilissimi artigiani, fini conoscitori della fisionomia umana. 

 Un reperto analogo a quello rinvenuto a Sheikh Abd el-Qurna, una sorta di cimitero per l’elite dell’epoca, venne recuperato circa venti anni fa da studiosi egiziani del Cairo: aveva 2600 anni ed era attaccato alla mummia di una nobildonna identificata col nome di Tabaketenmut. 

Benché possa sembrare curioso il recupero di siffatte protesi in tempi così antichi, in realtà si trattava di oggetti piuttosto comuni per chi poteva permetterseli e ne aveva bisogno.
 La maggior parte di essi è stata trovata correttamente posizionata sui morti, poiché l’integrità fisica dei cadaveri, in base alle credenze, avrebbe aiutato anche nell’aldilà. 

 Tratto da: scienze.fanpage.i

mercoledì 28 giugno 2017

La bellissima tradizione della barca di San Pietro


Nella notte tra il 28 e il 29 giugno, in occasione della festa di San Pietro e Paolo, nelle campagne si celebra un rito molto particolare per capire come sarà il tempo ma anche come andrà il raccolto e il destino dei componenti della propria famiglia.
 Si tratta di quella tradizione nota come la barca di San Pietro. La tradizione contadina da sempre si serve di rituali alla cui base vi sono credenze popolari, leggende o storie di santi.
 Spesso si utilizzavano questi “strumenti” per capire come sarebbero state le condizioni meteorologiche, indicatore molto importante per il buon raccolto nei campi e dunque il sostentamento delle famiglie. 

 Ancora oggi diffusa in alcune zone, soprattutto del Nord Italia, è la tradizione della barca di San Pietro o veliero di San Pietro, un’usanza che si serve di pochi ingredienti: un contenitore di vetro, una chiara d’uovo e la magia della notte di San Pietro e Paolo! 
 Il procedimento da fare è il seguente: la sera del 28 giugno si riempie un contenitore di vetro ampio e largo di acqua, all’interno si fa colare una chiara d’uovo e si mette a riposare per tutta la notte all’aperto o su un davanzale al chiaro di luna lasciando che la soluzione di acqua e uovo prenda anche la prima rugiada del mattino. 
Secondo la tradizione, la notte saranno i santi Pietro e Paolo a compiere la magia, in particolare sarà l’apostolo Pietro (che ricordiamo essere un pescatore) che alla vigilia della sua festa dimostra la sua vicinanza ai fedeli soffiando all’interno del contenitore e facendo così apparire la sua barca.






La mattina dopo il risultato va interpretato.
 L’albume, infatti, forma dei filamenti e si posiziona in modo da sembrare una barca di forma variabile e con più o meno vele e alberi.
 A seconda di com’è il veliero, i contadini sono in grado di capire le condizioni del tempo che li aspetta, la più o meno buona annata di raccolto ma anche la salute dei componenti della propria famiglia. Vele aperte indicherebbero giornate di sole, vele chiuse e strette invece pioggia in arrivo! 
Un bel veliero in generale promette un'ottima annata di raccolto. Ma perché si forma davvero la barca? 
Il fenomeno è dovuto semplicemente alla diversa temperatura della notte (più fresca) che permette all’albume di rapprendersi formando il caratteristico veliero ma anche al fatto che l’albume ha una densità maggiore dell’acqua e tende ad affondare. 
Quando l’acqua fredda si riscalda grazie al calore che assorbe la brocca dalla terra o dal davanzale su cui è posizionata, tende a risalire portando con sé anche l’albume.
 Si formano così le vele.

 Ogni anno, ovviamente, la chiara si posiziona in maniera differente e le persone sono intente ad interpretare i messaggi mandati da San Pietro. E ancora oggi tante famiglie tramandano la tradizione anche ai bambini e giurano che l’uovo più di una volta ci ha effettivamente “preso”! 

 Fonte: greenme.it

martedì 27 giugno 2017

Il "bacio" tra un sub e il pesce


Un’amicizia che dura da oltre 25 anni, quella tra un subacqueo giapponese e un pesce che vive nella Tateyama Bay, in Giappone. Hiroyuki Arakawa è un sub ma è anche una sorta di guardiano del Santuario scintoista che si trova nella Tateyama Bay giapponese. Nel corso degli anni, le creature marine che vivono nella baia sono diventate la sua famiglia, ma con una in particolare ha sviluppato un rapporto del tutto particolare.


Nel video, Arakawa racconta il suo affetto per Yoriko, l’unico esemplare di Semicossyphus reticulatus che vive nella baia, tant’è che ogni volta che si incontrano, l’uomo immortala il "bacio" che si danno per salutarsi.
 Yoriko si lascia accarezzare come se fosse un qualsiasi animale domestico. 

 Non è la prima volta che vi parliamo del legame che unisce gli uomini agli animali, un rapporto speciale che porta tantissimi benefici. 
Gli animali ci aiutano ad apprezzare la felicità che nasce dalle piccole cose, a imparare a interagire e comunicare meglio con gli altri.






Non solo benefici mentali, ma anche fisici. 
Un amico a quattro zampe ad esempio aiuta a mantenersi in forma e a voler bene al proprio cuore. 
In questo caso, Arakawa si è affidato alle creature marine, gli esseri viventi con cui è in contatto ogni giorno nel tempio scintoista, che lo aiutano anche a combattere la solitudine.

 Secondo un recente studio condotto dall’Oxford University, i pesci sarebbero in grado di riconoscere i volti umani, per adesso la certezza assoluta non c’è, ma queste immagini fanno ben sperare!

 

Dominella Trunfio

lunedì 26 giugno 2017

Una delle chiese più inaccessibili del mondo


Katskhi Pillar è una roccia calcarea naturale che si trova a Imereti, in Georgia.
 Sulla cima di questo monolite alto 40 metri si erge un monastero costruito alla fine degli Anni ’90. 
Qui vive solitario un solo monaco, Maxime Qavtaradze. 

La cima del Katskhi Pillar veniva impiegata anche dagli asceti cristiani fin dal VI secolo d.C..


Impossibile non notarlo, dato che spicca nel bel mezzo della valle Katskhura. 

Gli abitanti della regione sostengono che abbia anche un significato: prima dell’avvento della cristianità ovvero più di 2mila anni fa si credeva venisse usato per i riti pagani, si pensava che il monolite rappresentasse il dio della fertilità. 
 Dopo il cristianesimo, però, il Katskhi Pillar acquisì un nuovo significato. 
La colonna di calcare rappresentava un modo per staccarsi dal mondo terreno. 

La pratica ascetica di vivere in cima a un picco ha origini nella figura di Simeone Stilita, un santo vissuto tra i IV e il V secolo che decise di ritirarsi a vita privata e di dedicarsi alla preghiera.


Già nel VI secolo vene eretta una chiesetta dedicata al monaco bizantino Massimo il Confessore.
 Oggi si possono intravedere solo i resti di questa prima chiesa, scoperti solo nel XX secolo quando vennero fatte le prime esplorazioni.
 Fu scoperto che, oltre all’edificio religioso, vi erano anche delle cellette destinate agli eremiti e una cantina.
 Fu rinvenuto anche un piatto datato XIII secolo con inciso il nome di ‘Giorgi’, un personaggio responsabile della costruzione delle celle. 
L’iscrizione fa riferimento anche al ‘Pilastro della vita’, un altro nome usato dai locali per indicare Katskhi Pillar. 

 Quando il monaco ortodosso Maxime Qavtaradze si trasferì a Katskhi Pillar non aveva neppure un giaciglio su cui dormire ed era in balìa degli elementi. 
Fu allora che alcuni volontari restaurarono la cappella e costruirono un piccolo cottage dove l’uomo potesse vivere.


Sono i volontari a portagli cibo e provvigioni utilizzando una scala d’acciaio. 
E di tanto in tanto anche il monaco scende dalla cima per visitare un piccolo monastero che si trova alla base della roccia.

 Fonte: http://siviaggia.it

venerdì 23 giugno 2017

Un'isola di corallo a forma di manta, nel paradiso delle mante australiane


Guardandola dall'alto sembra proprio una manta che sguazza a pelo d'acqua.
 Lady Elliot Island è un santuario di coralli dell'arcipelago del Capricorno, in Australia, conosciuta per la sua incredibile e spettacolare vita marina, ricchissima di mante, tartarughe e stelle marine blu. 

 Un paradiso in terra, a 100 chilometri dalla costa del Queensland, circondato da acque azzurrissime e trasparenti da cui risaltano i colori della barriera corallina, che crea intorno all'atollo uno spettacolare effetto ottico tridimensionale. 

A tutelare il delicatissimo habitat di Lady Elliot Island e la sua biodiversità è la Marine National Park Zone, che raccomanda un turismo ecosostenibile.












La prima «apparizione» di Lady Elliot Island sul livello del mare è avvenuta intorno al 1500 avanti Cristo.
 E la sua formazione a cerchi concentrici testimonia una crescita corallina lunga tremila anni, che ha portato all'attuale conformazione già trecento anni prima della sua scoperta ufficiale, nel 1816, ad opera dal capitano Thomas Stuart a bordo della nave Lady Elliot. 

 Tratto da: lastampa.it

mercoledì 21 giugno 2017

Quando volare non serve più: il caso del cormorano delle Galapagos


La perdita della capacità di volare si è evoluta più volte in maniera indipendente nella linea evolutiva degli uccelli. 
Nonostante la frequenza del fenomeno però, i meccanismi genetici che vi sono alla base rimangono ancora poco compresi. 

In uno studio pubblicato su Science, attraverso l’analisi del DNA di diverse specie di cormorano, alcuni ricercatori della UCLA University hanno contribuito a fare luce sulle cause genetiche dell’incapacità al volo da parte di alcuni uccelli.

 I cormorani sono grandi uccelli acquatici diffusi in tutto il mondo, e vivono nelle zone costiere o nei pressi di laghi.
 I cormorani delle Galapagos (Phalacrocorax harrisi), che si trovano esclusivamente sulle isole di Isabela e Fernandina, sono gli unici, tra le circa 40 specie conosciute di cormorano, a non essere in grado di volare; tali animali possiedono arti anteriori molto ridotti, sono di grandi dimensioni rispetto ai congenerici e ottimi nuotatori, abilità che utilizzano per immergersi e procurarsi il cibo.

 Darwin li osservò e li studio per la prima volta intorno al 1830, quando a bordo del Beagle giunse nelle vicinanze delle 13 isolette dell’Oceano Pacifico conosciute anche come “Arcipelago di Colombo”.


I ricercatori, tra cui Darwin stesso, ritengono che l’impossibilità di volare abbia aiutato i cormorani a potenziare altre capacità, tra cui quella di nuotare (la cosiddetta selezione positiva); altri affermano invece che, come per molti altri uccelli insulari, ciò sia avvenuto poiché gli animali non avevano la necessità di migrare e per la concomitante mancanza di predatori.
 Anche se, come afferma il leader del gruppo di ricerca Leonid Kruglyak, le due ipotesi possono coesistere, a dare ulteriori spiegazioni sono i risultati ottenuti tramite l’analisi del DNA. Leonid Kruglyak e colleghi hanno analizzato il DNA proveniente da esemplari di Phalacrocorax harrisi e da altre tre specie di cormorani volatori, per cercare di identificarne le cause genetiche dell’evoluzione “attera”. 
Da questo punto di vista, gli studiosi sono stati avvantaggiati poiché, a differenza di altri uccelli non volatori, come gli struzzi e i kiwi, le cui linee evolutive si sono separate da quelle degli altri uccelli volatori almeno 50 milioni di anni fa, i cormorani delle Galapagos hanno parenti molto più prossimi ed è stato dunque possibile ricostruirne i cambiamenti genetici avvenuti da circa 2 milioni di anni a questa parte.


Gli scienziati hanno identificato un gene, CUX1, che appare mutato nei cormorani delle Galapagos rispetto ai parenti volatori.
 Tale gene, era già stato identificato nel pollo come il responsabile dell’accorciamento delle ali. 

Le mutazioni presenti in Phalacrocorax harrisi si sono rivelate uniche, e stando ai ricercatori avrebbero alterato le funzioni di alcune proteine, influenzando negativamente le dimensioni delle ali.
 Sono state identificate anche numerose mutazioni a livello delle ciglia, strutture cellulari lunghe e sottili con importanti ruoli regolatori.

 L’intenzione di Kruglyak è ora quella di analizzare il DNA di altre specie di uccelli non volatori, per verificare se condividono le stesse mutazioni e per cercare di aiutare i biologi a comprendere meglio l’evoluzione e lo sviluppo degli arti.
 Poiché le mutazioni a livello delle ciglia, nell’uomo sono correlate a patologie che impediscono il normale sviluppo dello scheletro, studiare tali caratteri negli uccelli potrebbe portare ad una maggiore comprensione anche di tali malattie. 

 Fonte: http://pikaia.eu

La “Porta dell’Inferno”: l’incredibile storia della voragine di fuoco nel deserto


È stata ribattezzato “Porta dell’Inferno” il cratere largo circa 70 metri e profondo fino a 50, che brucia ininterrottamente nel deserto del Karakum, in Turkmenistan.
 Formatasi a 260 chilometri dalla capitale Ashgabat, è situata non lontano dal villaggio di Derweze che, per una curiosa coincidenza, in lingua turkmena significa proprio “porta”.

 Al contrario di quanto si possa pensare, la Porta dell’Inferno non è un fenomeno naturale. 
Questa spettacolare voragine grande quanto un campo di calcio brucia dal 1971, da quando cioè un gruppo di geologi sovietici si mise a trivellare il suolo alla ricerca di petrolio. 
Proprio nel posto in cui avevano iniziato a cercare idrocarburi, c’era una gigantesca caverna prodotta dall’erosione dell’acqua, di cui non si sapeva nulla.
 Poco dopo l’inizio dei lavori, le trivelle raggiunsero una sacca di gas naturale, il tetto della caverna crollò, inghiottendo le attrezzature degli scienziati. 
Si formò così un avvallamento largo circa 70 metri e profondo fino a 50. 
Fortunatamente, l’incidente non causò vittime tra i geologi, sebbene si sia ipotizzato che la grande quantità di gas sprigionatasi nei primi tempi possa aver determinato la morte di alcuni abitanti dei villaggi vicini.


Per evitare che gas velenosi come il metano fuoriuscissero dal sottosuolo, i sovietici decisero di innescare un incendio, sperando che nell’arco di pochi giorni il fuoco avrebbe consumato tutto il gas combustibile presente nella caverna e la zona sarebbe tornata sicura. 
Ma così non è stato. 
Da ormai 46 anni quella che è stata ribattezzata “Porta dell’Inferno” continua a bruciare, tanto che tra la gente del posto si è diffusa la credenza che si tratti di un fenomeno soprannaturale. 

 Nessuno sa quanto gas sia bruciato finora, né per quanto tempo ancora continuerà a bruciare.
 Quel che è certo è che il cratere è oggi una delle principali mete turistiche del Turkmenistan.
 Il bagliore che nasce dalla voragine è visibile, di notte, da chilometri di distanza, e lo spettacolo è incredibilmente suggestivo. Sono decine di migliaia i visitatori che ogni anno accorrono per pubblicare su Internet foto e video della caverna che brucia senza sosta, nonostante il forte odore sulfureo generato dalla combustione, per cui le popolazioni locali hanno ribattezzato la grande cavità in fiamme “la Porta dell’Inferno”. 

 Fonte: http://siviaggia.it

martedì 20 giugno 2017

Ritrovate le "terrazze bianche e rosa", l'ottava meraviglia del mondo andata perduta


L’ottava meraviglia del mondo esiste e potrebbe trovarsi nell’Isola del Nord, in Nuova Zelanda.
 Secondo i ricercatori si tratterebbe delle suggestive terrazze bianche e rosa.

 Sepolte da un’eruzione vulcanica circa 131 anni fa, le straordinarie terrazze di pietra rosa e bianca, somiglianti a vasche a cascate formate da fonti geotermiche saturate di silicio, un tempo si gettavano sulle acque del lago Rotomahana. 
 Da tempo i ricercatori dell’Institute of Geological and Nuclear Sciences studiano la zona, ma alcuni di loro, in particolare Rex Bunn e Sasha Nolden in un articolo pubblicato sul Journal of the Royal Society of New Zealand, sostengono che le terrazze non sono rimaste distrutte o spinte fino in fondo al lago, come suggerito da precedenti ricerche, ma sono sepolte sulle coste del lago. 

 Il luogo è stato scoperto alla fine del Settecento ed è sempre stato meta di turisti avventurosi, ma anche protagonista di quadri. 
Per tanto tempo, raggiungerlo non è stato facilissimo, ma c’era chi pur di immortalare l’Isola del Nord, affrontava un viaggio in barca lungo mesi.


Le terrazze divennero la più grande attrazione turistica nell'emisfero sud e nell'impero britannico, e navi cariche di turisti affrontavano il viaggio dall'Europa e dall'America per ammirarle, ma non è stata mai eseguita una ricognizione accurata da parte del governo del tempo, quindi non erano state finora registrate le loro coordinate", si legge nello studio. 

 Studiando i diari del geologo austro-tedesco Ferdinand von Hochstetter che contengono una descrizione dettagliata della località delle terrazze prima dell'eruzione del vulcano Tarawera nel 1886, i ricercatori sostengono di conoscerne ora la posizione esatta, ovvero 10-15 metri dal litorale, sommerse da cenere solidificata e fango.


Immaginate che meraviglia sarebbe se le Pink and White Terraces ricomparissero come per incanto. 
I lavori di scavo dovrebbero partire a breve, solo così si scoprirà se le terrazze sono state solo coperte.
 Intanto sogniamo con queste riproduzioni. 

 Fonte: www.greenme.it

venerdì 16 giugno 2017

Pineberry, le antiche fragole bianche al sapore di ananas


Sono bianche e hanno un sapore che ricorda quello dell’ananas. Non stiamo parlando, però, di un frutto nato in laboratorio, bensì di una varietà antica – e solo recentemente riscoperta – di fragole: le pineberry. 

 Originarie del Cile, le fragole bianche sono arrivate in Europa per la prima volta durante nel XIX secolo. 
Coltivate solamente in Francia, le fragole pineberry hanno rischiato di scomparire.
 La varietà si è potuta salvare grazie all’intervento di un gruppo di coltivatori olandesi che, solo in anni recenti, ha ricominciato a coltivare l’antica varietà destinata a scomparire.
 Da allora l’ascesa delle fragole bianche è stata inarrestabile tanto che, sul web, è possibile acquistare i semi di questa antica varietà.


Perché i frutti della varietà pineberry sono bianchi?
 Per rispondere alla domanda bisogna fare un passo indietro, e capire perché le varietà tradizionali di fragola sono rosse.

 A conferire la tradizionale colorazione è la presenza della proteina Fra a1, responsabile della maturazione del frutto.
 La presenza di questa proteina fa sì che le fragole, a maturazione compiuta, presentino un colore rosso vivace.
 Semplicemente, alle fragole bianche manca questa proteina, che fa sì che i frutti cambino colore a maturazione avvenuta. 
Insomma, le pineberry maturano senza cambiare colore. 

 FONTE: RIVISTANATURA.COM

Il fuso orario spagnolo: sbagliato dal Nazismo


Il prendersela comoda in fatto di orari è una delle caratteristiche note dello stile di vita spagnolo: lunghe pause pranzo dalle 14:00, cena dalle 21:00 in poi, e il primo spettacolo in TV che inizia alle 22:30. 
Ma questo spostamento di ritmi non dipende solo dalle alte temperature e dall'indole mediterranea. 
Il fuso orario ci mette lo zampino: quello adottato in Spagna è, infatti, tecnicamente sbagliato. 

 Il Paese si trova geograficamente sul meridiano di Greenwich, e fino al 1942 utilizzava la stessa ora della Gran Bretagna. Ma quell'anno, per volere del dittatore Francisco Franco, fu adottato il Central Europe Time (CET, lo stesso di Roma) come segno di solidarietà verso la Germania di Hitler, suo alleato.
 Alla fine della guerra, la Spagna non tornò all'orario precedente: semplicemente, i suoi abitanti si adeguarono, spostando i pasti un'ora più in là.


Non altrettanto fu fatto con gli orari di lavoro però, che da allora occupano una parte sempre più importante della giornata.
 In ufficio si arriva comunque alle 9:00, ma pranzando alle 14:00 si interrompe la mattina con una lunga pausa, anche di mezz'ora. L'interruzione del pranzo e le lunghe pause nell'arco della giornata portano a lavorare fino alle 20:00, spostando inevitabilmente in avanti il tempo della cena e limitando le ore di sonno.

 Per questo motivo, ciclicamente, esponenti del governo riprendono la proposta di tornare al GMT, l'orario di Greenwich, più in linea con i ritmi di luce (il Sole sorge e tramonta più o meno alla stessa ora della Gran Bretagna). 
Si potrebbe così terminare la giornata lavorativa per le 18:00 e stabilire un ritmo ufficio-tempo libero più sano.



Fonte: focus.it

giovedì 15 giugno 2017

In Germania c'è un partenone ateniese fatto con centomila libri censurati


Un partenone costruito con cento mila testi proibiti nella Friedrichsplatz di Kassel, proprio lì dove, nel 1933, Hitler ordinò il rogo di migliaia di libri ebrei e marxisti «degenerati».

 In occasione del festival di arte contemporanea Documenta14, l’artista argentina Marta Minujín ha costruito nella cittadina tedesca «Partenón de libros prohibidos»: una riproduzione del tempio che sorge sull'acropoli di Atene, in scala uno a uno, interamente ricoperta di libri.


La struttura dalle dimensioni colossali (70 metri di lunghezza per 31 di larghezza e 10 di altezza) è stata realizzata grazie ad una chiamata pubblica, a cui hanno risposto migliaia di persone da tutto il mondo, inviando libri che sono stati o sono tuttora censurati. 

«Sarà uno scandalo, una monumentale opera di collaborazione di massa», aveva detto Minujín lo scorso anno, durante il lancio dell'iniziativa che segue l'analoga costruzione realizzata in piccolo nel 1983 a Buenos Aires per celebrare il ritorno della democrazia in Argentina.




Il Partenón de libros prohibidos continuerà ad arricchirsi di libri anche durante il festival: è formato da un’impalcatura metallica alla quale vengono appesi i libri, ognuno sigillato in una bustina trasparente per proteggerli da pioggia e intemperie. 
Almeno sino al 17 settembre, giorno in cui Friedrichplatz tornerà alla sua normalità e i libri verranno ridistribuiti al pubblico per tornare ad essere letti nonostante le censure.

 Fonte: lastampa.it

martedì 13 giugno 2017

Questa spiaggia è riemersa in Irlanda dopo 33 anni


Era il lontano 1984 quando una violenta tempesta spazzò via la bella e sabbiosa spiaggia di Dooagh Bay, appartenente all'Achill Island, una delle isole più grandi al largo dell'Irlanda, nella Contea di Mayo.

 Gli irlandesi credevano che fosse scomparsa per sempre, e invece no. A 33 anni di distanza, infatti, la Dooagh Bay è riapparsa sotto gli occhi increduli degli abitanti del luogo.

 "Eppure era stata completamente 'distrutta', non era rimasto nemmeno un granello di sabbia" commenta all'Indipendent Sean Molloy, un operatore turistico dell'Achill Island. 
"La sabbia è scomparsa e la zona è stata ricoperta da sassi e brecciolino per più di 30 anni" racconta poi. 

 A seguito della tempesta distruttrice, le attività commerciali che erano sorte tutt'intorno alla bella spiaggia - pub, locali, ristoranti, hotel - hanno tutte dovuto chiudere, rendendo quel tratto di costa praticamente dimenticato. 

 Un sentore della riemersione della sabbia, tuttavia, c'era già stato due anni fa, quando alcuni surfer che si stavano esercitato in mare hanno notato della sabbia sotterranea a largo, mentre nei giorni di bassa marea si iniziava ad intravedere qualche granello anche a occhio nudo.
 La situazione è cambiata improvvisamente a Pasqua, quando la regione è stata colpita da fortissime ondate di vento provenienti dall'Atlantico, le quali hanno riportato la sabbia al suo posto. 

"Le folate di vento hanno spostato indietro i banchi di acqua di superficie, facendo sì che salisse su quella più in profondità. 
Con essa è risalita anche la sabbia" ha spiegato ancora Sean Molloy, esperto della zona.


La notizia ha fatto ben presto il giro del Paese, donando agli irlandesi la voglia di tornare a Dooagh Bay. 
Con la sabbia, allora, sembra tornata anche la vita in quel fazzoletto di terra.

 Fonte: huffingtonpost.it

lunedì 12 giugno 2017

Antiche "esplosioni" di metano sui fondali dell'Artico


All'interno di crateri sottomarini sono intrappolate enormi riserve di metano che al momento ne filtrano in quantità ridotte, ma che potrebbero dar luogo a improvvisi rilasci massicci, tali da raggiungere l'atmosfera, con effetti sul clima ancora tutti da chiarire.

 E' questa la conclusione di uno studio condotto da ricercatori dell'Università Artica Norvegese a Tromsø, che firmano un articolo pubblicato su "Science", che hanno analizzato lo stato di centinaia di questi crateri individuati sul fondale del mare di Barents. 

Durante le glaciazioni, il metano liberato dal fondale marino è rimasto intrappolato sotto gli spessi strati di ghiaccio soprastanti, formando miscele di gas e acqua, o idrati, che sono stabili e rimangono allo stato solido a pressioni come quelle che si hanno a 300 metri di profondità e se le temperature sono inferiori ai 5 °C. Karin Andreassen e colleghi hanno scoperto che in seguito al riscaldamento climatico avvenuto fra 15.000 e 12.000 anni fa, si liberarono improvvisamente enormi quantità di questo metano intrappolato, creando caratteristiche formazioni a cratere e raggiungendo l’atmosfera.

 Alcuni di questi crateri sono stati osservati per la prima volta negli anni novanta, ma grazie alle nuove tecnologie si è dimostrato che interessano un’area molto più ampia di quanto si credeva inizialmente.
 “Noi ci siamo concentrati sui crateri da 300 metri a 1 chilometro di diametro, mappandone circa un centinaio, ma ci sono molte centinaia di crateri più piccoli, di larghezza inferiore a 300 metri”, spiega Andreassen.


La presenza di grandi depositi di gas idrati nei fondali dei mari artici è nota da tempo, ma le modalità del rilascio di metano influiscono significativamente sul suo destino.

 Pur essendo un potente gas serra, il metano rilasciato lentamente dai depositi sottomarini non contribuisce in modo particolarmente sensibile al riscaldamento climatico – osservano i ricercatori – perché gran parte di esso viene ossidato nella risalita lungo la colonna d’acqua che attraversa per raggiungere l’atmosfera. 
Al contrario, un rilascio improvviso e violento permetterebbe al gas di raggiungere inalterato l’atmosfera sotto forma di grandi bolle. Allo stato attuale, concludono i ricercatori, non si può escludere che il cambiamento in atto delle condizioni dei mari artici, con l’assottigliamento dello stato dei ghiacci e l’innalzamento delle temperature dell’acqua, possa portare a una repentina destabilizzazione dei gasi idrati e quindi alla liberazione esplosiva di metano.

 Fonte: lescienze.it

Le spettacolari piscine terrazzate turche ci sono anche in Francia, ma sottoterra


Un universo incantato sotterraneo. 
Varcando la grotta di Saint Marcel d'Ardèche, nel sud della Francia, si ha come la sensazione di entrare in un mondo parallelo. 
Sale enormi, formazioni rocciose sorprendenti e suoni ovattati sono in grado di avvolgere il visitatore, catapultandolo al centro della Terra. 

 Oltre alle incredibili cattedrali di roccia, qui sotto si possono ammirare una serie di piccoli bacini a cascata: delle piscine terrazzate in carbonato di calcio, simili in tutto e per tutto a quelle che si possono ammirare, in scala più grande, a Pamukkale in Turchia e nel parco di Yellowstone.










Queste grotte sono situate nel territorio di Bidon, all'ingresso delle gole dell'Ardèche, e sono state scoperte casualmente nel 1836, durante una battuta di caccia. 
Finora sono stati esplorati 57 chilometri di gallerie e ancora non si sa quante altre bellezze nascondano nei loro meandri. 

 Fonte: lastampa.it

Il calcio azteco e i suoi sconfitti


Un gigantesco tempio dedicato al dio azteco del vento e un campo destinato all'antico gioco della palla sono venuti alla luce nel centro di Città del Messico, dopo lunghi scavi per risalire alle rovine della capitale precolombiana Tenochtitlan, oggi coperta dalla megalopoli. Nel campo, di cui rimangono solo parte di una scala e una porzione di spalti, sono stati trovati 32 resti di ossa del collo, che gli archeologi pensano appartenessero alle persone decapitate durante i rituali concomitanti alle partite (se a rimetterci la testa fossero i perdenti, i vincitori come premio d'onore o altri non è chiaro).

 Secondo le cronache dei primi conquistadores, lo stesso condottiero spagnolo Hernan Cortes avrebbe assistito a una partita del gioco della palla, proprio in questo campo, nel 1528, invitato dall'ultimo imperatore azteco, Montezuma.
 


Il campo originario doveva estendersi per 50 metri, mentre il tempio, una struttura semicircolare sistemata sopra una base rettangolare, misurava 34 metri di lunghezza per quattro di altezza. Secondo gli archeologi autori della scoperta, era dedicato al dio del vento, Ehēcatl, il cui respiro si dicesse muovesse il Sole, e fu edificato tra il 1486 e il 1502. 

 ll gioco della palla, l'ulama, era una delle manifestazioni religiose più importanti e diffuse in Mesoamerica. 
Poteva essere praticato in grandi spazi aperti o in strutture con bassi muretti e anelli di pietra alle pareti in cui far passare una palla di caucciù.


Le due strutture sono solo le ultime scoperte in ordine di tempo nel centro storico della città, che sorge sulle rovine dell'antica capitale azteca.
 Nel 1985 un terremoto distrusse l'hotel che si trovava sul sito degli attuali scavi: è in quell'occasione che si notarono le tracce degli antichi edifici.

 Fonte: focus.it