venerdì 31 marzo 2017

SpaceX e il lancio storico del Falcon 9 di seconda mano


Stanotte (dalle 00.36 circa, ore italiane) c'è stato un evento storico per l'esplorazione spaziale. 
SpaceX ha lanciato un satellite a bordo di un razzo Falcon 9 il cui primo stadio aveva già volato una volta nello spazio per poi rientrare a terra atterrando verticalmente.

 Il primo stadio "di seconda mano" ha funzionato perfettamente ed è nuovamente atterrato in verticale a bordo della nave appoggio Of Course I Still Love You nell’Oceano Atlantico.
 È la prima volta che il primo stadio di un razzo orbitale vola due volte nello spazio e ritorna verticalmente. 
Un traguardo storico in generale, e soprattutto per SpaceX, una società che opera soltanto da 15 anni. 

 Lo scopo di questo esperimento è arrivare a riutilizzare in modo efficiente e sostenibile i razzi spaziali (come facciamo con gli aerei, per intenderci, che non volano soltanto una volta) senza dover spendere troppi soldi tra un volo e l'altro, come accadeva per esempio con lo Space Shuttle. 

 Per questo primo test è stato “ricondizionato” il Falcon 9 che volò nel aprile 2016, la prima missione che si concluse con un appontaggio e la seconda a terminare con un primo stadio intero e non distrutto (il primo rientro non distruttivo di un Falcon avvenne a dicembre 2015 sulla terraferma).

 Mentre gli occhi di tutto il mondo erano - giustamente - concentrati sul rientro del primo stadio, il secondo completava la sua missione mettendo in orbita il satellite geostazionario SES-10. Il patron di SpaceX Elon Musk, è intervenuto - durante la diretta del lancio, subito dopo l'atterraggio - visibilmente emozionato: 
«è stato un evento rivoluzionario nella storia dei voli spaziali» ha detto, spiegando come buttar via il razzo dopo ogni singolo volo è inconcepibile: quanto costerebbe un biglietto aereo se non potessimo riutilizzare il velivolo alla fine del tragitto? 
 Secondo Musk (e gli esperti), il riutilizzo del primo stadio è una tappa fondamentale nella riduzione dei costi per raggiungere lo spazio. 
 Come spiega Paolo Attivissimo: 
«La prossima sfida, ora che il principio è stato dimostrato, è ridurre i tempi e i costi di riutilizzo e dimostrare non solo la fattibilità tecnica ma anche la convenienza economica».

Fonte: focus.it

I vitellini vittime della produzione del latte


In minuscole stalle in fila indiana, con uno spazio vitale che non gli permettere di muoversi, recitanti in solitaria e allontanati dalle loro madri. 
Ecco le immagini shock che documentano ciò che succede ai vitellini nella Dorset farm che produce latte per la catena inglese Marks & Spencer. 
 Il blitz di Animal Equality al Grange Dairy in Winfrith Newburgh, nei pressi di Dorchester, Dorset mostra ancora una volta il modo crudele con cui vengono trattati gli animali. 

Questa volta, siamo in una fattoria o meglio in un allevamento intensivo di bovini. La Dorset farm viola qualsiasi legge sul benessere animale e in primis quella che vieta l’alloggiamento in solitaria per i vitelli oltre le otto settimane di vita.
 Il caseificio fornisce la catena Marks & Spencer che nelle sue campagna pubblicitaria, si pone come leader nel rispetto degli animali. 
Qua però filmati e immagini non lasciano spazio a interpretazioni fantasiose.




I vitelli sono ammassati uno accanto all’altro, in dei recinti in cui non hanno la possibilità di muoversi, se non di fare un passo avanti e uno indietro.
 Con difficoltà entrano nelle gabbie di plastica e quando ci riescono, finiscono per ferirsi la schiena.

 Nel Regno Unito, la legge sul benessere degli animali riconosce l’importanza dell’esercizio fisico e dell’interazione sociale tra i vitelli. Per questo è possibile tenerli in isolamento solo fino alle otto settimane di vita.




Ma questi vitelli che si vedono nelle immagini di Animal Equality hanno sei mesi di vita e soffrono.
 Separare questi animali dalle madri è una pratica standard negli allevamenti di tutto il mondo, per consentire la produzione di latte su larga scala. 
 Le mucche da latte trascorrono la loro vita in un ciclo costante di gravidanza, nascita e mungitura. Il latte che dovrebbe nutrire i cuccioli viene destinato all'industria lattiero-casearia. 

 Il filmato mostra come disperatamente i vitellini cerchino il contatto l’uno con l’altro, attraverso le divisioni di metallo dei loro recinti individuali.

 

Animal Equality ha fatto controllare i numeri della marchiatura al Dorset Trading Standars e gli esperti hanno confermato che i vitelli hanno più di otto settimane di vita. 
 Interpellata da AE la catena Marks & Spencer si è mostrata sorpresa nel vedere il trattamento dei vitelli, ma ad oggi non ha ancora interrotto il rifornimento


“E’ stato veramente straziante vedere questi vitellini in questi angusti recinti. 
Il loro posto sarebbe accanto alle madri.
 Chiediamo immediatamente che i rivenditori interrompano i legami con questo fornitore. 
Un nostro team è già a lavoro per prendere tutte le misure necessarie affinché vengano rispettati gli standard di benessere degli animali ”, dice Toni Shephard direttore Animal Equality. 

 Un trattamento riservato non solo ai bovini, ma a tutti gli animali considerati solo e soltanto una fonte di guadagno. 

 Dominella Trunfio

mercoledì 29 marzo 2017

Cos'è il bastone della pioggia?


Anticamente sulla terra non cadeva mai pioggia, sicchè un giorno, nella laguna del cielo, un indio Kaxinawà gettò un pesce dorato in direzione dell’ uccello pescatore.
 Il volatile si lanciò sull’ inaspettata preda e, così facendo liberò il foro che con le zampe stava otturando. 
Sulla Terra piovve per la prima volta.
 Ancor oggi, prima che la pioggia cada, il cielo è pervaso da bagliori: sono i pesci dorati lanciati dall’ indio.
 E la fine pioggerellina che a volte scende indica che, per la concitata attesa del volo, l’uccello pescatore si sta equilibrando su di una zampa sola.

 Così narra la leggenda della prima pioggia che cadde sulla Terra e da allora fu tanta quella che cadde ma di tutto quello che ci piace di più di questo fenomeno metereologico è il suono, la pioggia che scroscia è forse uno dei suoni più rilassanti in assoluto.
 Per riprodurre quel suono così piacevole si può usare un bastone della pioggia, che in spagnolo è detto Palo de lluvia, questo bastone non è altro che uno strumento musicale appartenente alla categoria degli idiofoni a scuotimento e di origine cilena. 

La sua nascita si perde nei meandri del tempo, addirittura si pensa che questo bastone fu usato da Dio per far cadere sulla Terra il diluvio universale, usato dalle tribù per le cerimonie religiose propiziatorie per il raccolto o per la pioggia, le popolazioni centroamericane lo utilizzavano ance per curare le malattie del sistema nervoso, perché il suono rilassante che produce questo strumento sembrava potesse avere poteri magici.


Il bastone della pioggia si può realizzare con diversi materiali a seconda del paese in cui viene utilizzato, per esempio in Brasile è possibile trovarli realizzati in legno e vimini, mentre in Messico è più comune il bambù, e in Africa si usa una zucca di forma allungata e resa vuota al suo interno.
 Ma il Palo de lluvia originale, proveniente dal Cile e dall’Argentina del Nord, è costituito da un bastone cavo ricavato dallo scheletro ligneo della pianta morta del cactus Capado che cresce nel deserto Acatama nel nord del Cile.


Un’altra caratteristica importante di questo bastone è che le popolazioni cilene per realizzarlo utilizzavano solo ed esclusivamente le piante già morte naturalmente, il cactus utilizzato ha una vita molto lunga, di circa sessanta-settant’anni, una volta che la pianta muore la polpa si secca lasciando dietro di sé una sorta di tubo vuoto, anche le spine dello stesso sono recuperate, ed utilizzate per creare il tipico suono della pioggia. 
 Le spine venivano conficcate nel tronco cavo e una volta sigillata un’estremità, venivano inserite al suo interno delle pietruzze o dei pezzetti di conchiglie, una volta sigillata anche l’altra estremità, muovendo il bastone era possibile ascoltare il magnifico suono prodotto al suo interno.

 

Parzialmente tratto da: eticamente.net

martedì 28 marzo 2017

Le Cascate di cioccolato


La primavera è un ottimo momento per le cascate: le acque sono abbondanti e le cascate maestose.
 È proprio in questo periodo, tra marzo e aprile, che bisognerebbe fare un salto in Arizona, esattamente nei pressi di Flagstaff, nel Painted Desert, in una riserva Navajo. 
Qui infatti c’è il sistema di cascate naturali più alte dello stato che prende il nome di Grand Falls. Ma sono conosciute soprattutto come Chocolate Falls (Cascate di Cioccolato), per il colore inusuale delle acque che si tuffano giù dall’alta scogliera (circa 56 metri di salto).
 L’acqua proviene dallo scioglimento delle nevi e dalle piogge stagionali delle White Mountains.
 Si raccoglie poi nel Little Colorado River (affluente del fiume Colorado), che nei periodi di piena scorre veloce e ha una portata estremamente fangosa.
 L’esperienza sarà resa ancora più magica dai numerosi arcobaleni che si formeranno grazie agli spruzzi dell’acqua durante la caduta.


Le Grand Falls si sono formate quando la lava proveniente dal Merriam Crater, scorrendo nel letto del Little Colorado River, ha creato una diga di lava.
 Per questo motivo il fiume ha dovuto trovare un nuovo corso, intorno alla diga. 
Le Grand Fall si sono formate proprio nel punto in cui il fiume si ricongiunge al suo corso originale.




Per raggiungere le Cascate di cioccolato è necessario munirsi di un permesso speciale, proprio perché sono situate nelle riserva Navajo. Inoltre non sono disponibili strade asfaltate per arrivarci.
 L’unica via percorribile da una macchina compatta è quella a sud del Little Colorado River. Ma anche così, ad un certo punto vi toccherà parcheggiare e salire su una quattro route motrici con una guida Navajo.
 Solo una guida Navajo o un’altra guida esperta potranno infatti attraversare i tratti in cui l’acqua del fiume sommerge la strada. 

 Fonte: cosebellemagazine.it

lunedì 27 marzo 2017

Riscoperto e fotografato il cane più raro al mondo


Una scoperta che è una gradita conferma: il cane selvatico delle montagne della Nuova Guinea (Canis dingo hallstromi), il più raro e antico canide selvaggio ancora in vita, da molti considerato un "fossile vivente", non è estinto in natura come si temeva. 

Una recente spedizione ha rinvenuto una popolazione numerosa e in salute, con cuccioli e femmine incinte, nelle montagne di Puncak Jaya, a 4500 m di quota. 
 Per la prima volta da mezzo secolo a questa parte, è stato possibile osservare, studiare e fotografare una popolazione di almeno 15 esemplari tra maschi, femmine e prole, completamente isolata dall'uomo e, evidentemente, molto abile a nascondersi: le uniche due foto in tempi recenti risalivano al 2005 e al 2012, e mancava la conferma del DNA, che ora è stato possibile ottenere.


Un'impronta trovata nel fango nel settembre 2016, e attribuita all'elusivo mammifero, ha portato gli scienziati dell'Università della Papua a cercare tra le foreste delle alture dell'isola, dai 3460 metri fino a quasi 4500 metri di quota, dove il canide è al vertice della catena alimentare.
 Telecamere nascoste hanno catturato 140 immagini del mammifero, e le analisi del DNA e di materiali fecali hanno confermato il suo legame con il dingo australiano e il cane canoro della Nuova Guinea, di cui il cane selvaggio potrebbe essere progenitore (ma la classificazione tassonomica non è ancora chiara).
 Secondo evidenze fossili la specie potrebbe essere giunta sull'isola assieme all'uomo - o in maniera indipendente - almeno 6000 anni fa. 

 Fonte: focus.it

Gradara, il romantico borgo di Paolo e Francesca


Gradara viene da sempre considerata come la città dell’amore, perché la pittoresca cittadina marchigiana, ha fatto da scenario alla storia di Paolo e Francesca descritta nei versi danteschi.
Chi non ricorda le parole di Dante che descrivono la tragedia dei due giovani amanti? 

 "Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
 prese costui della bella persona che mi fu tolta; 
e 'l modo ancor m'offende 

 Amor, ch'a nullo amato amar perdona, 
mi prese del costui piacer si forte, 
che, come vedi, ancor non m'abbandona. 

 Amor condusse noi ad una morte:
 Caina attende chi a vita ci spense" 

 "Noi leggiavamo un giorno per diletto 
di Lancialotto come amor lo strinse: 
soli eravamo e senza alcun sospetto.

 Per più fiate li occhi ci sospinse 
quella lettura, e scolorocci il viso;
 ma solo un punto fu quel che ci vinse 

 Quando leggemmo il disiato riso
 esser baciato da cotanto amante, 
questi, che mai da me non fia diviso
 la bocca mi baciò tutto tremante 

 Galeotto fu il libro e chi lo scrisse 
quel giorno più non vi leggemmo avante" 

 Dante Alighieri Inferno Canto V 73-143 

 Secondo la leggenda lo scenario del loro amore era proprio quello del Castello di Gradara. Secondo quanto si legge sul sito ufficiale di Gradara, Francesca da Polenta, figlia di Guido Minore, signore di Ravenna, sposò nel 1275 il figlio di Malatesta da Verucchio, signore di Gradara, Giovanni detto “Lo zoppo” o Giangiotto.


Francesca, dunque, molto probabilmente risiedeva a Gradara, sia per la vicinanza con Pesaro, una mezz’ora di cavallo, sia perché era una delle fortezze malatestiane più belle e sicure.
 La donna spesso sola per le prolungate assenze del marito, si innamora di Paolo, fratello di Giangiotto. 
 I due amanti sorpresi dal marito vennero trafitti con la spada. Dante li colloca nel girone dei lussuriosi condannandoli alla dannazione eterna, ma elevandoli a simboli dell’amore puro ed incondizionato.


Un amore nato proprio nella rocca Gradara e nel suo borgo fortificato che rappresentano una delle strutture medievali meglio conservate in Italia.
 Il Castello sovrasta l’intera vallata regalando alla vista un paesaggio mozzafiato.










C’è poi una tradizione dedicata proprio agli innamorati. 
Quando le luci si spengono è possibile accendere la candela dell’amore direttamente dal grande braciere che si trova nel centro storico di Gradara. 

 Dominella Trunfio

venerdì 24 marzo 2017

La vera storia del ponte sul fiume Kway


Per noi europei, la Seconda Guerra Mondiale è legata fondamentalmente alle vicende che coinvolsero il nostro continente, dalla Polonia invasa dai nazisti alla guerra civile spagnola, passando per l’Italia fascista e la Francia di Vichy.
 Ma, sebbene l’epicentro di quel conflitto fosse certamente il Vecchio Continente, non bisogna trascurare i drammatici eventi che si verificarono fuori dai nostri confini, soprattutto in Asia, dove l’impero giapponese fece sentire il suo afflato dittatoriale sui paesi vicini, Stati Uniti compresi. 

 Tra le vicende extraeuropee più note in tutto il mondo, oltre a Pearl Harbour, c’è la storia della costruzione del ponte ferroviario sul fiume Kwai, immortalata nel celeberrimo film del 1957 di David Lean – “Il ponte sul fiume Kway”, appunto.
 Un ponte che, in pieno conflitto mondiale (tra il 1942 e il 1943), fu costruito dai prigionieri di guerra in mano al Giappone e stanziati in un campo di prigionia in Birmania.

 La costruzione della struttura tra Birmania e Cina, che secondo i piani del governo giapponese sarebbe dovuta durare cinque anni, fu completata in soli 16 mesi, pagando un costo altissimo in termini di vite umane: 100.00 furono i morti tra coloro che lavorarono in condizioni disumane per completare l’opera nel minor tempo possibile.


 Se nel film di Lean il protagonista della vicenda fu il colonnello inglese Nicholson, che guidò i lavori con lo scopo di dimostrare ai giapponesi la forza dei soldati alleati, nella realtà a dominare la scena fu l’inumanità dimostrata nei confronti dei lavoratori forzati da parte dell’esercito nipponico. 
Turni massacranti anche di 18 ore consecutive, lavori che continuavano anche di notte alla luce di deboli lampade a olio, approvvigionamenti di cibo ben al di sotto di una soglia minima di sopravvivenza ed equipaggiamenti ampiamente insufficienti causarono numerosissime morti.
 Decessi causati da malattie come dissenteria e colera, ma anche dalle continue percosse inflitte ai prigionieri da parte dei loro carcerieri.
 Fu così che i prigionieri ribattezzarono la zona con l’inquietante nome di “Passaggio per l’inferno”, che ben inquadrava il dramma che erano costretti a vivere ogni giorno. 

Il ponte fu terminato il 17 ottobre del 1943.


Nel periodo immediatamente successivo, servì a far passare una media di soli sei treni al giorno, una miseria se considerata alla luce del sangue versato dai prigionieri. E, nonostante i continui bombardamenti alleati, resistette a pieno regime fino alla fine del conflitto, quando fu chiuso dalle forze vincitrici.

 In seguito, nel 1957 il governo thailandese, sul cui territorio transitava questo ponte, decise di riaprire il tratto tra Nong Pladuk e Nam Tok, in funzione ancora ai giorni nostri.




Negli altri tratti, la forza della giungla si sta riappropriando dei propri spazi, stendendo un naturale velo pietoso su una delle tante vicende drammatiche che segnarono quel periodo nero dell’umanità. 

 Fonte: giornalettismo.com

giovedì 23 marzo 2017

North Island, il paradiso dell’occhialino bruno


North Island è una piccola isola delle Seychelles, a nord ovest di Mahé, conosciuta soprattutto per l’esclusività del suo ecoresort immerso nella biodiversità e frequentato da vip. 
Non tutti sanno, però, che qui si sta svolgendo un’incredibile storia legata alla conservazione della natura. 
Protagonista è un piccolo uccello della famiglia Zosteropidae, l’occhialino bruno delle Seychelles, reintrodotto sull’isola dieci anni fa nell’ambito del progetto di conservazione l’Arca di Noè perché ritenuto sull’orlo dell’estinzione. 
La popolazione mondiale era, infatti, stimata in appena 350-400 individui. 
A distanza di un decennio dalla reintroduzione sull’isola di 25 individui, un recente censimento ha annunciato che la popolazione di North Island conta ora 105 individui di occhialino bruno, circa un sesto della popolazione mondiale attuale.


North Island è stata ritenuta l’isola ideale per il ripopolamento di questa specie per via del buono stato dei suoi habitat e l’assenza di ratti. 
Ora l’occhialino bruno delle Seychelles è passato dallo status “Endangered” a quello “Vulnerable”. 

Nel complesso, la popolazione di North Island appare in buona salute e autosufficiente e si prevede un aumento grazie a una serie di azioni in corso per il ripristino degli habitat, tra cui ripulitura di ampie aree dalla vegetazione alloctona in favore di piante e arbusti autoctoni. 
Anche l’eradicazione del maina comune, un uccello che su queste isole è considerato specie invasiva e responsabile della predazione di numerosi nidi di occhialino bruno, dovrebbe favorire l’aumento della popolazione. 

«Gli sforzi di conservazione formano il nucleo dei nostri valori e permeano tutte le aree di attività» spiegano i gestori dell’isola, sostenitori di un ecoturismo responsabile che salvaguardi e conservi la fauna selvatica attraverso un impatto minimo.
 E a riprova dell’impegno, è arrivata la vittoria di North Island al National Geographic Heritage Awards nella categoria Conservazione mondiale della natura, iniziativa che premia aziende, organizzazioni e destinazioni del settore turistico orientate verso pratiche sostenibili.

 Fonte rivistanatura.com

Il canyon di Marafa, “la cucina del diavolo”


Si chiama Nyari, “il posto che si rompe da solo”, perché la terra davvero sembra fratturata, ma anche Hell’s Kitchen, tradotto in italiano come “la cucina del diavolo”, per le infernali temperature infuocate che raggiunge.

 In Kenya, 30 km a nord ovest di Malindi, un’ora di strada sterrata suggestiva tra radure, villaggi, acacie e baobab, si trova Marafa, paese caratterizzato da questo luogo singolare ed evocativo. 
Un canyon surreale, che a seconda dell’ora del giorno cambia colore, raggiungendo al tramonto, l’ora migliore per visitarlo, un rosso infuocato. 
 Artefici dell’erosione della roccia arenaria, la pioggia e il vento, che hanno dato origine nei secoli a un vero spettacolo della natura. A contrasto con il blu del cielo e il verde della foreste, si alternano pareti verticali con sfumature in chiaroscuro, tra il bianco e l’ocra, guglie rossastre, pilastri di pietra alti anche 30 metri. 
Ma gli abitanti del luogo si tramandano su come si è creato il canyon tutta un’altra storia.

 Racconta la leggenda della tribù Giriama, che un tempo questa fosse una terra verde e fertile.
 Ci abitava una famiglia talmente ricca, grazie a un gregge di mucche, da potersi concedere di fare il bagno e lavare i vestiti con il latte, un bene estremamente prezioso in Africa, dove manca persino l’acqua. 
Ma un giorno Dio vide tale spreco e si adirò, facendo sprofondare la ricca famiglia e tutto il suo bestiame in questa gola inospitale che porta i segni del sangue e del latte.

 Un’altra versione vuole che, a meritare l’ira, sia stato l’intera Marafa che, sempre a causa dei suoi sprechi, fu sommersa da una grande alluvione, dalla quale sarebbe nato il canyon.


La roccia arenaria tenera continua a consumarsi sotto l’effetto degli agenti atmosferici.
 Per la pioggia cede e crolla, facendo cambiare l’aspetto del sito ad ogni acquazzone.

 Dall’ alto lo spettacolo è mozzafiato, ma è scendendo all’ interno del canyon, lungo tre km di sentiero, che si definiscono i contorni, tra cespugli e alberi di ebano, rocce dalla conformazione originale, guglie appuntite e pareti levigate.






L’entrata al sito è gestita da una Cooperativa locale, che forma le guide e contribuisce al sostentamento dell’omonimo villaggio. 

 Fonte: lastampa.it

mercoledì 22 marzo 2017

Eccezionali pitture murali in una tomba dell’Impero Kitai


Nel nord della Cina, nella città di Datong, gli archeologi hanno scoperto un’antica tomba circolare decorata con alcune pitture murali dai colori vivaci. 
 La squadra, dell’Istituto di Archeologia Comunale di Datong, ha trovato al centro della tomba un’urna con all’interno dei resti umani cremati.
 Non c’era alcun testo nella tomba ma, secondo gli archeologi, probabilmente appartenevano a un marito e moglie.


L’ingresso della tomba era sigillato con mattoni; gli archeologi sono entrati attraverso un buco nel tetto ad arco ormai in rovina


Le pitture sulle pareti mostrano servi, gru e numerosi indumenti appesi su vari stendi abiti. 
I loro colori sono ancora eccezionalmente vivaci, nonostante sia passato un millennio.


I dipinti abbondano di abiti colorati. 
Sul muro ovest uno stendi abiti in particolare tiene “vestiti di color celeste, beige, grigio-bluastro, marrone-giallastro e rosa”, hanno scritto gli archeologi sulla rivista scientifica Chinese Cultural Relics.
 “L’indumento all’estrema destra ha una griglia verde-diamante, e dentro ogni diamante vi è un piccolo fiore decorativo rosso”. 
Un altro capo di abbigliamento sembra avere invece una cintura con una fibbia di giada a forma di anello.
 Vi è poi “un lungo tavolo rettangolare con quattro piatti rotondi, neri all’esterno e rossi all’interno, con sopra un copricapo, bracciali, forcine e pettini”.




Sulla parete a est è dipinto un altro stendi abiti: “Vi sono appesi vestiti beige, verde chiaro, grigio-bluastro, rosa e marrone. Su uno dei capi pende un ciondolo a forma di anello accompagnato da un filo di perle nere”.
 Sul muro a nord erano infine raffigurate delle splendidi gru.


La squadra pensa che la tomba risalga alla dinastia Liao (907 – 1.125 d.C.). 
Questa dinastia fu fondata da una tribù del popolo Kitai, e fiorì nel nord della Cina, in Mongolia e in parti della Russia. 
In quell’epoca nel nord della Cina le persone venivano talvolta sepolte in tombe decorate.

 Nel 2014, l’Istituto di Archeologia Comunale di Datong aveva scoperto un’altra tomba con pitture murali di stelle e numerosi animali come gru, cervi, tartarughe e anche un gatto che gioca con una palla di seta. 
Gli archeologi ritengono che le due tombe aiuteranno a far luce sulla vita durante la dinastia Liao. 

 La tomba era stata scoperta nel 2007. 
Un primo resoconto era stato pubblicato nel 2015 in cinese sulla rivista Wenwu, poi tradotto in inglese su Chinese Cultural Relics. 

 Fonte: ilfattostorico.com

Un angolo di paradiso sardo: la piscina di Cane Malu a Bosa


La piscina di Cane Malu a Bosa è un vero e proprio spettacolo, un luogo suggestivo creatosi naturalmente che si trova in Sardegna. Più volte abbiamo parlato delle spiagge della Sardegna, posti incontaminati con sabbia finissima e acqua cristallina, ed ecco che racchiusa a Bosa c’è una piscina naturale scavata dal mare e dal vento, nella trachite bianca.
 Sull’origine del nome Cane Malu ci sono diverse teorie, ma la più quotata è quella che fa somigliare il sentiero di roccia, alla coda di un cane che prende vita quando il mare è mosso. 
Una versione fantasiosa, ma permessa in un luogo che sembra magico e fiabesco. 

 La piscina naturale di Cane Malu è uno scenario amato non solo dai bosani, ogni anno infatti, sono centinaia i turisti che si godono lunghe nuotate e passeggiate a pelo d’acqua. E’ poi particolarmente gettonata da chi preferisce i tuffi.






Il fondale è però scivoloso e pieno di ricci di mare, ma la stessa piscina che è un tutt’uno con il mare, può rivelarsi un po’ insidiosa, quindi meglio evitare i tuffi quando è troppo mosso e la corrente è forte.


Cane Malu si trova nella spiaggia di Bosa Marina che si estende tra Bosa e Capo Marargiu, un litorale sabbioso dorato incorniciato in un mare blu con fondali che digradano verso il largo. 

Una spiaggia ideale dove ritagliarsi un po’ di privacy grazie a piscine e calette. 

 Dominella Trunfio

lunedì 20 marzo 2017

Vittoria dei Maori: il loro fiume è stato equiparato a una persona


Ci sono voluti 170 anni o forse più, ma ora per la prima volta al mondo un fiume è una persona.
 Il Whanganui in Nuova Zelanda ha ottenuto il riconoscimento di personalità giuridica, protetta da rappresentanti legali. 

Il corso d’acqua è riverito come sacro dal popolo maori, scorre per 145 km dal centro dell’Isola del Nord fino al mare, e il parlamento ha dato a lui la qualità di “persona”, dopo appunto una battaglia legale durata 170 anni. 
Il Whanganui sarà rappresentato congiuntamene da un membro nominato dalla comunità maori e uno nominato dal governo.

 La legge deriva dallo storico trattato di Waitangi, che fu firmato nel 1840 da un rappresentante della corona inglese e da 40 capi delle tribù maori dell’Isola del Nord.
 In base al trattato, che mise fine a un lungo conflitto fra maori e colonizzatori, la Nuova Zelanda divenne colonia inglese.
 Esso offre da allora sostanziale protezione agli interessi e alle proprietà tradizionali dei maori.

 La nuova legge mette fine al più lungo contenzioso nella storia del Paese, ha detto il ministro per il trattato di Waitangi, Christopher Finlayson. «Questa legge riconosce la profonda connessione spirituale fra il locale popolo Whanganui Iwi e il loro fiume ancestrale. Ne riconosce le tradizioni e usanze e crea una base solida per il futuro del fiume».


Il fiume Whanganui ora ha tutti i diritti, i doveri e le responsabilità di una persona sarà rappresentato congiuntamente da un membro nominato dalla comunità maori e uno nominato dal governo. 
Fra l’altro, potrà essere rappresentato in procedimenti in tribunale. La legge prevede un indennizzo finanziario di 80 milioni di dollari neozelandesi (52 milioni di euro) e il governo inoltre contribuirà con 30 milioni di dollari (circa 20 milioni di euro) ad un fondo per promuovere e mantenere la salute e il benessere del fiume. 

«Abbiamo sempre creduto il fiume Whanganui come in un insieme indivisibile e vivente, con tutti i suoi elementi fisici e spirituali, dalle montagne del centro dell’Isola del Nord fino al mare», ha detto la leader del partito maori Marama Fox.

 Il concetto di trattare un fiume come una persona non è inconsueto per i Maori ed è espresso dal noto detto: «Io sono il fiume e il fiume è me». 
«Non siamo noi ad avere cambiato la nostra visione del mondo, ma sono le persone e le istituzioni a mettersi al passo e vedere le cose nella maniera in cui le vediamo noi», ha aggiunto Marama Fox.


«Questa legge riconosce la profonda connessione spirituale fra il locale popolo Whanganui Iwi e il loro fiume ancestrale – ha detto il ministro per i negoziati del trattato di Waitangi, Christopher Finlayson -, riconosce le loro tradizioni, usanze e pratiche e crea una base solida per il futuro del fiume». 
 «Abbiamo sempre combattuto per l’anima del fiume», ha detto il principale negoziatore per il locale popolo maori, Gerrard Albert, aggiungendo che la comunità era preoccupata da tempo per l’impatto sulla «salute e benessere» del fiume, che sono direttamente legati al benessere del nostro popolo.
 Noi trattiamo il fiume come un antenato ed era necessario trovare qualcosa che si avvicinasse a questo nella legge e lo confermasse. E quindi assicurare che tutti i neozelandesi lo comprendano e collaborino», ha aggiunto


Nelle tradizioni dei popoli come i Maori la natura in tutte le sue forme ha un’importanza molto diversa da quella che diamo noi occidentali, la natura è un essere vivente e alcuni popoli la venerano, con tutti i suoi componenti, come un dio superiore perché consente all’essere umano di sopravvivere.
 E come dare loro torto? 

 Fonte: lastampa.it