martedì 28 febbraio 2017
Le risorse nascoste della nostra psiche: la “resilienza”
In psicologia il termine “resilienza” indica la capacità dell’individuo di superare e di trarre forza da eventi stressanti e traumatici.
E’ un’espressione della duttilità della psiche e del dinamismo della personalità, che spiega come molti individui trasformino situazioni oggettivamente sfavorevoli in occasioni di cambiamento vantaggiose per la propria evoluzione verso la piena realizzazione di sé e della propria felicità.
Il concetto di resilienza è mediato dalla scienza dei materiali, per la quale un materiale ad alta resilienza è quello in grado di adattarsi a pesanti sollecitazioni mantenendo la sua forma originaria. Analogamente, ci sono persone che rispetto a situazioni avverse dimostrano un’elevata soglia di tolleranza alla frustrazione e anzi sanno adottare strategie per ricavarne un vantaggio, e persone “non resilienti” o “scarsamente resilienti” che si lasciano schiacciare dalle difficoltà, partendo dall’idea di non poter cambiare.
Queste persone si irrigidiscono su sistemi di convinzioni negative che le atterrano nell’insoddisfazione o in forme più o meno gravi di disagio psicologico.
La resilienza è associata alla perseveranza, alla creatività, all’empatia e al pensiero positivo e si basa sul presupposto che tutto serva.
Tutto serve, tutto contiene un messaggio prezioso, tutto rappresenta una possibilità evolutiva, anche se nell’emergenza della sofferenza è difficile individuarla.
Gli individui resilienti si pongono rispetto alla realtà in modo attivo: la inventano, la costruiscono, la adattano a sé e, tra i molteplici significati degli eventi, selezionano sempre quello più positivo.
La resilienza non è una caratterista genetica, ma un’opportunità che tutti gli esseri umani possono cogliere lavorando su l’unica variabile che possono veramente controllare: il proprio pensiero.
Il resiliente usa tutti i colori della tavolozza del proprio cervello. Il non resiliente, si limita al grigio e al nero: i primi saranno persone serene ed equilibrate, i secondi, alteri guardiani del proprio ergastolo mentale da loro stessi inflitto.
Dagli anni ’80, la resilienza è diventato un concetto-chiave nella psicoterapia, nel coaching professionale e nella psicologia del lavoro: l’intervento psicologico, a prescindere dal contesto che lo richiede, si configura sempre di più come un insieme di strategie, di tattiche e di tecniche per apprendere, incoraggiare e incrementare la resilienza umana.
Per sviluppare questo straordinario stile di pensiero, occorre prima di tutto assumere per quanto possibile un atteggiamento aperto e non giudicante rispetto a se stessi, agli altri e al mondo.
E’ il passo più difficile, dato che definizioni rigide della realtà rappresentano per molti una barriera contro la sua complessità e un tentativo di controllarla illusoriamente.
Eliminare del tutto pregiudizi e convinzioni limitanti è però utopistico: si può al limite diventarne consapevoli e cercare di arricchire il proprio punto di vista di alternative diverse da quelle offerte dall’abituale approccio alle cose, quello che consideriamo spontaneo ma che è soltanto il frutto di una combinazione di esperienze e di apprendimenti, a volte inconsci, non sempre funzionali.
A cosa serve giudicarsi sbagliati, tristi, sfortunati?
A cosa serve pensare che un problema sia irrisolvibile?
A cosa serve piangere sul latte versato?
Qual è l’utilità del pensare che il mondo sia un luogo pieno di insidie?
Si tratta di giudizi, di visioni della realtà certamente vere, ma non più di altre di segno opposto che però aprono la strada alla resilienza, alla soluzione strategica e creativa dei problemi e alla costruzione di un equilibrio nuovo.
La resilienza psicologica non è semplice “pensiero positivo”, consiste nell’accompagnare il pensiero positivo all’azione con perseveranza, anche nelle situazioni più complicate.
Si può definire resiliente chi apprende dalle difficoltà senza la pretesa di risolvere subito i problemi e chi ha un’elevata soglia di resistenza alle frustrazioni.
Soggetti scarsamente resilienti, invece, sono caratterizzati da un certo grado di rigidità e, una volta strutturato uno schema della realtà, rifiutano di variarlo anche quando risulta impedire equilibrio e realizzazione personale.
Bassa resilienza è correlata ad elevati livelli di conflittualità interpersonale e sofferenza psicologica, oltre che a scarsa capacità di realizzare le proprie attitudini.
Per capire meglio cosa sia la resilienza, si pensi alla storia di un ragazzo molto sfortunato: figlio di una ragazza madre che lo dà in adozione e costretto a frequentare l’università prima ancora di aver compreso cosa volesse fare nella vita.
Gli studi, costosissimi, vanno a rotoli gettando quasi sul lastrico la sua famiglia.
Disorientato, ma perseverante, il ragazzo resta la Campus.
Si arrangia raccogliendo lattine nel parco in cambio di pochi dollari e dormendo ospite nelle stanze dei colleghi e a volte per strada.
Una situazione terribile.
Nel grigiore e nell’apatia per la vita universitaria, il ragazzo trovava la bellezza soltanto nei manifesti e nelle scritte appesi nei corridoi provenienti dal corso di calligrafia ospitato in quella Università.
Così, sulla scia di un’intuizione, decide di frequentare le lezioni di calligrafia e si appassiona ai diversi tipi di carattere, all’arte di disegnarli, comporli e separarli a mano, così da ottenere sempre un risultato perfetto.
Certo, quella scelta non aveva nulla a che fare col suo ambito di studi, ma era la sola cosa che sentisse di fare in quel momento confuso della sua esistenza.
Quel ragazzo era Steve Jobs, fondatore di Apple, che è, a tutti gli effetti, uno dei più fulgidi esempi viventi di resilienza umana.
Come ha spiegato lo stesso Jobs, senza quel casuale corso di calligrafia non avrebbe mai creato più avanti i caratteri che oggi usiamo tutti, bellissimi e funzionali, e che derivano dal primo Machintosh.
Senza la resilienza, Jobs si sarebbe forse piegato davanti all’evidenza dei fallimenti universitari e all’apparente incapacità di trovare un senso compiuto al proprio percorso di allora… come succede a molti.
Raccontando la sua interessante vicenda agli studenti del Reed College, Jobs spiega la sua resilienza come la “capacità di unire i punti”, ovvero di mettere insieme all’interno di un disegno compiuto tutte le esperienze esistenziali, anche quelle più difficili o drammatiche e dice:
“Se non avessi abbandonato gli studi, se non fossi incappato in quel corso di calligrafia, i computer oggi non avrebbero quella splendida tipografia che ora possiedono.
Certamente non era possibile all’epoca “unire i puntini” e avere un quadro di cosa sarebbe successo, ma tutto diventò molto chiaro guardandosi alle spalle dieci anni dopo”.
“Non potete sperare di unire i puntini guardando avanti, potete farlo solo guardandovi alle spalle: dovete quindi avere fiducia che, nel futuro, i puntini che ora vi appaiono senza senso possano in qualche modo unirsi nel futuro.
Dovete credere in qualcosa: il vostro ombelico, il vostro karma, la vostra vita, il vostro destino, chiamatelo come volete… questo approccio non mi ha mai lasciato a terra e ha fatto la differenza nella mia vita.”
Non possiamo scegliere tutto e a volte ci capitano situazioni in cui ci sentiamo imprigionati.
La resilienza, se attivata, è una risorsa miracolosa perché fa leva sull’unico aspetto della realtà su cui possiamo acquisire molta libertà: il pensiero.
Henry Ford diceva: “Non importa che pensiate di saper fare o non saper fare qualcosa, comunque avete ragione”. In questo senso, per stimolare la resilienza, occorre selezionare i pensieri e buttare via tutti quelli che non servono o che lasciano un problema immutato o lo peggiorano.
Fonte: fisicaquantistica.it
lunedì 27 febbraio 2017
L'incredibile rivestimento delle piramidi
Nel loro stato originale ognuno dei quattro lati delle Piramidi di Giza aveva un rivestimento liscio composto da lucidi blocchi perfettamente sagomati.
Questo rivestimento le copriva interamente e il sole d'Egitto le avrebbe fatte brillare come degli specchi giganteschi in mezzo al deserto.
Gli antichi egizi chiamavano la Grande Piramide di Cheope "Ikhet", che significa "luce gloriosa".
Ci tengo a far notare la complessità del lavoro svolto dagli ingegneri che hanno realizzato questo capolavoro.
Del rivestimento che copriva le piramidi di Giza è rimasto soltanto quello della parte superiore della piramide di Chefren, una buona parte si è staccata in seguito a un devastante terremoto che colpì la zona del Cairo nel 1301 a.C., il resto invece è stato usato per edificare la città in un periodo storico in cui non c'era alcun interesse per le antichità, portando le piramidi di Giza ad una progressiva spogliazione.
Questo rivestimento e' un capolavoro dell'ingegneria, immaginate le enormi difficoltà che ci potevano essere nell'adattare i blocchi del rivestimento a quelli che compongono il corpo della piramide.
I blocchi del rivestimento combacino alla perfezione e il raggiungimento di un simile risultato avrà sicuramente richiesto continue misurazioni.
I blocchi del rivestimento dovevano essere tagliati e sagomati alla perfezione in quanto ogni pezzo doveva combaciare sia con i blocchi grezzi della piramide, sia con gli altri blocchi del rivestimento
Questo lavoro rappresenterebbe una sfida ardua per gli ingegneri di oggi che hanno a disposizione computer, gru, ruspe, strumenti idraulici e macchine di ogni genere, figuriamoci per quelli di migliaia di anni fa che potevano contare solo su strumenti tecnici di poco superiori a quelli dell'eta' della pietra.
Inoltre non bisogna dimenticarsi di calcolare le enormi difficoltà che ci potevano essere nel muovere carichi di decine di tonnellate sull'inconsistente sabbia del deserto.
Alla base del lato nord alcuni blocchi che componevano il rivestimento sono ancora intatti e hanno dimensioni enormi.
Nella piramidi Romboidale di Snefru a Dahshur invece è rimasta intatta una considerevole parte del rivestimento.
Guardando questa piramide possiamo immaginare meglio quale fosse l'aspetto originale delle tre piramidi di Giza ed avere un'idea di quanto fosse magnifico il lavoro svolto per creare una superficie liscia su tutti e quattro i lati delle piramidi.
Fonte: civiltaanticheantichimisteri
sabato 25 febbraio 2017
venerdì 24 febbraio 2017
"Il miracolo del sole" nel tempio di Abu Simbel
Abu Simbel è un tempio Egizio rupestre situato sulle sponde del lago Nasser, a 300 km dall'odierna città di Assuan.
Fu costruito dal faraone Ramses II (1290 a.C.-1224 a.C.), uno dei più grandi e longevi faraoni di sempre, per divinizzare se stesso e per esaltare il suo lungo regno.
La facciata e gli ambienti interni del tempio furono scolpiti nella roccia.
All'esterno quattro colossi del faraone Ramses II troneggiano maestosi, mentre gli ambienti interni si sviluppano lungo una navata centrale fiancheggiata da otto pilastri osiriaci.
La navata centrale conduce alla "sala dei nobili", luogo in cui si trova un piccolo santuario che contiene le statue sedute di quattro divinità rivolte verso l'entrata del tempio: da sinistra a destra, Path di Menfi (Dio dell'arte e della tenebra), Amon-Ra di Tebe (Dio del Sole e di tutte le cose del creato), Ramses II divinizzato e Ra-Harakhti (divinità nata dal sincretismo tra il Dio Ra e Harakhti, Horo all'orizzonte, probabilmente durante la V dinastia).
Due volte all'anno, il 21 febbraio e il 21 ottobre, si configurava "il miracolo del Sole".
All'alba di questi giorni la luce del Sole penetrava all'interno e illuminava le statue sacre ubicate all'interno del santuario.
Durante il resto dell'anno il santuario rimaneva completamente al buio, mentre nei due giorni sopracitati le statue venivano illuminate ad eccezione della prima a sinistra, Ptah, Dio dell'arte e della tenebra e giustificatamente avvolto dall'oscurità, Amon-Ra e Ra-Harakhti venivano illuminati per 5 minuti ciascuno, mentre il Sole illuminava per ben 20 muniti la figura divinizzata di Ramses II, riscaldando e caricando di energia la sua statua.
Riguardo le date scelte non c'è accordo tra gli egittologi, alcuni sostengono che il 21 febbraio e il 21 ottobre fossero rispettivamente le date della nascita e dell'incoronazione del faraone, altri pensano invece che si tratti dalle date che approssimativamente coincidono con la fine della piena del Nilo e con l'inizio del successivo raccolto.
Nel 1960 iniziarono il lavori di costruzione della Diga di Assuan, questo progetto prevedeva la formazione di un'enorme bacino artificiale che avrebbe sommerso il tempio di Abu Simbel.
Grazie all'intervento dell'UNESCO venne studiato un sistema per salvare il tempio, furono impiegate risorse senza precedenti e un progetto ambizioso che prevedeva lo spostamento del tempio 300 metri più indietro e 65 metri più in alto.
Tra il 1964 e il 1969 duemila uomini tagliarono e spostarono il tempio pezzo per pezzo servendosi delle più avanzate tecnologie. Una volta ricomposto il tempio venne costruita un'enorme cupola di calcestruzzo per poter reggere il peso della roccia depositata per ricreare l'aspetto originale della montagna.
Nonostante l'enorme sforzo e l'accuratezza nelle misurazioni servite dalla migliore tecnologia del XX secolo venne commesso un errore di orientamento.
Dopo lo spostamento il "miracolo del Sole" non avvenne più nelle consuete date ma con un giorno di ritardo, il 22 febbraio e il 22 ottobre.
Fonte: civiltaanticheantichimisteri
giovedì 23 febbraio 2017
Le case galleggianti del lago Bokodi
Il lago Bokodi si trova a ovest di Budapest, in Ungheria e parte del suo fascino è dovuto alle case galleggianti colorate che incorniciano un tramonto mozzafiato.
Bokodi è un lago artificiale creato nel 1961, un tempo esso non congelava mai, perché le sua acque venivano utilizzate dalla centrale nucleare vicina, che oggi fortunatamente è chiusa.
Con il tempo, Bokodi è diventato un luogo turistico grazie alla costruzione di piccole case galleggianti.
Tutte diverse una dall’altra, le case sono collegate da passerelle in legno che ricreano un ambiente quasi fiabesco.
Non a caso, infatti, esso è diventato uno dei luoghi più fotografati da turisti e fotografi.
Il tutto, è stato favorito dalla chiusura della centrale nucleare, il lago si è così trasformato in un ambiente più naturale e meno inquinato.
Le palafitte sono sia abitazioni che piccoli locali di ristorazione lontani dal caos cittadino, soprattutto nel periodo estivo, i tavolini vengono allestiti sulla passerella e c’è la possibilità di bere un drink gustandosi un’atmosfera romantica.
Tratto da: greenme.it
Il ponte tibetano più lungo del mondo si trova in Italia
Il ponte tibetano più lungo del mondo non si trova in Tibet ma in provincia di Torino. Più precisamente nelle Gorge di San Gervasio, nel cuore delle Alpi Occidentali, al confine con la Francia.
Circa 470 metri di funi d’acciaio si estendono a più di 25 metri di altezza dal suolo, accompagnando gli esploratori più audaci in un percorso sospeso tra salici arbustivi, pioppi, ciliegi selvatici e il fiume Dora, che attraversa la flora del territorio.
Ad unirsi ai 470 metri (in realtà costituiti da due ponti collegati tra loro) ci sono i 90 metri di un terzo ponte, separato dagli altri due da un sentiero.
In totale sono dunque 560 metri, ed è proprio questo numero ad aver battuto il record del Guinness dei Primati nel 2006.
Primato che, tra le altre cose, detiene ancora oggi.
Ma perché viene chiamato “tibetano”?
L’appellativo lascia intendere che sia stato costruito da chissà quali viaggiatori giunti in Italia da località remote del mondo, ma non è così.
Caratterizzato da tre funi in corda o acciaio (una su cui si cammina e le altre due che fungono da corrimano), il lungo ponte deve il suo nome a questa particolare composizione che sfrutta il carico di tensione tra le funi per ridurre l’oscillazione.
In questo modo, maggiore è la tensione che lega le funi, minore è l’oscillazione.
Questa tecnica di costruzione dei ponti sospesi è stata sviluppata intorno al 600 d.C. ed è stata utilizzata dal costruttore tibetano Thangtong Gyalpo, vissuto nel XV secolo, il quale costruì il ponte di Duskum nel Bhutan orientale.
Altri esempi di questa tecnica sono presenti sulle Ande, dove le popolazioni Inca e Maya costruivano ponti simili da prima dell’arrivo di Colombo.
Non sono poche le peculiarità che rendono questo ponte unico nel suo genere, una vera e propria chicca italiana immersa in un paesaggio naturalistico poco conosciuto ma di gran lunga meritevole dell’attenzione di chi predilige la montagna.
Per arrivare alle Gorge, infatti, si passa per Claviere, piccolo comune dell’alta Val di Susa che sorge in una valletta pianeggiante circondata da boschi e sorvegliata dal monte Chaberton.
D’inverno è una tranquilla località sciistica, d’estate – unica stagione durante la quale è possibile visitare il ponte – si trasforma in un paradiso per gli amanti del trekking e della mountain-bike.
Fonte: europinione.it
mercoledì 22 febbraio 2017
Il suggestivo Castello di Praga
Il Castello di Praga, considerato il più antico e grande al mondo, è il centro del potere temporale e spirituale dell’intera Boemia.
E’ qui che i re Cechi, gli imperatori del Sacro Romano Impero e i presidenti della Repubblica Ceca hanno tenuto la loro residenza.
Alto, arrampicato sopra le viuzze ripide di Malà Strana, il Castello di Praga visto dal basso sembra inaccessibile e misterioso, proprio come lo descriveva Franz Kafka.
In realtà, varcate le mura d’ingresso, il Castello rivela degli scorci molto più delicati di quelli descritti dal grande scrittore praghese.
Nonostante le invasioni e gli incendi del passato, il castello racchiude monumenti storico-religiosi di indubbia bellezza: la Basilica di San Giorgio, contenente le tombe dei membri della dinastia Premysl, del sovrano Vratislav e Boleslav II, il monastero di San Giorgio; la famosa Cattedrale di San Vito, dal cui campanile è possibile ammirare l’incantevole panorama cittadino; la Torre delle polveri, oggi museo, che in origine conservava polvere da sparo ed era attiva anche una fonderia di campane; la Torre Dalibor, costruita per ordine di Vladislav della dinastia Jagellone nel Cinquecento che fino al 1781 serviva come prigione; il Palazzo Reale, in cui regnarono, dall’11 secolo, i sovrani cechi, il Palazzo Lobkovic, oggi parte del Museo Nazionale dove tengono una mostra permanente rappresentando documenti, statue, foto, gioielli dell’epoca.
La galleria del castello di Praga, arredata con oggetti preziosi, tra cui i tesori rimasti dall’epoca di Rodolfo II e le pitture dal Seicento-Ottocento, come per esempio di Tiziano;il Vicolo d’Oro, famoso per le sue casette colorate e per la casetta del numero 22 dove viveva Franz Kafka.
La visita al Castello termina entrando negli stupendi Giardini Reali, che lo costeggiano in tutta la sua lunghezza, in cui si trovano piante molto singolari visto il freddo che fa a Praga, come pompelmi e fichi.
In questi giardini per la prima volta vennero coltivati i tulipani che poi faranno la fortuna dell’Olanda.
Nei giardini merita una visita il Belveder, palazzo rinascimentale di stile italiano vicino al quale c’è la Zpivajici fontana, la Fontana Cantante che prende il nome dal suono che emette la sua acqua.
Fonte: meteoweb.eu
martedì 21 febbraio 2017
Una strage di cui nessuno parla, quella degli Indiani d'America
Accanto al dramma della Shoah entrato tristemente nei libri di scuola esiste un altro massacro, quello di cui nessuno parla, quello che ogni anno non viene celebrato, quello che non restituisce dignità alle vittime.
E’ l’olocausto degli Indiani d’America, lo sterminio di tutte le etnie indie che popolavano il continente prima dell’arrivo degli occidentali.
E’ conosciuto anche come i “500 anni di guerra”, perché furono uccisi quasi 100 milioni di esseri umani in nome della colonizzazione.
Non morirono solo i nativi, ma anche le loro tradizioni, la cultura e venne distrutto per sempre un habitat naturale incontaminato.
La scoperta dell’America fu per i nativi l’inizio della fine perché quella data segnò l’avanzata del massacro che si concluse solo nella Prima guerra mondiale.
Intere comunità vennero sterminate all’interno dei loro villaggi dagli eserciti regolari, alcuni morirono perché gli occidentali portarono con sé vaiolo e altre malattie, altri di fame dopo la devastazione di piante e animali.
L’intero continente americano fu trasformato dopo l’arrivo di Colombo e gli occidentali non fecero altro che quello che Hitler attuò nei campi di concentramento.
In numerosi testi storici, viene raccontato che il dittatore nazista per la sua idea folle di sterminio degli ebrei a favore della razza ariana, si ispirò proprio all’Olocausto dei nativi americani.
Per l’olocausto americano, gli occidentali si appellarono al fatto che i nativi non avevano intenzione di sottomettersi al popolo bianco, cedendo le loro terre ancestrali e incontaminate, a uso e consumo degli occidentali.
L’atteggiamento, già dalla scoperta dell’America, era chiaro: i colonizzatori si erano eretti a entità superiori giudicando i nativi come “selvaggi e da civilizzare”.
Ci sono tantissimi motivi alla base anche se tutto è legato da un unico filo conduttore, quello di impossessarsi di terre e ricchezze dei nativi, spesso però guerre e uccisioni vennero giustificate da motivi ideologici.
Nel corso del XVI a decimare i pellerossa ci pensarono anche vaiolo, influenza, varicella, morbillo, tutte patologie sbarcate assieme agli occidentali.
Malattie inesistenti in America, per questo mentre le popolazioni europee avevano sviluppato anticorpi, gli indiani si ammalarono e morirono senza cure.
Si stima che circa un decimo dell'intera popolazione mondiale fu decimato.
Durante la guerra di secessione americana, tra gli episodi da non dimenticare, c'è il massacro Sand Creek del 29 novembre 1864, avvenuto durante la guerra del Colorado.
Un episodio tragico in cui 600 nativi americani membri delle tribù Cheyenne meridionali e Arapaho, vennero attaccati da 700 soldati comandati dal colonnello John Chivington, nonostante i trattati di pace stipulati con i capi tribù locali.
Un massacro senza precedenti di donne e bambini che sfociò in diverse investigazioni da parte dell'esercito statunitense.
Purtroppo una situazione che continua anche oggi, la storia qualcuno direbbe, non ci ha insegnato nulla. E parliamo di tutte le volte che gli indigeni del Sud America vengono picchiati, sfrattati, uccisi per fare spazio a dighe e piantagioni di olio di palma.
Dominella Trunfio
In Britannia sono stati ritrovati fiori di 1500 anni fa incredibilmente ben conservati
Felci e fiordaliso, semi di primule, ranuncoli e carici conservati benissimo. Cresciuti rigogliosi, 1500 anni fa.
È l’incredibile ritrovamento degli archeologi vicino alla città di Pewsey, nella contea di Wiltshire, di alcuni fiori che hanno resistito al tempo e gettano una nuova luce sulla Britannia del 500 d. C. e del secolo successivo, l’ultimo periodo romano nella futura Inghilterra, prima della ritirata, per difendere l’Europa continentale. Le piante sono state rinvenute all’interno di pentole di rame, nascoste con tutta probabilità a regola d’arte per impedire loro di cadere nelle mani dei predoni anglosassoni.
Si sono conservate praticamente intatte, come un mazzo di fiori essiccato, che ne dimostra ancora la rigogliosità, in otto vasi imballati.
La datazione al radiocarbonio fissa il periodo della sepoltura del tesoro tra il 380 e il 550 d. C., nel momento in cui i romani si stavano ritirando e gli anglosassoni hanno espanso i loro insediamenti nella zona meridionale e orientale.
«La sopravvivenza dei fiori è davvero molto speciale», ha dichiarato al quotidiano britannico The Times Richard Henry, membro del Portable Antiquities Scheme, un programma del governo per incoraggiare i volontari a denunciare i piccoli ritrovamenti archeologici nelle campagne.
«È difficile dire se si trattava di un ex-voto. Sembra che il bottino sia stato interrato in fretta, durante una fuga della popolazione, forse pensando di ritornare. Ma è veramente interessante la zona in cui sono stati seppelliti, al confine tra i romani e gli angli. Quella era una frontiera significativa, in un periodo di grandi cambiamenti sociali».
Dalle analisi risulta che il tesoro è stato confezionato con fiori recisi durante la metà dell’estate, in un ambiente che includeva pascoli e campi coltivati.
Il materiale vegetale è sopravvissuto a causa della felice posizione dei vasi, che hanno formato una cavità sigillata.
Questa tecnica, probabilmente involontaria, ha permesso il materiale organico nel corso del tempo si rivestisse di sali di rame. Il ritiro romano dalla Gran Bretagna è datato circa 410 d. C., quando l’imperatore Onorio ordinò alle legioni di lasciare. I cittadini britannici romani, probabilmente, temevano raid da parte degli anglosassoni.
I fiori e il vasellame sono stati donati al museo Wiltshire a Devizes. Non sono stati considerati, ai sensi della legge, tesoro nazionale, perché non erano inclusi metalli preziosi come oro e argento, anche se all’operazione di ritrovamento ha partecipato anche il Dipartimento Antichità del British Museum.
Fonte: lastampa.it
lunedì 20 febbraio 2017
La cascata di fuoco nello Yosemite National Park
Una cascata di fuoco, caratterizzata da lava brillante e arancione. Sbagliato: la cascata c'è ma è di acqua e luce.
Un fenomeno naturale bellissimo, che si può ammirare ogni anno a febbraio in uno dei luoghi più suggestivi della Terra.
Siamo allo Yosemite National Park, negli Usa.
Un fascio di luce attraversa le montagne del parco californiano. Un'illusione ottica che attira i visitatori da tutto il mondo.
Viene chiamato firefall ed è una vera e propria cascata di luce che si incunea tra le pendici delle alture dello Yosemite National Park. Il fenomeno si verifica ogni anno per un paio di settimane, a febbraio, al tramonto.
In quel momento della giornata, il sole si trova in una particolare posizione e illumina una cascata d'acqua.
Per i fotografi, si tratta di uno spettacolo da non perdere.
In molti visitano il parco per ammirare il fenomeno.
Purtroppo non tutti gli anni è possibile vederlo perché spesso le condizioni meteo non lo consentono. Basta infatti un cielo molto nuvoloso per rovinare le attese dei tanti appassionati.
Quest'anno però è stato favorevole.
In tanti hanno potuto ammirare il firefall.
Secondo il portavoce del National Park Service Scott Gedima, il fenomeno è ancora più grande e visibile del solito perché la cascata è ricca d'acqua per via delle abbondanti piogge e nevicate.
Francesca Mancuso
La leggenda della farfalla blu
La leggenda della farfalla blu narra di un uomo vissuto molti anni fa, rimasto vedovo e con due figlie di cui prendersi cura.
Le due bambine erano estremamente curiose, intelligenti e desiderose di imparare.
Per saziare la loro fame di conoscenza, riempivano in continuazione il padre di domande.
Talvolta egli dava loro risposte sagge, ma non sempre era facile convincere le due bambine o rispondere correttamente ai loro quesiti.
Notando l’inquietudine delle sue due figlie, l’uomo decise di mandarle in vacanza presso un saggio che viveva sull’alto di una collina, per convivere insieme ed imparare da lui.
Il saggio si mostrò in grado di rispondere senza alcuna esitazione a qualsiasi quesito da parte delle due bambine.
Un giorno, però, le due sorelle decisero di architettare un’astuta trappola per il saggio per poter misurare la sua saggezza.
Una notte, le due si misero ad ideare un piano: proporre al saggio una domanda alla quale egli non fosse in grado di rispondere. – Come possiamo ingannare il saggio? Quale domanda potremmo fargli per coglierlo impreparato? – domandò la sorella minore. – Aspettami qui, te lo mostro subito. – rispose la più grande.
La sorella maggiore discese la collina, e passata un’ora, tornò con il grembiulino chiuso a mo’ di sacco, nascondendo qualcosa. – Cos’hai lì? – chiese la sorella piccola.
La sorella maggiore infilò una mano nel grembiule e mostrò alla bambina una splendida farfalla blu.
– Che meraviglia! Cos’hai intenzione di farne?
– Sarà questa l’arma che ci permetterà di ingannare il maestro con una domanda a trabocchetto. Lo cercheremo e, una volta trovato, terrò la farfalla nascosta in una mano.
Domanderò poi al saggio di dirmi se la farfalla che ho in mano sia viva o morta.
Se egli mi dirà che è viva, stringerò forte la mano e la ucciderò.
Se risponderà che è morta, la lascerò libera.
Qualunque sia la sua risposta sarà dunque sempre errata. Accogliendo la proposta della sorella maggiore, entrambe le bambine si misero alla ricerca del saggio.
– Saggio – disse la più grande – sapresti indicarci se la farfalla che ho tra le mani è viva o morta?
Al che il saggio, con uno scaltro sorriso, rispose: “Dipende da te, essa è nelle tue mani”.
Il nostro presente e il nostro futuro sono unicamente nelle nostre mani.
Quando qualcosa va storto, non bisogna dare la colpa a nessuno. Siamo sempre e solo noi gli unici responsabili di ogni nostra perdita e ogni nostra conquista.
La farfalla blu rappresenta la nostra vita.
Sta a noi decidere cosa fare di essa.
Fonte: nonguardarlo.com
giovedì 16 febbraio 2017
Mar Morto, scoperta la dodicesima grotta di Qumran: potrebbe aver ospitato parte dei Rotoli
Eravamo rimasti a 11 grotte.
Ora sono 12 e ai meravigliosi reperti storici rinvenuti all’interno delle precedenti, potrebbero verosimilmente aggiungersi ulteriori frammenti di manoscritti antichissimi, i quali andrebbero a rimpinguare il già immenso patrimonio storico e letterario costituito dai cosiddetti Rotoli del Mar Morto.
Un gruppo di archeologi dell’Università Ebraica di Gerusalemme e della Liberty University di Lynchburg (Usa), ha rinvenuto una nuova cavità naturale a Qumran, la dodicesima in grado di ospitare i famosi documenti, risalenti addirittura a prima della nascita di Cristo.
Per il momento, i ricercatori hanno rinvenuto qualche frammento di coccio da vaso e alcuni resti di pergamena ancora da riempire, ma le premesse (e le tracce) per identificare questo luogo come quello giusto per rintracciare nuovi pezzi di manoscritti ci sono davvero tutte.
Sono trascorsi più di sessant’anni dagli ultimi ritrovamenti effettuati nelle grotte poste nella zona a sud della città di Gerico, non lontano dalle sponde nordoccidentali del grande lago salato. Secondo quanto si racconta, la grotta 1 fu scoperta nel 1947 da un pastore locale il quale, inseguendo una delle sue capre, fece rotolare un sasso (come sua abitudine) all’interno di una cavità, rompendo un vaso.
Da lì, numerose spedizioni hanno riportato alla luce frammenti di documenti antichissimi e di inestimabile valore, conservati in involucri di lino all’interno di giare di terracotta.
In tutto, i Rotoli del Mar Morto si costituiscono di circa 900 manoscritti, su papiro o pergamena, scritti in aramaico, greco ed ebraico ed estremamente importanti a livello religioso oltre che storico, in quanto contenenti le più antiche copie dei testi biblici e alcuni commenti risalenti a più di 2000 anni fa.
L’affascinante sito delle grotte di Qumran continua da anni ad attirare l’attenzione degli archeologi, convinti di potervi rintracciare sempre nuovi elementi per decifrare in modo più chiaro la tradizione scritta dei testi sacri:
“Finora è stata accettata la teoria che spiegava come i Rotoli si trovassero nelle canoniche 11 grotte – ha spiegato a “Time of Israel” il ricercatore Oren Gutfeld -, ma ora non c’è dubbio che questa possa essere la dodicesima”.
A giocare un ruolo nella scomparsa dei reperti qui conservati, potrebbero essere state le operazioni di saccheggio messe in atto negli ultimi cinquant’anni, ipotesi che sarebbe confermata dal rinvenimento di un tunnel d’accesso alle caverne, il quale potrebbe essere stato usato dai beduini per accedervi, prelevando i Rotoli e rivendendoli sul mercato nero.
A ogni modo, la scoperta della dodicesima grotta potrebbe non solo aprire nuove prospettive negli studi sui manoscritti di Qumran, ma rappresenta già di per sé un importante elemento per proseguire le ricerche sul posto, considerando come vi siano ancora un notevole numero di grotte da esplorare:
“Anche se abbiamo trovato per lo più vasi, resti e un pezzo di pergamena avvolto – ha concluso Gutfeld – i risultati ci indicano senza dubbio che nella nuova grotta c’erano alcuni rotoli, che sono stati probabilmente rubati”.
Ora non resta che attendere nuove notizie, su una storia che affonda le sue millenarie radici nella desertica roccia della terra a nord del Mar Morto.
Fonte: interris.it
mercoledì 15 febbraio 2017
Castel Sant’Angelo, possente custode della città di Roma
Possente custode del luogo più sacro della città, Castel Sant’Angelo da quasi duemila anni svetta al di sopra del Tevere, con la sua mole un tempo simbolo del potere imperiale di Roma e divenuta più tardi fortezza papale.
Le pietre che lo compongono raccontano una storia di stratificazioni, trasformazioni e movimentate vicende che si sono susseguite nei secoli.
Venne costruito nel 123 d.C. dall’imperatore Adriano che voleva farne una tomba monumentale per sé e per i suoi familiari.
Il terreno su cui sorgeva, già utilizzato in tempi antichi per sepolture, si trovava in una posizione favorevole in prossimità del fiume e fu collegato alla terraferma tramite un ponte, chiamato “Elio”, uno dei nomi dell’imperatore.
Ma Adriano morì prima che l’opera fosse portata a termine e a concluderla fu l’imperatore Antonino Pio che la utilizzò come sepolcro per la sua famiglia della quale l’imperatore Caracalla fu il più famoso rappresentante.
Il monumento che si presentava alla vista, costituito da tre blocchi sovrapposti, doveva essere imponente.
Sulla sommità svettava la statua di Adriano che guidava una quadriga di bronzo nella veste del sole.
L’intera enorme costruzione era completamente rivestita di marmi preziosissimi e decorata da numerose statue.
Nel medioevo, la sua funzione fu completamente stravolta: l’enorme mausoleo fu trasformato in una fortezza e nell’arco di dieci secoli subì numerose modifiche.
A quel tempo era una tecnica difensiva abbastanza diffusa il fatto di riutilizzare i monumenti della romanità (i teatri o le stesse tombe monumentali) all’interno delle mura per rafforzare alcuni tratti o per utilizzarli come avamposti nei punti più sensibili all’attacco dei nemici, così l’imperatore Aureliano, nel 271 d.C., lo inglobò nella nuova cinta muraria provvista di torri con cui circondò la città.
La sua posizione strategica di controllo all’accesso settentrionale della città, lo rendeva un avamposto fondamentale, così Castel Sant’Angelo, rafforzato da torri e mura, divenne un baluardo difensivo ai tempi delle invasioni barbariche e, già dal medioevo, si trasformò in una fortezza inattaccabile.
Il Castello mantenne nei secoli il suo ruolo difensivo, e la sua importanza aumentò soprattutto quando attorno alla tomba di San Pietro nacque il quartiere detto “Borgo”.
Papa Leone III lo cinse con le mura, chiamate Leonine, fondando attorno al Vaticano una cittadella fortificata che fu poi completata da papa Leone IV.
Durante il medioevo Castel Sant’Angelo fu conteso fra le famiglie più potenti di Roma fino al ritorno della corte papale dal lungo soggiorno ad Avignone, nella seconda metà del 1300, quando passò definitivamente nelle mani dei pontefici.
Al ritorno dalla Francia, papa Urbano V stabilì che l’unica garanzia del controllo su Roma era la consegna delle chiavi del castello, quindi pose a sua difesa una guarnigione francese, ma la popolazione insorse, lo occupò e tentò addirittura di raderlo al suolo.
Bonifacio IX lo trasformò nella sua residenza, facendone una fortezza inespugnabile simbolo del potere temporale dei pontefici, collegata all’esterno con un ponte levatoio.
Come ogni fortezza, il castello disponeva al suo interno di tutti i principali mezzi di sussistenza in caso di assedio: vi erano grandi cisterne d’acqua, granai, c’era addirittura un mulino.
Disponeva anche di una via di fuga alternativa voluta dai papi: il cosiddetto “Passetto di Borgo”, un corridoio segreto che lo collegava alle mura leonine e al Vaticano, una comoda via di fuga che garantiva l’incolumità ai pontefici nelle situazioni di pericolo che certo non mancavano nella turbolenta Roma medievale.
Così non furono in pochi i papi che ne usufruirono percorrendolo piuttosto rapidamente: papa Alessandro VI Borgia lo usò per rifugiarsi nel castello sfuggendo alle truppe di Carlo VIII, mentre più famosa è la fuga di Clemente VII che lo sfruttò per sfuggire ai Lanzichenecchi, durante il più famoso sacco di Roma quello del 1527, correndo attraverso una pioggia di proiettili come nessun papa aveva mai fatto prima.
Castel Sant’Angelo fu considerato talmente difficile da espugnare che i papi decisero che non esisteva posto migliore per contenere le loro ricchezze e crearono al suo interno una “Sala del Tesoro”, in cui era custodito un enorme forziere che conteneva l’erario.
Questa enorme cassaforte fu costruita direttamente all’interno della sala e fu fatta molto più grande della porta d’ingresso proprio per impedire ai malintenzionati di riuscire a portarla via tutta intera.
Ai primi del XVI secolo, sotto il pontificato di Alessandro VI, fu completamente trasformato.
Fu allora che divenne una possente macchina bellica: il basamento romano divenne la base per poderosi bastioni, la via d’accesso al castello attraverso il ponte fu resa più sicura con la costruzione di un torrione cilindrico e attorno alla cinta di mura le acque del Tevere crearono un fossato.
Durante il Rinascimento vi lavorò anche Michelangelo e la zona degli appartamenti papali divenne sempre più sfarzosa.
Infine Bernini lo rese ancora più scenografico: reinventò completamente il ponte che lo collegava alla terraferma, che divenne ponte Sant’Angelo, e lo rese un passaggio obbligato per i pellegrini che avrebbero oltrepassato il Tevere protetti dallo sguardo rassicurante di dieci bellissimi angeli che portavano i simboli della passione di Cristo.
Ma la presenza degli angeli non basta a cancellare la memoria delle atrocità commesse all’interno del castello: nei suoi cortili avvenivano efferate esecuzioni per decapitazione e le teste dei condannati venivano appese ai parapetti del ponte come monito per la popolazione; nelle segrete del castello, buie, umide, oscure prigioni si consumarono le torture più spietate ed a patire le sofferenze ed il carcere più duro furono anche personaggi illustri come Giordano Bruno, accusato di eresia e messo al rogo a Campo de’ Fiori; il conte Cagliostro, mago, alchimista massone e guaritore, entrato e uscito dal carcere per truffe e rapine nel corso di una vita avventurosa e rinchiuso a Castel Sant’Angelo anche lui con l’accusa di eresia per poi essere trasferito al castello prigione di San Leo dove mori di stenti.
L’unico che riuscì ad evadere dalla fortezza fu Benvenuto Cellini, orafo, scultore e scrittore, imprigionato con l’accusa di aver sottratto beni al papa, anche se durante la fuga si fratturò una gamba.
Anche la musica infine, ha celebrato il monumento: Castel Sant’Angelo è lo scenario del tragico epilogo della “Tosca” di Giacomo Puccini, in cui la protagonista, sconvolta dal dolore per la perdita dell’amato e inseguita dalle guardie, si uccide gettandosi dal castello.
L’aspetto attuale del monumento si deve ai restauri di fine ‘800. In seguito fu utilizzato come caserma.
Nel 1925, cessate le funzioni militari, fu istituito qui il Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo che raccoglie collezioni d’arte.
Chiunque entri a Roma oggi, dirigendosi verso il Vaticano, non può fare a meno di alzare gli occhi e ammirare quell’opera che è cambiata coi secoli e che non ha più bisogno di difendersi, custodita dalla rassicurante presenza dell’angelo che dalla terrazza più alta, con le vesti e la capigliatura mosse dal vento, vigila sulla città e ancora la protegge.
Fonte: http://umsoi.org