mercoledì 27 aprile 2016

Kiribati, viaggio sull’isola che non ci sarà


Viaggio sull’isola che non ci sarà. Per vedere. Toccare. Scoprire. 
E un giorno poter descrivere ai proprio nipoti quel lembo di terra su cui, a dire degli scienziati, già incombe la data di scadenza.

 14.769 chilometri: sono quelli percorsi da Andrea Angeli, architetto bresciano di 32 anni, e Alice Piciocchi, milanese di 31 anni con in tasca una laurea in design industriale, che zaino in spalla hanno ruotato il mappamondo e si sono diretti a Kiribati, nazione della Micronesia a rischio d’estinzione. 

 «Secondo molti studiosi il destino di quel Paese è segnato - spiega Andrea -. Non si sa se tra 20, 50 o 100 anni, ma l’innalzamento dell’oceano e le alluvioni causate dai cambiamenti climatici faranno sì che le isole saranno sommerse.
 Siamo partiti per documentare: un’esplorazione durata due mesi, finanziata con il crowdfunding, per raccogliere testimonianze, degli uomini e della natura».

 Repubblica indipendente dal 1979, Kiribati si sviluppa a cavallo dell’equatore su 32 atolli, di cui solo venti abitati, sparpagliati su una vastissima area di oltre 3,5 milioni di chilometri quadrati di Pacifico a nord delle Fiji. 
E proprio nelle Fiji, a Vanua Levu, l’ex presidente Anote Tong ha acquistato dalla Chiesa Anglicana venti chilometri quadrati di terreno, prospettando un esodo di massa per i centomila abitanti, nell’eventualità che le previsioni dei climatologi si avverassero.




«Prima di organizzare il viaggio ho scritto al premier in persona, raccontando della nostra spedizione - racconta Alice -. 
La sua segreteria ci ha risposto nel giro di pochi giorni, e arrivati sul posto abbiamo avuto l’occasione di andare a visitare qualche ministro. 
Ci hanno confermato che il progetto di traslocare la nazione è ancora in essere e stanno verificandone la fattibilità.
Ci aspettavamo una popolazione in preda al panico e spaventata dal futuro: in verità ci siamo trovati in mezzo a uomini e donne che stanno vivendo un periodo molto confuso, dove passato e presente faticano a convivere. Dove l’equilibrio tra tradizione e innovazione è fragile e contraddittorio».

 La pesca e la copra, la polpa essiccata del cocco, sono tra le fonti principali di reddito. 
Poco turismo, piccoli negozi tra i quali iniziano a spuntare i primi discount, scarsa acqua potabile e lattine di Coca Cola mostrate come trofei, uomini a piedi scalzi che ostentano tablet e smartphone.
 E ancestrali credenze che punteggiano la quotidianità di chiunque: guaritori che leggono le foglie, donne che con il loro canto attirano le balene a riva, «tetia borau», ovvero «lettori di nuvole» in grado di interpretare il cielo come fosse un libro aperto, e ritualità di magia bianca e nera che vanno a braccetto con i dettami delle tante Chiese presenti nel territorio.






«L’avvento di Internet, l’influenza di nazioni vicine come le Fiji o le Isole Marshall, la presenza di persone che si spostano verso l’Australia o la Nuova Zelanda per poi ritornare dopo qualche anno a Kiribati, sta dando al progresso un’accelerazione non controllata. Non hanno in mano gli strumenti per gestire quello che sta accadendo. 
Della loro ipotetica «fine del mondo» non sono però particolarmente preoccupati: da tremila anni vivono un rapporto inscindibile con l’acqua e con la terra, il mare che fornisce il pesce e la terra che offre il cocco e lo spazio per allevare qualche animale. Non riescono nemmeno a contemplare l’idea che la natura si possa ribellare».

 Benché i segni già si vedano: frequenti tifoni, alberi che muoiono bruciati dal sole, l’acqua potabile diventata improvvisamente più salata. 
Un ambiente naturale a rischio, anche a causa dei comportamenti degli indigeni, come l’atavica abitudine di andare a defecare in mare o di seppellire i morti in cortile, spesso vicino ai pozzi. 
O, ancora, la moderna usanza di gettare davanti all’abitazione le confezioni di plastica di caramelle o patatine così da dimostrare ai vicini uno status di benessere superiore, fregandosene delle regole di raccolta dei rifiuti.


«Prima di andarmene ho chiesto al padre della famiglia che ci aveva ospitato cosa avrebbe portato con sé in una sorta di Arca di Noè verso il nuovo mondo. 
Mi ha risposto che le sue uniche proprietà sono la capacità di pescare, di tessere reti e di lavorare il cocco.
 Capacità che altrove sarebbero state inutili: quindi lui non avrebbe mai abbandonato la sua bwuia, la sua capanna. 

Questo, in fondo, è lo spirito di Kiribati».

 Fonte: lastampa.it