martedì 26 aprile 2016
William Shakespeare, chi era davvero il grande poeta?
Scaltro e ignorante paesanotto, socio di una fortunata associazione letteraria, o geniale autore dei drammi e dei sonetti che resero grande la letteratura inglese elisabettiana?
Sono passati 400 anni dalla sua morte, eppure i misteri che avvolgono William Shakespeare (nato nell'aprile del 1564 a Stratford-upon-Avon e morto il 23 aprile 1616) continuano a infiammare accademici e studiosi.
E il fatto che su di lui esistano solo pochissimi documenti non fa che aumentare la curiosità: il figlio del guantaio di Stratford-upon-Avon fu davvero l’autore di opere immortali come Romeo e Giulietta, il Mercante di Venezia, Otello?
O il Dante d’Inghilterra è solo quella che lo scrittore Henry James definì nel 1903 “la più grande e più riuscita frode che sia mai stata realizzata nei confronti di un mondo paziente”?
La più fedele alle fonti resta la lapidaria biografia del critico letterario settecentesco George Steevens:
“Nacque a Stratford-upon-Avon, si fece là una famiglia, andò a Londra, fece l’attore e lo scrittore, tornò a Stratford, fece testamento e morì”.
Il resto solo ipotesi.
Persino il suo volto resta un mistero: i dipinti e le sculture che lo raffigurano furono realizzati solo dopo la sua morte, da artisti che mai l’avevano conosciuto.
Con una sola eccezione: il busto sul suo monumento funebre, fatto costruire dal genero nella chiesa della Santissima Trinità a Stratford, tra il 1616 e il 1622.
Shakespeare vi appariva accigliato, con barba e baffi all’ingiù, le mani appoggiate su un sacco di grano.
O almeno questo è ciò che si vede nei due disegni che ritraggono l’originale prima che venisse modificato, nel 1720, quando i critici ne avevano fatto il più importante autore della letteratura inglese. Allora il poeta assunse i lineamenti dell’uomo raffinato con il pizzetto che conosciamo: nella mano destra gli fu messa una penna d’oca, nella sinistra un foglio di carta.
Eppure il William dei documenti giudiziari e commerciali, gli unici finora rinvenuti, era molto più simile al rozzo commerciante barbuto: all’Università di Aberystwyth (Galles) si è scoperto che comprava grano durante le carestie per rivenderlo a caro prezzo, che era un usuraio e un evasore fiscale.
Questa mancanza di spirito filantropico è confermata dal suo testamento: nell’atto William non nomina alcun patrimonio librario, né fa accenno alle sue opere.
Si concentra invece sui beni materiali, destinando alla moglie Anne Hathaway “il secondo letto con il mobilio”.
Da qui nascono le speculazioni sul matrimonio infelice di Shakespeare.
Chi vuol difendere l’onore del poeta, ricorda che all’epoca in una casa inglese il primo letto era quello degli ospiti, il secondo quello maritale: l’eredità sarebbe stata quindi un romantico ricordo della loro unione.
Come il sonetto 145, in cui il verso “hate away”, letteralmente “lontano dall’odio”, richiamerebbe il cognome della moglie, cui sarebbe dedicato.
Le malelingue invece notano che quando la coppia si sposò (1582), Anne era già incinta della primogenita Susannah e che, forse, il suo era stato un matrimonio riparatore.
Sappiamo poi che, dopo l’ulteriore nascita di due gemelli (1585), Shakespeare lasciò Stratford: pare lo avesse fatto per sfuggire al processo intentatogli da un signorotto che lo aveva pizzicato mentre cacciava di frodo (o, forse baciava la figlia del guardacaccia) nella sua proprietà.
Comunque siano andate le cose, è da questo momento che si perdono le sue tracce: come trascorse i cosiddetti “anni perduti”, tra il battesimo dei figli e la sua comparsa sulle scene londinesi (1592)?
Le alternative ipotizzate dagli studiosi sono diverse: si aggregò a una delle compagnie teatrali capitate a Stratford intorno al 1587, cominciando così la sua carriera da attore, o impiegò quel tempo per farsi una cultura (sempre ammesso sapesse scrivere, come obiettano alcuni esperti che hanno studiato a fondo la sua firma)? «Più probabilmente, arruolatosi volontariamente o coscritto, dovette attendere la fine delle ostilità tra l’Inghilterra e i Paesi cattolici prima di trovarsi una qualsiasi occupazione a Londra, si presume nel 1589», afferma Corrado Panzieri, studioso di Shakespeare.
Come scrisse nel XVIII secolo uno dei suoi biografi, l’inglese Robert Shiels, William “era un giovane ridotto sul lastrico, che si guadagnava da vivere a Londra prendendosi cura dei cavalli dei gentiluomini che si recavano a teatro”.
Shiels però aggiunge che, colpiti dalla sua parlantina, alcuni attori lo avrebbero raccomandato ai gestori del teatro, dandogli l’occasione di calcare finalmente le scene e di ottenere la fama, “più come scrittore che come attore”.
Nella capitale sarebbe rimasto fino al 1613, ma allora perché non intrattenne con i colleghi letterati scambi epistolari, allora diffusi quanto lo sono ora i post di Facebook? E perché alla sua morte nessuno scrisse un elogio funebre in sua memoria?
Viene proprio da chiederselo: Shakespeare fu davvero il celebrato autore elisabettiano?
Troppi dati non tornano, dicono gli esperti di ieri e di oggi.
E infatti, fin dalla metà dell’Ottocento, gli studiosi hanno pensato di intravvedere fior di papabili autori nascosti dietro quel nome: fra i più famosi il filosofo Francis Bacon, lo scrittore Christopher Marlowe, il colto Edward de Vere conte di Oxford, la contessa Mary Sidney di Pembroke (sorella del poeta Philip) e persino la regina Elisabetta.
Tutti inglesi, ovviamente.
Tranne l’ultimo e attualmente più gettonato candidato: John Florio, letterato di origini italiane, docente a Oxford, con incarichi di prestigio alla corte della regina d’Inghilterra.
«La verità è che certezze non ce ne sono, ma una congerie di nuove informazioni ricavate dallo studio di documenti d’archivio, fa ritenere che chi scrisse quelle opere non fu Shakespeare.
Potrebbe essere stato invece John Florio che, avvalendosi degli appunti, dei racconti e dei testi portati dall’Italia dal padre Michelangelo e grazie alla collaborazione della cerchia di colti parenti e amici e di altri drammaturghi emergenti, avrebbe creato le opere che oggi vengono attribuite al poeta di Stratford», dice Panzieri, cofondatore dell’Istituto di studi floriani di Milano e autore di una biografia sui Florio, in corso di pubblicazione.
Lo confermerebbero le tracce lasciate fra le righe delle tragedie shakespeariane: i neologismi inventati da John per le traduzioni inglesi delle opere italiane; l’ambientazione nelle nostre città e nei luoghi al di fuori dell’Inghilterra frequentati dal padre; le storie romanzate di personaggi che il colto fiorentino aveva conosciuto. Jane Grey, per esempio, regina d’Inghilterra per 9 giorni e allieva di John quando insegnava letteratura italiana presso la famiglia reale, ispirò a Michelangelo un racconto del 1561 da cui il figlio avrebbe tratto Romeo e Giulietta.
Ma se furono i Florio a scrivere le opere, Shakespeare che c’entra? Gli italiani, suggeriscono gli studiosi, volevano mantenere l’anonimato: il padre, uomo di chiesa che aveva abbracciato il riformismo di Lutero, perché temeva ancora le persecuzioni dei cattolici; il figlio, uomo di prestigio a corte, perché all’epoca era considerato sconveniente firmare le opere del teatro popolare.
Ed ecco cosa c’entra William.
«Per venderle e rappresentarle avevano bisogno di un socio come Shakespeare: un tipo volitivo, concreto e intraprendente, già inserito nelle compagnie teatrali», nota l’esperto.
La loro collaborazione però non sarebbe rimasta segreta: il drammaturgo Robert Greene, offeso dalle arie che si dava quel prestanome, denunciò in un libello l’arroganza di “un corvo appena venuto alla ribalta, che (...) benché sia in tutto e per tutto uno Johannes Factotum (per alcuni il soprannome di Florio), si crede il solo Shake-scene (“scuoti-scena”) del paese intero”.
Un segreto di Pulcinella, insomma, forse ancora sepolto fra i 340 volumi e gli scritti dei Florio.
John, infatti, lasciò tutto in eredità al conte William III di Pembroke, ma tuttora gli eredi si rifiutano di aprire le porte della loro biblioteca agli studiosi. Forse, per continuare a difendere il falso mito letterario d’Inghilterra.
Maria Leonarda Leone per Focus 281
Il mito della caverna del filosofo greco Platone (V sec. a.C.)
Dentro una caverna buia e fredda sono incatenati dei prigionieri. Sono incatenati in modo così stretto che non possono girarsi e neppure muovere la testa e quindi non riescono nemmeno a guardarsi tra loro.
Alle loro spalle c’è un muro.
Loro non lo vedono, ma c’è. E dietro il muro passano delle persone tenendo in alto delle statue, facendole sporgere al di sopra del muro, che però copre i portatori.
Ancora più in là, oltre il muro e i portatori, arde un grandissimo fuoco.
I prigionieri sono incatenati lì fin da piccoli e, per quello che ne sanno, il mondo è tutto lì.
Sanno di non essere soli perché sentono le voci di altre persone, con cui parlano, ma non le vedono e quindi non sanno come sono fatte.
Vedono però altro: vedono le sagome degli oggetti portati alle loro spalle, oltre il muro, perché il grande fuoco ne proietta le ombre. Vivono quindi in uno spaventoso mondo di finzione, in una specie di grande teatro delle ombre, ma da cui non possono uscire, e non sanno nemmeno che si tratta solo di un teatro.
Credono che sia il mondo. E, credendo che sia il mondo, la processione di ombre occupa tutti i loro discorsi.
Quelli che vedono meglio nel buio passano per acuti e intelligenti, perché colgono più dettagli nelle ombre, e magari sembrano capire che la processione ha un suo ordine e una sua logica.
Ma un giorno a uno dei prigionieri vengono sciolte le catene. Viene costretto a guardarsi attorno.
Che cosa vede?
Vede i suoi compagni, ancora incatenati; poi vede il muro e gli oggetti che vengono trasportati al di sopra di esso; poi vede il fuoco, la cui luce basta probabilmente ad accecarlo, visto che i suoi occhi si erano abituati a una tenebra che sembrava non finire mai. Ma non basta.
A un certo punto, l’uomo liberato viene condotto fuori dalla caverna.
La luce lo frastorna, ne rimane abbagliato.
Ma pian piano i suoi occhi si abituano e inizia a vedere per davvero.
Vede per esempio un cane, mentre lui, nella sua vita sotterranea, prima che venisse liberato, aveva visto solo l’ombra della statua di un cane. Ora vede un cane vero e proprio. E così vede ogni cosa finalmente nel suo vero aspetto.
E conosce la vera luce, quella del sole.
In un primo momento, l’uomo liberato soffre.
Soffre perché è confuso, non capisce più che cosa sia vero e che cosa sia falso, soffre perché è accecato dalla luce, soffre perché capisce di essersi ingannato per tanto tempo.
Una volta abituatosi alla luce, però, si sente meglio e più consapevole.
Pensando ai suoi vecchi compagni, ne ha pena, e considera ridicolo il mondo in cui credono di vivere, e le lodi che attribuivano a chi di loro scorgeva più dettagli nelle ombre e credeva di intuire una logica nella processione delle ombre.
Forse ride di loro, ma è un riso amaro, perché gli fanno pena. Decide quindi di ritornare nelle tenebre della caverna per cercare di liberarli o almeno di spiegare loro come stanno le cose.
Certo preferirebbe starsene all’aria aperta e non affrontare quelle tenebre paurose e quei brutti ricordi, ma sente di doverlo fare.
Ora i suoi occhi, abituati alla luce, non sono più una guida sicura nell’oscurità.
Arrivato nella sua vecchia prigione, i suoi occhi, deboli, non gli permettono nemmeno di scorgere le ombre.
Racconta ai suoi compagni la verità e cerca di liberarli, ma questi, notando quanto poco sa delle ombre, che per loro sono l’unica verità, non gli danno retta, e lo considerano un folle. E la storia del mondo di sopra sembra loro pazzesca e assurda.
Probabilmente la verità li turba, e odiano il loro compagno.
Alcuni lo uccidono, ansiosi di dimenticare le sue parole e di rimanere nel loro mondo di ignoranza.
Cosa vuole suggerire Platone con il mito della caverna?
Una delle interpretazioni più note paragona il mito della caverna di Platone alle vicende di Socrate. Il filosofo ateniese riuscì a risalire la strada verso la verità ma venne ucciso per aver tentato di portarla agli uomini, che hanno preferito rimanere incatenati alle loro certezze.
La luce del sole potrebbe rappresentare il ‘bene’ o il ‘divino’ come oggetto di ricerca dell’umanità.
Per un filosofo potrebbe essere difficile tornare alla realtà dopo aver scorto ciò che va oltre.
Il mito della caverna rispecchia ciò che succede nella realtà di oggi.
Ad esempio ecco l’ipotesi che le ombre degli oggetti proiettate sul muro della caverna possano essere paragonate alle immagini della televisione e che i prigionieri siano dunque degli esseri umani ormai dipendenti da esse.
Cosa ne pensate?
Guardare dei programmi televisivi può allontanarci dalla realtà?
A nostro parere è necessario distinguere tra la possibilità di guardare la Tv come svago e la vera e propria dipendenza che può causare apatia.
Uno strumento come il televisore non è di per sé né positivo né negativo, dato che tutto dipende da come lo si utilizza e da quali trasmissioni scegliamo di guardare o da quanto tempo trascorriamo davanti ad esso.
Guardare la televisione (o passare davvero troppo tempo su internet) diventa un modo per distaccarci dalla realtà e per accantonare i nostri problemi?
Ecco, in questo caso forse dovremmo ripensare alle nostre abitudini, evitare di anestetizzarci di fronte ad uno schermo e piuttosto provare a guardarci dentro e sfruttare il tempo che abbiamo a disposizione per trovare una soluzione a ciò che ci affligge.
Fonti:
greenme.it
centrostudiricerche.wordpress.com
Palácio Nacional da Pena Sintra o Castello da Pena
Il Palácio Nacional da Pena – o semplicemente Palácio da Pena o Castelo da Pena – è un palazzo/castello, situato sulle colline della città portoghese di Sintra, paese del centro, vicino a Lisbona, fatto costruire dopo il 1840 da Maria II di Braganza(1819 –1853), come regalo di nozze per il marito, re Ferdinando II del Portogallo (conosciuto anche come Ferdinando II di Sassonia-Coburgo-Gotha; 1819 – 1885), sulle rovine di un convento gerolamitano del ‘400 e progettato dall’architetto e barone tedesco Ludwig von Eschwege.
E ‘l’esempio più completo e importante di architettura portoghese del Romanticismo .
Costruito circa 500 metri sul livello del mare il palazzo è sotto la tutela dell’UNESCO, è stato inserito nel Patrimonio dell’Umanità (come tutto il centro storico di Sintra) nel 1995, e il 7 luglio 2007 è stato eletto una delle 7 meraviglie del Portogallo.
La costruzione terminò nel 1885 (anno della morte del re) e il palazzo fu aperto al pubblico dopo la proclamazione della Repubblica nel 1910, ovvero una volta divenuto proprietà dello stato.
Una strada sinuosa attraversa un bosco che sembra incantato e ci conduce sino a questo castello del Portogallo.
Tutto a un tratto si ha la sensazione di essere finiti nel bel mezzo di una di quelle favole con tanto di principe azzurro e bella addormentata.
Talmente decorato con arabeschi, figure mostruose e motivi vegetali, questo palazzo ricorda davvero il castello delle fiabe. Nelle giornate di sole, le tonalità pastello, giallo, rosa e viola, con cui è dipinto esternamente questo edificio, si accendono, come se risplendesse.
E mentre nel cielo svettano le torri e le guglie orientaleggianti da ‘mille e una notte’, attraverso gli atrii e i camminamenti, vari stili architettonici s’inseguono e si confondono.
È il trionfo di quei revival artistici così tipici del gusto romantico ottocentesco e che tanto piacevano a Don Fernando II, re del Portogallo e principe di Sassonia.
Fu lui a ordinare che il Palacio da Pena, residenza reale estiva, racchiudesse in sé tutti gli stili succedutisi nel corso dei secoli in Portogallo e in Germania.
Quello che ne deriva è un grande miscuglio architettonico che lascia a bocca aperta e che prosegue all’interno del palazzo.
Così, per esempio, dal salotto della famiglia reale, in perfetto stile vittoriano, si accede alla sala araba, in cui sono rievocate atmosfere moresche, mentre la sala indiana, interamente rivestita da rilievi in stucco, si apre sul cosiddetto soggiorno in papier maché, per via della tecnica proveniente dall’Estremo Oriente con cui è decorato.
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