martedì 16 febbraio 2016

Anjony - Il castello della discordia


Armoniosa combinazione di fortificazione e castello residenziale, Anjony si erge, con le sue quattro torri cilindriche, a presidio della verde distesa nella valle della Doire. 
Costruito in pietra di lava, fu teatro per due secoli di una violenta rivalità tra famiglie
.

Eretto nel XV secolo da Luis d’Anjony su concessione di re Carlo VII, rappresenta forse la più importante fortezza dell’Auvergne.
 La sua storia è segnata da una contesa che durerà circa duecento anni. 
Tra le più potenti casate feudali dell’Auvergne, la famiglia Toumemire regnava dal X secolo su una vasta signoria, nel cuore della zona montuosa del Cantal. 
Nel 1351, i Toumemire accolsero, dapprima benevolmente, l’arrivo sulle loro terre della famiglia benestante dei Johanini che, nel 1360, acquistò un titolo nobiliare, adottò il nome di Anjony.
 Nel 1437 la guerra dei Cent’Anni volgeva al termine: due anni dopo essere stato consacrato re di Francia a Reims, Carlo VII entrava a Parigi. 
Tra i cavalieri al suo seguito, c’era anche Louis d’Anjony a cui il re concesse di edificare un castello per la sua famiglia, come ringraziamento per il servizio leale.
 Ma Rigaurd de Toumemire, signore feudale del luogo designato per la costruzione, non sembrò gradire il nuovo maniero, decisamente più alto del suo. 
Il castello raggiunge ancora oggi, infatti, un’altezza impressionante, con un corpo rettangolare, a tre piani, ai cui angoli vi sono quattro imponenti torri circolari. 
Ben presto iniziarono i contrasti tra le due famiglie, i cui castelli si stagliavano uno di fronte all’altro.
 I dissidi erano alimentati soprattutto da divergenze politiche e dalla pretesa degli Anjony, fedeli al re, di essere riconosciuti signori del luogo, a pari diritti dei Toumemire.
 Le discordie proseguirono con violenti scontri fino al XVII secolo
.

Nei secoli successivi gli Anjony continuarono una politica di appoggio al re, arricchendosi e rendendo sempre più raffinato e lussuoso il castello che, nel XVIII secolo, fu ampliato con l’aggiunta di un’ala.
 Dopo la rivoluzione francese, Claude d’Anjony e suo figlio emigrarono in Germania, impegnandosi nella controrivoluzione e affrontando l’esercito republicano.
 Madame d’Anjony e i suoi figli furono costretti a lasciare il castello. 
Si rifugiarono a Lione, dove vennero tuttavia arrestati e imprigionati alla Conciergerie.

 Dopo la bufera rivoluzionaria, il castello verrà restituito alla famiglia Anjony, che ne è attuale proprietaria. 

 L’ultimo conflitto documentato, nella lunga diatriba che vide opposti gli Anjony ai Toumemoire, fu un memorabile torneo che si svolse secondo le regole della cavalleria, nel 1623. vi parteciparono tre membri per famiglia.
 Nessun Anjony si salvò e i Toumemoire, vittoriosi, si dichiarano pronti a chiudere le ostilità. 
Tuttavia, solo alla metà del XVII secolo i contrasti tra le due casate si composero definitivamente grazie il matrimonio di Michel II d’Anjony, che si era innamorato di Gabrielle, erede dei Toumemoire.


Anjony è una versione tarda, ma proprio per questo pressoché perfetta, del torrione signorile: il “donjon”, tipico della tradizione francese (e in minor misura inglese e germanica). È una poderosa costruzione sviluppata in altezza, con deposito e stalla al pianterreno, cucina e salone al primo piano, stanze residenziali ai piani superiori.
 Qui al dongione centrale si affiancano quattro solide torri circolari, sul modello della Bastiglia parigina, o del mastio di Vincennes. 
Un esempio che in Italia si ritrova nel castello valdostano di Aymavilles.

 Intatto, solido, altero, il castello di Anjony con la purezza delle sue linee architettoniche e la ricchezza dei suoi interni sembra sfidare il tempo. 
 In una delle torri si trova, al primo piano, una ‘cappella’, le cui pareti sono decorate da affreschi con episodi tratti dalla Bibbia, realizzati probabilmente da artisti italiani itineranti nel XVI secolo.




Nella cosiddetta ‘Salle de Preux’ (sala dei Prodi) si trovano affreschi che riprendono un tema iconografico all’epoca molto in voga: quello dei Nove Prodi. Si tratta di eroi appartenenti alla Bibbia (Giosuè, David), all’antichità romana (Ettore, Alessandro e Cesare) e all’era cristiana (Artù e Goffredo di Buglione) in vesti rinascimentali, accanto ai qualli sono raffigurati i signori di Anjony, Michel I e sua moglie Germane.



Nuove scoperte nella "città perduta" dell'Honduras


Quello appena trascorso è stato un mese importante, per chi si è appassionato alla storia della "Città perduta" o "Città del Giaguaro", l'antica rovina di un insediamento precolombiano nell'intricata foresta pluviale della Mosquitia, nell'est dell'Honduras. 
 Un'equipe di archeologi americani e honduregni è riuscita per la prima volta a compiere scavi sistematici all'interno delle rovine, e ha portato alla luce più di 200 statuette in pietra dissotterrate da un grande tumulo di terra al centro del sito archeologico. 
 Le sculture, alcune intere, altre rotte, sembrano essere state attentamente riposte tutte insieme su un ripiano di argilla rossa, nello stesso momento, forse durante un rituale religioso.
 Si tratterebbe di un'ofrenda, una collezione di oggetti sacri posti su un altare come offerta votiva. 
 Al centro è stata ritrovata l'enigmatica scultura di un avvoltoio con le ali parzialmente dispiegate; intorno, vasi con i bordi decorati con avvoltoi e serpenti, o con incisa una figura dalla testa triangolare e gli occhi incavati, forse una rappresentazione della morte.
 Attorno al gruppo centrale di artefatti, sono emersi diversi metati, ossia tavolini a tre gambe simili a quelli utilizzati per la macinatura del granturco, decorati con disegni geometrici o figure animali: tra queste, spicca la testa del "giaguaro mannaro", una figura che forse rappresenta uno sciamano in stato di trance.
 Alcuni metati presentano motivi decorativi simili a quelli usati dai Maya, e pseudo-glifi che non sono ancora stati decifrati.
 Erano usati forse come troni, o forse per sorreggere i corpi bendati dei defunti prima della sepoltura.










I reperti risalgono tutti a un periodo compreso tra il 1000 e il 1520 d.C. 
Le fratture decisamente intenzionali su alcuni pesanti oggetti in basalto, decisamente poco fragili, fanno ipotizzare che il mucchio di "tesori" sia stato allestito durante un rituale di "chiusura" della città, forse poco prima del suo abbandono.
 Il rito di rompere gli oggetti, "uccidendoli" prima della loro sepoltura è infatti tipico di molte civiltà precolombiane.

 I contatti commerciali via fiume con le civiltà Maya e Chibcha (un'altra civiltà precolombiana), insieme al movimento delle popolazioni native sempre più all'interno, nei luoghi ancora non raggiunti dai conquistadores, contribuirono forse alla diffusione dei virus portati dagli Europei - come morbillo, vaiolo e influenza. Anche la Città del Giaguaro potrebbe essere stata devastata dalle epidemie.
 I suoi pochi, spaventati superstiti, seppellirono le ultime ricchezze e l'abbandonarono al suo destino, un testamento storico riscoperto oltre 500 anni dopo.

 Fonte: focus.it