giovedì 14 luglio 2016

Ritrovata la città del gigante Golia, grande quattro volte Gerusalemme


Mura alte trenta metri, un cancello imponente e un’estensione quadrupla rispetto a Gerusalemme: l’antica città di Golia si è svelata agli archeologi dell’Università di Bar Ilan in tutta la sua potenza, portando a rileggere gli equilibri di forza con il regno di Giuda.

 Gli scavi sulla collina di Tel Zafit, nel parco nazionale sulle colline della Giudea, sono in corso da oltre venti anni, ma finora il team internazionale di archeologi guidato da Aren Maeir non era andato oltre il ritrovamento di alcuni templi filistei dell’XI secolo a. C. e dei resti del castello crociato «Blanche Garde» che ebbe tra i suoi difensori Riccardo Cuor di Leone. 
Ma ora i ricercatori hanno scoperto la città filistea di Gath dove abitava Golia e verso la quale – come si legge nel Libro di Samuele - David fuggì andando «da re Saul a Achish, re di Gath».


La scoperta riguarda il grande cancello che era all’entrata della città, la cui imponenza consente di ricostruire anzitutto l’altezza delle mura di cinta – almeno 30 metri – nonché un’estensione che per Maeir arrivava a 500 dunam (50 ettari), ovvero quattro volte i 120 dunam (12 ettari) che all’epoca misuravano le maggiori città come Megiddo, Gerusalemme e Beer Sheva. 
 Poiché Gath venne distrutta nell’830 a. C. da Hazael, re di Aram, ciò significa per Maeir che «durante l’esistenza del regno di Giudea ai suoi confini occidentali esisteva una grande città filistea che non attaccò mai», dimostrando che durante i re David e Salomone controllava un territorio più limitato, soprattutto sulle montagne, attorno a Gerusalemme. 
Nei pressi di Gath è stata scoperta a Kaifa, alcuni anni fa, una città fortificata della Giudea, risalente al X secolo a. C., che forse segnava il limite massimo di estensione del regno prima dei cancelli di Golia.




Ma allo stesso tempo, gli scavi archeologici di Ashkelon, nel sud di Israele, hanno riportato alla luce un cimitero risalente a 2.600 anni fa.
 Un ritrovamento eccezionale, sottolinea Daniel Maestro, studioso della Harvard University che ha partecipato ai lavori sotto la guida dell’Antiquities Authority israeliana, se si pensa che le ossa delle 145 persone sepolte nel sito potrebbero rivelare informazioni importanti sui riti funebri a noi sconosciuti, così come sulle abitudini di vita dei Filistei.


Uno degli scheletri, ad esempio, è stato interrato con una fiala di profumo di argilla, ritrovata ormai saldata al cranio.

 I primi importanti ritrovamenti risalgono al 2013 nell’area dove un tempo prosperava il porto dell’antica città filistea di Ashkelon, che all’apice delle sue attività contava 13.000 abitanti e sulla quale ora si trova un parco naturale.
 L’origine del “popolo del mare” che l’abitava è incerta. 
I Filistei, mercanti e marinai, parlavano una lingua di origine indoeuropea, non praticavano la circoncisione, mangiavano carne di maiale e cane – come evidenziato dai resti individuati tra le rovine di altre quattro città filistee (Gat, Gaza, Ashdod e Ekron). Ma la storia dei Filistei è legata soprattutto all’immagine negativa restituita dalla Bibbia.
 I Filistei sono menzionati dalla Genesi e soprattutto nel libro di Samuele che descrive il celebre duello tra il gigante Golia e il pastore Davide.
 Al di là della fama che si è perpetrata nei secoli, ”facevano una vita dura – spiega l’archeologa Sherry Fox, mostrando un cranio tra le mani – lo possiamo dedurre dai denti dove si riscontrano linee che indicano una interruzione della crescita, probabilmente dovuta a una carestia o a una febbre grave durante l’infanzia”.
 E sempre dalle ossa è possibile capire che lavoravano duramente, si sposavano tra consanguinei e utilizzavano i denti come strumenti di lavoro, probabilomente la tessitura. 
Oltre al fatto che probabilmente si trattava di un popolo dalle dimensioni nella norma, nonostante la leggenda del gigante abbattuto con una fionda dall’astuto Davide 

 Fonte: blueplanetheart.it

mercoledì 13 luglio 2016

I Laghetti di Marinello


In Sicilia, in provincia di Messina, si trovano i Laghetti di Marinello, parte della Riserva Naturale Orientata Laghi di Marinello.
 Si tratta di laghi d’acqua salmastra ai piedi del santuario di Tindari, la cui storia è legata a quella del santuario. 
Nel 1982, infatti, le maree tracciarono un lago dal profilo somigliante a quello di una donna col bimbo in grembo, tanto che la fede popolare attribuì quest’ultimo alla Madonna Nera di Tindari.


Si ritiene che la formazione di questa particolare e suggestiva area lagunare risalga a un periodo compreso tra il 1865 e il 1895, a seguito di particolari processi tettonici e delle singolari condizioni meteo-marine presenti in questo tratto di costa.
 I laghetti, il cui numero varia a seconda delle stagione e delle maree, costituiscono, insieme ai Laghi di Ganzirri gli ultimi esempi di ambiente salmastro costiero tuttora presenti in Sicilia nord-orientale.


Da visitare la grotta della Maga che, secondo la leggenda, ammaliava i marinai col suo canto e la sua bellezza per poi divorarli. 
Per entrare nella grotta in cui, il 17 agosto del 310, morì papa Eusebio, esiliato in Sicilia da Massenzio, occorre attraversare un piccolo sentiero da Contrada Rocca Femmina. 
Al suo interno si trovano stupende formazioni di stalattiti e stalagmiti, un pozzo profondo circa 3 metri, un’infinità di microfori nelle pareti, creati dai litodomi (molluschi marini) mediante erosione.
 Secondo la leggenda questi fori sarebbero stati provocati dalle unghie della maga che si sfogava così ogni volta che non riusciva ad attirare il navigatore di passaggio.


I laghetti sono circondati da una ricca macchia mediterranea composta da euforbia, canne, mirti, capperi e fichi d’India mentre le pareti rocciose che sovrastano la riserva naturale, creata nel 98’, rappresentano un habitat elitario per la nidificazione di molte specie di uccelli migratorie stanziali (gheppio, corvo imperiale, falco pellegrino, taccola). 
Altrettanto interessante la fauna lagunare per la presenza di nuove specie delle acque salmastre (copepoda o “piccolo crostaceo” e pesce pettine).

 Fonte: http://www.meteoweb.eu/

martedì 12 luglio 2016

Le meravigliose sculture che prendono vita grazie all'acqua


Quando pensiamo alle sculture forse immaginiamo qualcosa di antico e di statico, che rimane completamente immobile davanti ai nostri occhi. 
Il mondo della scultura però si sta trasformando grazie agli artisti di oggi e sta abbandonando la staticità. 

 Lo sa bene l’artista polacca Malgorzata Chodakowska che crea delle meravigliose sculture di bronzo che si trasformano in fontane grazie alla presenza dell’acqua.
 E’ proprio l’acqua che crea movimento e che nello stesso tempo gioca un ruolo essenziale nell’intera struttura dell’opera.
 L’acqua crea degli effetti particolari e inaspettati quando sgorga dalle fontane. 
Sembra quasi che si creai un effetto magico.

 Malgorzata impiega da due a sei mesi per dare vita ad ogni scultura.
 Le tempistiche di lavoro dipendono dalla complessità dell’opera. Le sculture-fontane vogliono rappresentare la pura gioia della vita che nasce dalla combinazione dell’acqua con la materia prima, rappresentata dal bronzo. 
L’artista si occupa di scultura da ben trent’anni.
 La creazione di ogni opera inizia con un modello in argilla. Quando i lavori in argilla raggiungono le dimensioni desiderate arriva il momento di ricoprirli di bronzo. 
L’acqua che scorre completa perfettamente ogni figura ed ogni scultura ha la propria storia.











Marta Albè

lunedì 11 luglio 2016

Scenari da sogno nella Grotta Azzurra di Capri


Capri custodisce un immenso tesoro: la Grotta Azzurra, scoperta già ai tempi dei Romani. 
Gli imperatori, infatti, lungimiranti, avevano sfruttato l’ingresso alla grotta, nascosto spesso dalle maree, facendo di essa la loro piscina privata.
Secondo alcuni storici del tempo, l’imperatore Tiberio si era persino fatto costruire un passaggio che collegava la sua villa alla grotta, anche se il cunicolo,forse crollato, non è mai stato ritrovato. 

La Grotta Azzurra, caduta quasi nel dimenticatoio, venne esplorata nel 1826 da uno scrittore, Augusto Kopisch, e un pittore, Ernesto Fries, guidati dal pescatore Angelo Ferrario, detto “il Riccio”. Già nota ai Capresi col nome di “Grotta di Gradola”, la Grotta Azzurra era stata fino ad allora ritenuta un luogo magico e pauroso per via di terrificanti leggende di streghe e mostri che la popolavano.Il merito principale dell’esplorazione fu, dunque, quello di ribattezzarla “Grotta Azzurra”… nome con cui oggi viene conosciuta e rappresentata sulle cartoline ricordo di Capri.


Nella grotta, lunga 60 metri e larga 25, si accede quasi distesi in piccole barche a remi, venendo travolti da un’atmosfera surreale dovuta ai meravigliosi giochi cromatici prodotti dai raggi solari che, penetrando nella cavità, attraverso un’apertura sottomarina, colorano il luogo d’azzurro, con tonalità variabili nelle diverse ore del giorno.
 A ciò si aggiungono i meravigliosi riflessi argento degli oggetti immersi nelle acque. 
Dopo aver ammirato il cosiddetto Duomo Azzurro, ossia il primo ambiente, più visitato e conosciuto, la grotta prosegue in fondo a destra coi tre rami della Galleria dei Pilastri, convergenti in un unico passaggio fino alla Sala dei Nomi, così chiamata per le firme dei visitatori poste sulle pareti. 
 Il passaggio poi si restringe fino alla Sala della Corrosione, ultima parte accessibile. 

Una curiosità: sul fondo della Grotta Azzurra, meraviglia di seducente bellezza, nel 1964 furono scoperte statue d’epoca romana, raffiguranti divinità marine, attualmente custodite nel Museo della Certosa.
 Queste sculture marmoree decoravano il ninfeo dell’imperatore Tiberio ed erano attaccate alle pareti con dei ganci che l’acqua marina ha corroso, provocando la loro caduta in mare. 

 Fonte: http://www.meteoweb.eu/

venerdì 8 luglio 2016

Uno spettacolo della natura: i funghi fluorescenti


Immagina di camminare in un bosco del Giappone di notte e di vedere sul terreno qualcosa che emette luce.
 Mille pensieri alla mente su cosa potrebbe essere. No, non sei ubriaco e non si tratta nemmeno di un’ invasione aliena. Probabilmente stai osservando dei funghi, Chlorophos Mycena, per usare il termine tecnico. 

 Ritrovati in gran parte sull’isola di Mesameyama nella regione Ugui in Wakayama (Giappone) e nel Ribeira Valley Tourist State Park, in Brasile, questi particolari funghi , emergono nelle stagione delle piogge, tra maggio e luglio, “accendendo” il terreno con le loro spore luminose.


Lo spettacolo, quasi magico, che regalano è dovuto alla bioluminescenza, una delle reazioni strane ma meravigliose che accadono naturalmente in molte piante e animali. 

 Il fenomeno della bioluminescenza si verifica quando l’energia chimica naturale prodotta all’interno di un organismo viene convertita in energia luminosa. 
 Il risultato è un sorprendente luce fluorescente naturale, o ‘luce fredda’ (in opposizione al rosso luce calda). 
Sono svariate le persone di tutto il mondo che arrivano da tutto il mondo solo per vivere questa esperienza unica. 
 Il colore della bioluminescenza è normalmente dal blu al verde anche se non si escludono delle variazioni di colorazioni. 

 Anche se in Giappone, qualcuno sta già organizzando delle escursioni per poter osservare da vicino questo spettacolo i luoghi dove è possibile guardare questa meraviglia della natura rimangono ancora ben protetti in modo da salvaguardarli il più possibile. Il modo migliore per goderne, per ora, è tramite qualche foto di questi funghi fluorescenti …





Fonte: curiositaeperche.it

giovedì 7 luglio 2016

L'invasione dei pesci scorpione


Testimonianze raccolte tra pescatori e subacquei dimostrano che nel giro di un anno i predatori velenosi noti come pesci scorpione (Pterois miles), hanno colonizzato le acque attorno a Cipro. 
Il rapporto è di Demetris Kletou, del laboratorio di ricerca ambientale di Limassol (Cipro), ed è pubblicato sulla rivista Marine Biodiversity Records. 

 «Fino a poco tempo fa gli avvistamenti di pesci scorpione nel Mediterraneo erano relativamente pochi, ma c’erano forti timori che avrebbero potuto colonizzare il nostro mare così come hanno fatto nell’Atlantico occidentale», spiega Kletou, «e così è stato. Abbiamo la certezza che la specie ha colonizzato l’area orientale del mare attorno a Cipro e si sta prepotentemente insediando attorno all’isola.»


I pesci scorpione sono carnivori e possono nutrirsi di una grande varietà di specie. 
Si riproducono ogni 4 giorni durante tutto l’arco dell’anno, e così nel giro di 12 mesi depongono fino a 2 milioni di uova gelatinose che possono cavalcare le correnti marine e coprire grandi distanze per circa un mese prima di schiudersi. La capacità di riprodursi velocemente, insieme alla notevole armatura di spine velenose che scoraggia i predatori, fanno si che riescano a invadere rapidamente le zone in cui riescono ad arrivare.


Le cause che hanno portato il pesce scorpione a trovarsi così bene nel Mediterraneo sono essenzialmente due: da un lato vi è stato l’ampliamento del canale di Suez, che ha permesso ai Miles di spingersi più facilmente dal mar Rosso (loro habitat naturale) al Mediterraneo; e, in secondo luogo, effettuato il passaggio hanno trovato un habitat più confortevole rispetto al passato, per via dell'aumento della temperatura media dell'acqua del Mediterraneo. 

 Fonte: focus.it

mercoledì 6 luglio 2016

Il vestito multicolor del camaleonte


Il camaleonte è uno di quegli animali che mi ha sempre affascinato, forse per quella sensazione di esotico che riesce a trasmettere, forse per il suo aspetto in parte curioso e in parte “magico”, legato soprattutto alla sua capacità di cambiare colore nel giro di brevissimo tempo; ma vi siete mai domandati qual è il “trucco”?

 I camaleonti appartengono alla famiglia dei rettili e al sottordine dei Sauri; in greco il suo nome significa “leone di terra”. 
Vivono principalmente in Africa e in particolare in Madagascar e altre zone tropicali, ma alcune specie è possibile trovarle anche nell'Europa meridionale (Andalusia e Grecia), in Sri Lanka, India e Asia Minore, mentre i Camaleonti di Jackson nelle isole Hawaii, in California e in Florida. 
Vivono sugli alberi spostandosi da un ramo all'altro grazie a delle zampe dotate di artigli, ma le specie più piccole anche nei cespugli o nell'erba.
 Le loro dimensioni possono variare dai 2-3 centimetri (come Brookesia micra e Brookesia minima) fino ai 60 centimetri dei Calumma parsonii e Furcifer oustaleti. 
Sono tutti accomunati da particolari elementi morfologici : 
 - tipica struttura delle zampe: sono dotate di due dita principali ognuna dotata di 2-3 artigli (sono come delle tenaglie che permettono al camaleonte di ancorarsi saldamente ai rami degli alberi); 
 - lingua retrattile che può raggiungere anche una lunghezza superiore a quella del suo stesso corpo e che nella parte prossimale presenta una pallina di muscolo appiccicosa alla quale l'insetto (soprattutto locuste, mantidi e grilli) rimarrà attaccato; quindi quando il camaleonte si trova davanti ad una preda la lingua viene estroflessa velocissimamente dalla bocca, per poi essere altrettanto rapidamente retratta una volta catturato l'insetto;


- mancanza di orecchie (e sembra che comunichino attraverso le vibrazione dei rami); 
 - occhi che possono ruotare e mettere a fuoco indipendentemente uno dall'altro (solo quando si trova davanti ad una preda, su di essa il camaleonte punta entrambi gli occhi); questo permette al camaleonte di avere una visione di 360 gradi senza spostarsi (visione stereoscopica)




ma soprattutto.... la capacità di cambiare colore.


Questa caratteristica dei camaleonti non ha come unico fine quello della mimetizzazione, ma si manifesta in diverse situazioni in cui l'animale può trovarsi, a seconda di determinate condizioni fisiche o fisiologiche; anche gli stati emotivi come la paura possono influenzare (ad esempio durante un combattimento, assume tonalità più vivaci al fine di intimorire l'avversario). 
Durante il periodo degli amori (da luglio ad ottobre) i camaleonti assumono determinate colorazioni per comunicare la loro disponibilità all'accoppiamento o, nel caso della femmina, la già avvenuta fecondazione.
 Anche le condizione di luce e la temperatura possono influenzare il colore della pelle di questi rettili.

 Ma come si verifica tale fenomeno? 
 Sotto la pelle trasparente del camaleonte si trovano diversi strati di cellule specializzate: 
 - quello superiore è costituito da cellule (cromatofore) contenenti pigmenti gialli e verdi 
 - quello intermedio contenente cellule (guanofore) contenenti una sostanza cristallina (guanina) che riflette una parte di luce incidente, principalmente quella blu e quella bianca 
 - strato inferiore costituito da cellule melanofore, contenenti appunto melanina 
 Se le cromatofore sono gialle, la luce incidente blu da una colorazione verde; le cellule melanofore invece servono per scurire o schiarire i colori prodotti dagli strati sovratanti. 
 Ma non è tutto qui: se il camaleonte è rilassato, i cristalli delle cellule guanofore formano uno strato più compatto in grado di riflettere principalmente luce blu (e ciò che vedremo è quindi un colore della pelle verde); in uno stato di eccitazione invece, ad esempio nel caso di uno scontro o un accoppiamento, i cristalli si distanziano l'uno dall'altro e cambiano la luce riflessa, e la colorazione finale sarà giallo-arancione (ed infatti come detto precedentemente, il cambiamento di colore non serve tanto per la mimetizzazione quanto è indice dello stato emotivo dell'animale). 

Inoltre alcuni ricercatori hanno individuato un altro strato di cristalli sotto il primo: qui le strutture cristalline sono più grosse e disposte in modo più irregolare; sarebbero in grado di riflettere tutte le lunghezze d'onda di luce, aiutando il camaleonte a rimanere al fresco.
 Per mimetizzarsi invece sfruttano anche la loro caratteristica andatura e la forma del corpo compressa: le movenze oscillanti durante gli spostamenti lo fanno sembrare una foglia; in questo modo il camaleonte non viene notato né da eventuali predatori né dalle possibili prede (sono cacciatori passivi, nel senso che possono rimanere immobili anche per ore in attesa di una preda di passaggio).

 Fonte: greenme.it

martedì 5 luglio 2016

Le meraviglie sommerse di Panarea


Localizzati quattro relitti romani del I e II secolo d.C. con centinaia di reperti intatti.
 Divieto di immersione, pesca e ancoraggio. Ma ci sono anche i danni causati da pesca a strascico. 

Il mare attorno a Panarea, la più piccola delle isole Eolie che in estate attira vip e personaggi dello spettacolo, è sempre più meta degli archeologi marini e subacquei di alto fondale. 
Nel profondo blu, compreso tra gli 80 e i 170 metri sul versante che guarda gli scogli di Basiluzzo e Lisca Bianca, nel 2010 gli archeologi siciliani della Soprintendenza del mare hanno localizzato e fotografato quattro spettacolari relitti di epoca romana (I e II secolo) carichi di centinaia di anfore intatte, che giacciono adagiate sul fondo. 
Erano navi commerciali romane di medie dimensioni, adibite al trasporto di grano, vino e garum (una salsa di pesce molto apprezzata all'epoca) che, troppo cariche, verosimilmente imbarcando acqua fecero naufragio inabissandosi lungo la trafficatissima rotta tirrenica tra la Sicilia e la costa meridionale italiana. 

Nelle prossime settimane gli archeologi della Regione, che hanno localizzato con esattezza i carichi e iniziato la mappatura del sito tra il 2009 e il 2011 grazie all'impiego del Rov (Remotely Operated Vehicle) insieme all'équipe americana della Fondazione Aurora Trust, si preparano a tornare sui fondali.
 Obiettivo, continuare a studiare i reperti, grazie all'intervento dei sub esperti in immersioni di alto fondale che utilizzano le sofisticate tecniche di rebreather.
 E iniziare a progettare una strategia di controllo con le telecamere di profondità.




La questione dei furti clandestini di reperti, per i mari siciliani, è una piaga antica. 
Sul relitto a 85 metri, oltre a danni alle anfore ridotte in cocci, sono state rilevate tracce di alterazioni, forse cavi d'acciaio utilizzati per un tentativo di furto, secondo quanto rilevato negli anni passati dagli esperti della regione.
 "Il progetto Archeorete, partito alle Eolie nel 2009, continuerà anche quest'estate", spiega il soprintendente del Mare della Sicilia, l'archeologo Sebastiano Tusa. 
"Tra fine luglio e inizio agosto ritorneremo a lavorare sul relitto Panarea III, il più bello, quello che ha già restituito un altare portatile, su cui sono incise tre lettere che consentono di individuarne la proprietà, e i vasi cilindrici adibiti al trasporto del miele. 
L'alta profondità a cui giacciono i reperti costituisce un buon deterrente contro i furti", continua il Soprintendente. 
"Pensiamo che non sia affatto facile trafugare materiali a 100 metri sott'acqua e che la rete di informatori, primi tra tutti i diving locali, che abbiamo attivato negli anni è sempre efficace". 

Sui siti, intanto, sono state apposte ordinanze di divieto di immersione, pesca e ancoraggio, su cui vigilano le forze dell'ordine, Carabinieri e Capitaneria di Porto. 
Il pericolo maggiore però è costituito dalle reti a strascico con i loro congegni metallici che, al passaggio, distruggono le anfore nella parte summitale. 
"Per evitare questo scempio l'unica arma è sensibilizzare le marinerie costiere di Messina e Reggio Calabria che si spingono sino a queste acque", conclude Tusa. 
"Stiamo inoltre pensando a un bando per un progetto internazionale per realizzare la rete di telecontrollo per proteggere l'area, con un sistema simile a quello già sperimentato sui relitti delle isole Egadi, a Levanzo e Favignana". 

 Fonte: http://www.corriere.it/

L'azzurro Crater Lake, il lago più profondo degli Stati Uniti


I grandi laghi degli States sono famosi in tutto il mondo, ma molti ignorano che in essi si trova anche il nono lago più profondo del pianeta: l’azzurro Crater Lake, che occupa una caldera estinta nel cuore del Crater Lake National Park, noto, tra l’altro, per i suoi paesaggi lunari di pomice e cenere e gli imponenti pinnacoli di roccia, frutto dell’erosione di antichi siti eruttivi. 
Il parco, istituito il 22 maggio 1902 dal presidente Theodore Roosevelt, raccoglie una media di 500 mila visitatori l’anno, offrendo tanti divertenti modi per trascorrere le vacanze : in inverno, sci di fondo, in estate gite in barca, escursioni e tour panoramici di tutto il lago, praticando la pesca al salmone e alla trota iridea. 
Visto dall’alto, il Crater Lake sembra un vulcano che presenta, al posto della lava incandescente, una vasta distesa d’acqua.


Situato nella regione centro-meridionale dell’Oregon, sulla cresta della Cascade Mountain Range, a 100 km ad est dell’Oceano Pacifico e a 110 km dal confine con la California, con una superficie di 53 km quadrati e una profondità massima di 594 metri, il Crater Lake è il lago più profondo degli Stati Uniti, lasciando a bocca aperta per l’eccezionale limpidezza dell’acqua e il suo incredibile colore blu intenso, paragonato da alcuni all’inchiostro. 
La sua particolarità sta proprio nell’essersi formato nella caldera di un vulcano spento, il Monte Mazama, ed è sovrastato da muri di roccia alti fino a 700 metri.

 La caldera è una forte depressione che si forma su un edificio vulcanico in seguito ad una forte esplosione. 
Con la perdita di pressione, la camera magmatica si svuota, riempendosi progressivamente di acqua piovana. 
Pur non essendoci fiumi che convogliano dentro il lago, l’evaporazione è compensata dalle abbondanti piogge e dallo scioglimento delle nevi, che permettono il rinnovamento dell’acqua ogni 250 anni.
 Si tratta di un luogo spettacolare in cui si respira l’aria più pulita della Nazione, passeggiando lungo i sentieri immersi nella tranquillità della natura, con uno scenario di boschi di cicuta, abeti rossi, pini, caratterizzati da un ecosistema attivo, popolato da orsi neri, linci, aquile e falchi.


Un’interessante leggenda racconta che quando i primi visitatori di Crater Lake lo fotografarono per poi mandare le foto a sviluppare., la Kodak offrì di rimborsare il costo dello sviluppo, ritenendo che il blu del lago fosse così innaturale che non poteva che trattarsi di un errore nel processo di stampa. 
In realtà, è proprio quel colore, unico al mondo, ad attrarre ogni anno milioni di visitatori. La straordinaria profondità del lago Crater conferisce un colore così azzurro limpido da essere considerato unico al mondo.
 Godersi il Crater Lake dalla sponda ovest, vicino al punto d’osservazione Watchman, ammirando in tutta la sua maestosità la punta del cono vulcanico (Wizard Island) che emerge dalle acque limpide, è un’esperienza impressionante.
 Da altri punti d’osservazione potrete scorgere Phantom Ship, altro picco vulcanico che, durante i periodi di nebbia o poca luce, dà veramente l’impressione di essere un vascello fantasma. 
Secondo molti viaggiatori, il Crater Lake regala i panorami più suggestivi nei periodi in cui è ricoperto di neve, quando la sua visione mette letteralmente in soggezione!


Fonte: meteoweb.eu

venerdì 1 luglio 2016

La Route 66 sarà la prima autostrada solare degli Stati Uniti


È forse la più famosa autostrada degli Stati Uniti: la Route 66, storica protagonista delle migrazioni a ovest degli anni ’30, immortalata in canzoni, programmi televisivi, film e romanzi. 
 E se oggi, a 90 anni dalla sua inaugurazione, rimane più che altro un monumento a un secolo di storia e cultura americane, presto potrebbe guadagnare nuova fama e un invidiabile primato.
 Negli scorsi giorni infatti lo stato del Missouri ha dato il via libera per trasformare alcune sezioni della Route 66 nella prima autostrada solare degli Stati Uniti, un percorso pavimentato con pannelli solari e pensato per garantire la viabilità e produrre al contempo energia pulita.


Anima del progetto sono Scott e Julie Brusaw, due coniugi e inventori americani che nel 2014 hanno lanciato una campagna di crowdfunding di grandissimo successo: la loro società, la Solar Roadways, ha infatti raccolto oltre due milioni di dollari su Indigogo, per sviluppare una tecnologia con cui trasformare i 259mila chilometri di autostrade americane in un immenso pannello solare.
 Un sistema, assicurano i calcoli dei Brusaw, che permetterebbe di generare una quantità di energia tre volte superiore al consumo annuale del paese. 
 Dopo due anni di lavoro, oggi la loro tecnologia è finalmente pronta per il test su strada, e il dipartimento dei trasporti del Missouri sembra più che disposto a collaborare all’impresa. L’accordo stretto tra lo stato e la Solar Roadways prevede l’istallazione dei pannelli inventati dai Brusaw su alcuni brevi tratti della Route 66, con l’obbiettivo di produrre sufficiente energia solare da provvedere alle necessità energetiche degli edifici, della segnaletica e dell’illuminazione delle aree limitrofre.


Per iniziare, i pannelli solari dei Brusaw saranno installati sui marciapiedi.
 Questa fase dovrebbe concludersi entro la fine del 2016, e se tutto andrà come sperato, si potrà poi procedere al test sulle strade vere e proprie in tempi ragionevolmente brevi.
 La tecnologia, ammettono dalla Solar Roadways, è ancora in fase di sviluppo, e servirà ancora qualche anno per raggiungere gli standard richiesti.
 I pannelli comunque sono già in grado di sostenere il peso di un autoarticolato, e la composizione è pensata per emulare le caratteristiche di aderenza dell’asfalto.
 I pannelli contengono inoltre una serie di gadget smart: luci led con cui sostituire la segnaletica orizzontale, un sistema di riscaldamento che evita l’accumulo di neve o ghiaccio, e microprocessori che permettono di trasmettere e ricevere dati in tempo reale.

 Per sapere se le autostrade solari si riveleranno un successo bisognerà aspettare almeno fino al prossimo anno, ma un esperimento simile, realizzato in Olanda, ha già dato risultati incoraggianti. 
 Si tratta della prima ciclabile solare del mondo, costruita dall’azienda Solar Road con fondi del governo olandese, che alla fine del 2015 ha annunciato di aver superato il proprio obbiettivo, producendo oltre novemila kwh nel corso dell’anno con un percorso di circa 70 metri.

 Fonte: wired.it

Roll cloud: nubi minacciose e innocue


Uno spettacolare fenomeno meteorologico accaduto qualche giorno fa sopra al lago Michigan (Usa), un fronte di roll cloud (nubi a rotolo, ma è meglio usare l'espressione inglese) dà l'occasione di parlare ancora di questi eventi, che a volte consideriamo inquietanti per la potenza che esprimono quando alziamo gli occhi al cielo. 
 Un fronte di roll cloud ha proprio la forma di un rotolo, col vapore acqueo arrotolato su se stesso, lungo anche decine di chilometri, in moto a notevole velocità: questa particolare formazione appartiene alla categoria delle arcus cloud.




Sono in effetti "nubi solitarie": di solito precedono una perturbazione temporalesca, anche se non originano precipitazioni, e avanzano a basse quote. 
 Si formano quando una nube temporalesca (un cumulonembo) inizia a dare origine alla pioggia perché le correnti ascensionali non sono più in grado di sostenere le gocce d’acqua che si trovano al suo interno. 
 La pioggia trascina verso il basso una corrente di aria fredda che può arrivare anche da 10.000 metri di quota: la corrente percorre il fianco del cumulonembo fino ad arrivare quasi suolo. 
Il processo può far alzare verso l’alto aria calda che si trova davanti alla nube temporalesca: quest’aria, staccata sia dal fronte principale del temporale sia dal suolo, inizia ad avvolgersi su se stessa dando infine origine all’arcus. 
E così come si forma, allontanandosi dalla perturbazione la "minacciosa" nube si dissolve. 

 Fonte: focus.it