giovedì 15 ottobre 2015

Il Colosso dell’Appennino, il meraviglioso gigante che nasconde un segreto


Non è la prima volta che ci troviamo di fronte a capolavori dell’arte italiana che raffigurano divinità o personificano elementi naturali e il Colosso dell’Appennino, è sicuramente uno tra questi. 
 Metà uomo, metà montagna, la gigantesca scultura alta più di dieci metri nata dalla mente dell’artista fiammingo Jean de Boulogne noto come il Giambologna, si trova al centro del Parco mediceo di Pratolino (Fi), conosciuto anche come Villa Demidoff, dalla famiglia di industriali di origine russa che l'acquistò nel 1872. 
 La statua, che è il simbolo delle aspre montagne appenniniche italiane, è stata realizzata nella seconda metà del Cinquecento. 
La figura è così realistica che, da subito è diventata la principale attrazione del Parco mediceo voluto da Francesco I, uno dei più grandi della Toscana, divenuto nel 2013 Patrimonio Unesco.


Particolarità del Colosso è quella che il pensoso gigante sembra uscire dal laghetto, un effetto studiato ad arte dal Giambologna che ha ricoperto di fango, licheni, fontane e creazioni calcaree, la parte inferiore della statua. 
Tuttavia, il lato estetico non è l’unico motivo che attira centinaia di turisti.
 Si dice, infatti, che il gigante rivestito di intonaco e di pietra porti con sé un segreto, ospitando nel proprio ventre stanze e grotte misteriose che un tempo dovevano essere molte di più. 
Dentro la testa era stato progettato perfino un camino che, da accesso, avrebbe soffiato il fumo fuori dalle narici del gigante. 

Attraverso la bocca del serpente, posta sotto la mano sinistra del Gigante, un flusso di acqua scendeva nella piscina sottostante.






Al Colosso è legato un detto, che recita:
 Giambologna fece l’Appennino, ma si pentì d’averlo fatto a Pratolino, per sottolineare come la stessa opera d'arte, costruita magari nel centro di Firenze, avrebbe suscitato un clamore certamente maggiore.

 La statua è stata da poco restaurata e fatta tornare al suo antico splendore, i più curiosi hanno ancora qualche giorno di tempo per visitare gratuitamente (e anche con il proprio amico a 4 zampe al guinzaglio) il parco che chiuderà i primi di novembre.

 Dominella Trunfio

Identificato e raggiunto il relitto della Erebus, la leggendaria nave scomparsa nel 1846




Le condizioni atmosferiche favorevoli e la limpidezza del mare di fine estate hanno permesso agli archeologi canadesi di studiare in modo più attento il relitto più famoso della nazione: la nave H.M.S. Erebus della spedizione Franklin. 

 La spedizione, guidata da Sir John Franklin, era stata inviata nel 1845 dall’ammiragliato britannico alla ricerca del leggendario Passaggio a Nord Ovest, la rotta artica tra l’Oceano Atlantico e il Pacifico, cercata invano da generazioni di navigatori. Ma presto le due navi, la Erebus e la Terror, scomparvero nel nulla.

 L’anno scorso, dopo oltre un secolo e mezzo di ricerche, il primo ministro canadese Stephen Harper aveva annunciato che un gruppo di ricercatori aveva rinvenuto la Erebus sul fondo del Mar Glaciale Artico, a meno di dodici metri di profondità, in un canale nascosto.






Quest’estate il team di studiosi è ritornato nell’Artico per studiare i resti ben preservati della nave e scoprire cosa ci fosse al suo interno.
 Introducendo delle macchine fotografiche attraverso le fessure presenti nel ponte superiore e nello scafo dell’imbarcazione, i ricercatori hanno esplorato i resti della cabina di Sir John Franklin, capo della spedizione. 
Parte della poppa dove si trovava la cabina è crollata, intrappolando sotto travi e fasciame quelli che sembravano gli oggetti personali del comandante. 
 “Probabilmente gran parte del contenuto della cabina di Franklin è seppellito sotto la cabina stessa, o depositato sul fondale”, spiega Jonathan Moore, veterano dell’archeologia subacquea che lavora per Parks Canada, l’agenzia per la protezione del patrimonio naturale e culturale del paese.


A differenza della poppa, gravemente danneggiata, gran parte della nave è rimasta straordinariamente intatta, il che fa sperare che gli archeologi possano, prima o poi, essere in grado di esplorare la stiva. 
Lì potrebbero trovare campioni raccolti durante la spedizione a scopo scientifico e, forse, perfino delle fotografie.
 “Molti degli oggetti che potrebbero rivelarci il destino della spedizione Franklin sono intrappolati in profondità, nelle viscere della nave”, spiega Ryan Harris, archeologo subacqueo di Parks Canada che ha guidato la recente ricerca. 
“Prima di entrare, vogliamo capire come le parti che la compongono siano riuscite a rimanere unite e di che tipo di attrezzature abbiamo bisogno”. 
 In più di 140 ore di immersioni, condotte tra agosto e settembre, Harris e il suo team hanno scattato centinaia di foto per mappare il sito del relitto. 
I ricercatori hanno, inoltre, scoperto dozzine di manufatti in mezzo ai detriti, inclusi il timone e l’impugnatura della spada di un ufficiale della marina militare britannica. “È probabile che negli anni a venire, in mezzo ai detriti della nave, troveremo molto di più”, continua Harris.


Guidata da un esperto esploratore dell’Artico e dotata di tutto l’equipaggiamento tecnologico del tempo – dal riscaldamento centralizzato a un attrezzatura per realizzare dagherrotipi, tecnica fotografica appena inventata - la spedizione Franklin sembrava destinata al successo. Ma sedici mesi dopo la partenza, entrambe le navi rimasero intrappolate nella banchisa.
 Nel giugno 1847 Franklin morì, forse in seguito a un attacco di cuore.
 Il resto dell’equipaggio abbandonò l’imbarcazione meno di un anno dopo, puntando ad attraversare la banchisa e a raggiungere una delle postazioni della Compagnia della Baia di Hudson (la compagnia commerciale più antica del Canada e una delle più antiche del mondo) sulla terraferma. Ma nessuno sopravvisse al viaggio. 

 Negli anni seguenti, gruppi di ricerca e di soccorso ispezionarono la regione alla ricerca delle tracce della spedizione scomparsa, ritrovando un ultimo messaggio scritto su un mucchio di pietre e le tombe da alcuni degli uomini. Via via che la speranza di ritrovare in vita l’equipaggio si affievoliva, la storia della spedizione scomparsa nell’Artico si radicava nella cultura popolare canadese, diventando oggetto di romanzi, dipinti e canzoni. 

 Il fascino della spedizione scomparsa “è paragonabile a quello del Titanic o della spedizione al Polo Sud di Robert Scott”, dice James Delgado, archeologo nautico e direttore del Maritime Heritage Program della NOOA, l’agenzia USA per gli oceani e l’atmosfera. “È un fallimento epico, gigantesco, i cui protagonisti andarono incontro al proprio destino con risoluta determinazione”.


Se quest’estate si è andati avanti con lo studio della Erebus, Harris e un piccolo gruppo di colleghi si sono messi sulle tracce dell’altra nave della spedizione Franklin, la Terror.
 I ricercatori si sono concentrati su un’area a più di 130 chilometri di distanza dalla Erebus, una posizione suggerita da testimonianze storiche e altri indizi, e hanno setacciato centinaia di chilometri quadrati di fondale con il sonar ma sono riemersi a mani vuote. “Non abbiamo trovato né la Terror, né alcun segno che riconduca alla nave”, racconta Harris. 
 Nonostante ciò, i ricercatori rimangono ottimisti riguardo ai risultati che porteranno i prossimi studi sul campo.
 Nel 2016, il team ha in programma di riprendere le ricerche della Terror e iniziare a scavare intorno alla Erebus per scoprire eventuali manufatti al suo interno. “Non sappiamo cosa potremmo trovare”, conclude Harris. “È tutto molto emozionante”.

 Heather Pringle
www.nationalgeographic.it