lunedì 14 settembre 2015

Alcune spettacolari immagini di Hubble



La nebulosa Occhio di Gatto, nella costellazione del Drago. è una classica nebulosa planetaria che brilla per le emissioni ad alta energia della stella visibile al centro della nuvola gassosa.
Questa immagine mostra le intricate forme assunte dalla nuvola di gas, del diametro di 0,2 anni luce, che si espande dopo essere stata espulsa da una stella morente a 3.000 anni luce di distanza dalla Terra.



Hubble è tornato a esaminare la psichedelica bolla di gas detta Nebulosa Occhio di Gatto, svelando almeno 11 anelli concentrici prima sconosciuti e "proiettili" di gas incandescente scagliati nello spazio da una stella morente.
Questa nuova immagine ad alta definizione ha rivelato agli astronomi che il materiale stellare viene espulso a intervalli di circa 1.500 anni.
Creando una struttura simile agli strati di una cipolla.



Questa immagine che sembra un delicato fiore sul gambo, è in realtà una foto di una coppia di galassie che interagiscono nella costellazione di Andromeda, a 300 milioni di anni luce dalla Terra. Nonostante ispiri pace e tranquillità, l'immagine mostra come la galassia a spirale in alto si stia disgregando a causa dell'attrazione gravitazionale di quella in basso, più piccola.
A collegare le due galassie c'è un "filo" di stelle che si estende per decine di migliaia di anni luce.



Supergigante rossa Situata a 20.000 anni luce dalla Terra, al margine della Via Lattea, questa stella rossa, avvolta da una cappa di polvere, è stata immortalata da Hubble. 
Monocerotis è una supergigante rossa che, per motivi ancora misteriosi, emette col passare del tempo multipli lampi di luce che illuminano la nuvola di gas e polvere che la circonda.
Questo fenomeno, detto eco luminosa, è stato identificato per la prima volta proprio da Hubble, e potrebbe rappresentare una fase instabile, prima sconosciuta, della vita delle stelle "anziane" dalla massa molto più grande di quella del nostro Sole.



L'Inuit spaziale
Per la somiglianza con una testa d'uomo avvolta in un cappuccio imbottito, questa nebulosa è stata battezzata Eskimo.
La colorata nube gassosa che si trova a 5.000 anni luce da noi è quel che rimane dell'esplosione di una stella simile al Sole, avvenuta 10.000 anni fa.
Dalla regione esterna di questa nebulosa planetaria si diramano filamenti gassosi di colore arancio lunghi più di un anno luce.
Gli scienziati non sanno ancora dire come si siano formati.



L'angelo ribelle
In questa foto di Hubble pubblicata di recente, la regione di formazione stellare sembra un angelo che spiega le ali.
All'origine della nuvola di gas e polvere c'è una giovane stella.
Sul punto di raggiungere l'età adulta, la stella si ribella alla nube che l'ha generata, espellendo materiale ad altissima velocità e creando lobi di idrogeno caldissimo e turbolento.



Hubble Bubble
Come una fantomatica bolla sospesa nello spazio, ultimo residuo di una stella massiccia morta in una gigantesca esplosione 400 anni fa. Nel 2012, Hubble ha esaminato l'onda d'urto della supernova, larga 23 anni luce, che si espande a una velocità di oltre 15 milioni di chilometri all'ora.
Si trova nella Grande Nube di Magellano, una galassia satellite della Via Lattea a circa 170.000 chilometri dalla Terra.



Granchio cosmico
Questa foto scattata da Hubble, considerata l'immagine più dettagliata della celebre Nebulosa Granchio, mostra gli innumerevoli filamenti gassosi di idrogeno che si intrecciano in questo resto di supernova.
L'interno della nube, di colore azzurro elettrico, è il nucleo della stella morta che risiede al centro della nebulosa.
Nell'anno 1054, gli antichi astronomi cinesi osservarono l'esplosione di supernova che ha dato vita alla nebulosa; i documenti d'epoca raccontano di una nuova stella che brillò nel cielo per due settimane.



Quel che resta di Cassiopea A
Non sono fuochi d'artificio, ma i resti di una gigantesca esplosione stellare che si espandono nel cielo. È Cassiopea A, considerata la più recente supernova nella galassia, Hubble ha immortalato le sue emissioni di gas viola, verdi e gialle sparate  nello spazio a 10.000 anni luce dalla Terra.



Rettangolo rosso
Dai telescopi terrestri questa nebulosa appare perfettamente rettangolare (da qui il nome Nebulosa Rettangolo Rosso). Ma le immagini del telescopio spaziale Hubble hanno mostrato che più che a un rettangolo somiglia a una X.
La forma deriva dal gas emesso dalla stella morente al centro della nebulosa.
La stella ha cominciato a perdere gli strati esterni circa 14.000 anni fa; con il tempo diventerà sempre più piccola e calda e comincerà a emettere un flusso di radiazione ultravioletta.

Fotografie del telescopio spaziale Hubble offerte per gentile concessione NASA, ESA
Testi - National Geographic.

Labirinto di 2.000 anni fa scoperto in India mostra lo stesso schema di un labirinto greco del 1.200 a.C.


I labirinti sono certamente tra le strutture più enigmatiche concepite dall’umanità. 
 Lo schema labirintico più antico si trova in Sardegna, nella Tomba del Labirinto (Luzzanas), inciso su una roccia appartenente ad una sepoltura che secondo gli esperti risale alla 2500 a.C., epoca neolitica.
 Il più noto dell’antichità è sicuramente il leggendario labirinto di Cnosso, che secondo la mitologia greca fu fatto costruire dal Re Minosse sull’isola di Creta per rinchiudervi il mostruoso Minotauro, nato dall’unione della moglie del re, Pasifae, con un toro. 

 Il simbolismo e il significato dei labirinti nel mondo antico sono complessi e molteplici. 
Secondo lo studioso J.C. Cooper, in alcune culture asiatiche il labirinto era legato alle leggi del Karma e al ciclo del Samsara, ovvero il ciclo di nascita, morte e reincarnazione nel mondo umano. 
Uscire dal Samsara significava raggiungere l’illuminazione, interrompere in ciclo di rinascita, e raggiungere l’eternità.

 Come spiegato da Ancient Origins, in altre culture il simbolismo è legato al superamento delle difficoltà della vita presente, una sorta di passaggio dal profano al sacro.
 «Il viaggio della vita attraverso le difficoltà e le illusioni del mondo porta all’illuminazione», scrive Cooper. «Entrare in un labirinto simboleggia la morte dell’individuo, mentre l’uscita equivale alla rinascita».


Recentemente, un gruppo di archeologi indiani ha scoperto un labirinto che risalirebbe al 2 mila a.C.
 La struttura si trova nel villaggio di Gedimedu e misura 17 metri quadrati.
 Come riporta Times of India, il labirinto è attualmente in fase di scavo da parte dei ricercatori del Verarajendran Archaeological and Historical Research Centre.
 Gli abitanti del posto hanno eretto un tempio sopra il labirinto, ma gli archeologi sono intenzionati a chiedere il permesso di rimuoverlo per consentire ulteriori scavi e studi. 
 «Il labirinto mostra un percorso che parte dalla porta d’ingresso fino all’uscita.
 Si deve camminare attraverso la via giusta per raggiungere l’obiettivo», spiega S. Ravikumar, capo del team di ricerca.
 «Si ritiene che la persona capace di percorrere correttamente il percorso vedrà realizzare i suoi desideri».
 A confondere le idee ai ricercatori c’è una curiosa coincidenza: il labirinto indiano mostra un percorso praticamente simile a quello trovato su una tavoletta d’argilla trovata a Pylos, Grecia, fatta risalire al 1200 a. C., uno degli schemi più antichi conosciuti.


È difficile stabilire se si tratta di una notevole coincidenza, oppure se in qualche modo la cultura greca e quella indiana siano entrate in contatto nell’antichità. 
Secondo alcune ipotesi, potrebbero entrambe essersi ispirate ad una cultura più antica, preesistente ad entrambe. 

 Fonte: ilnavigatorecurioso.it

Il monaco e il cagnolino



Un vecchio monaco eremita un giorno viene interrotto da un ospite non invitato. 
Questo incontro diventa suo malgrado un viaggio per scoprire il vero significato dell’amicizia e della compagnia.

 Animazione realizzata dal Tom Long.

Come si formano gli organi genitali nell'embrione?



Un embrione di serpente.
Fotografia di Patrick Tschopp/Harvard Medical School/Department of Genetics
Non è una domanda che sentiamo spesso sulla bocca degli scienziati, eppure la risposta potrebbe aiutarci a spiegare l'evoluzione.

Un gruppo di ricercatori di Harvard ha studiato come si forma il pene di diversi rettili e mammiferi: embrioni di serpenti, lucertole, topi e polli sono stati oggetto d'indagine. Il risultato è stato pubblicato su Nature: gli studiosi hanno scoperto che, nei feti di questi animali, le cellule designate a generare gli organi genitali sono differenti.
Se infatti nei serpenti sono coinvolte le cellule originariamente destinate a diventare arti posteriori (arti che gli ofidi hanno perso nel corso dell'evoluzione), nei mammiferi, uomo compreso, le cellule che costituiscono pene e clitoride sono quelle che dovrebbero dare origine alla coda.
Le origini di questa differenza sono da rintracciare nella cloaca, una struttura embrionale cava che si sviluppa nelle vie urinarie e nel tratto inferiore dell'intestino. È da lì che partono i segnali chimici necessari per la formazione dei genitali e, come in un puzzle, la sua posizione è determinante.
Se la cloaca del topo è infatti situata vicina alla base della coda, quella dei serpenti si trova vicino a dove, una volta, sarebbero spuntati gli arti.
E questa è anche la ragione per cui i mammiferi hanno un pene solo, mentre i serpenti ne hanno ben due, chiamati emipeni (di cui però uno soltanto verrà usato durante l'accoppiamento). Nell'embrione di serpente mostrato nella fotografia, si distinguono i due germogli degli emipeni, che si trovano nel punto in cui un tempo sarebbero dovute crescere le zampe.
Patrick Tschopp, uno dei biologi che hanno condotto le ricerche, spiega: “Ovunque si colloca la cloaca, essa determina quali tipi di tessuti ricevono il segnale e, di conseguenza, quali cellule verranno 'reclutate' per trasformarsi in organi sessuali”. Questa scoperta rappresenta anche una conferma per le teorie dello sviluppo della vita sulla Terra:
“Quando gli animali che abitavano il mare sono diventati terrestri, hanno dovuto sviluppare arti dove prima avevano le pinne. Hanno poi dovuto escogitare un modo per proteggere le loro uova dall'essiccazione: così è nata la fecondazione interna, che ha richiesto lo sviluppo di un pene esterno.
Abbiamo sempre sospettato che membra e genitali si fossero co-evoluti, ma oggi lo abbiamo finalmente dimostrato”, ha dichiarato Tschopp.

Tratto da National Geographic

Ricostruita la prima macchina del freddo di Leonardo


L’antenato dei frigoriferi – ideato da Leonardo da Vinci – è ora funzionante e in mostra al Museo della scienza e della tecnologia di Milano.
 Si tratta di un grande mantice con diciotto beccucci che, azionato a mano, concentra un getto d’aria su un contenitore dove tenere ghiaccio o acqua. 
Era questo per Leonardo il modo per creare quello che lui stesso definiva come «il sommo freddo».
 Il progetto, realizzato grazie al recupero di uno tra i migliaia di schizzi prodotti da Leonardo su circa 7.500 pagine e recuperato da Alessandro Vezzosi, fondatore e presidente del Museo ideale Leonardo da Vinci, è oggi tornato alla luce dopo più di quindici anni e riprodotto fedelmente grazie alla volontà e al sostegno di Sammontana Italia.


Il modello riproduce fedelmente il bozzetto autografo e databile intorno al 1492 di Leonardo, realizzato presumibilmente durante la sua permanenza nella Milano degli Sforza. 
«La macchina è una splendida sintesi di arte, scienza e tecnologia», spiega il professor Vezzosi. «Questo progetto ci fa comprendere la passione di Leonardo per il freddo e per la neve. Basti pensare che il primo disegno riferito al freddo risale al 5 agosto 1473».


Il disegno della macchina si trova in un foglio che Napoleone fece trafugare dalla Biblioteca Ambrosiana e che oggi è conservato presso l’Institut de France. 
L’enunciato autografo dello scienziato spiega i principi generali alla base dell’origine del freddo, ovvero per privazione di calore o per movimento d’aria. 
«Se per Leonardo il sommo caldo si può produrre con dei “razzi di uno specchio concavo” che si concentrano in un punto, il sommo freddo può essere prodotto dai “soffi di molti mantici”, ovvero dei molti beccucci di un grande mantice, concentrati verso un unico punto», spiega Vezzosi.


L’opera, realizzata dallo Studio Emme di Firenze, è composta da un mantice circolare a tre camere d’aria realizzato in cuoio, 18 beccucci che concentrano l’aria su un contenitore centrale e un piccolo argano a due manovelle da azionare a mano. 
In questo modo si va a creare un getto d’aria in grado di mantenere o abbassare la temperatura di cibi o bevande nel contenitore. Ecco quello che si può considerare come uno dei primi prototipi di frigorifero, in un’epoca nella quale il freddo era un lusso destinato a signori e potenti.


 Fonte : http://www.blueplanetheart.it
Ogni anno, per attrarre le femmine, sciami di maschi di Photinus carolinis si accendono tutti assieme illuminando le notti

Fotografia di Jim Richardson

Già da circa 60 anni gli studiosi conoscono gli elementi che permettono alle lucciole di illuminarsi: ossigeno, calcio, magnesio più un composto chimico naturale, la luciferina.
Finora però le reazioni chimiche che permettono alle lucciole di illuminarsi erano rimaste un mistero. "Il modo in cui enzimi e proteine convertono l'energia chimica in luce è un fenomeno di base", dice Bruce Branchini del Connecticut College, "e abbiamo voluto scoprire come funzionava quel processo biochimico".
Come altri chimici, Branchini non era soddisfatto dalle ipotesi già avanzate: ossigeno e luciferina, infatti, sono due sostanze che normalmente non sono suscettibili di creare una reazione chimica. Ma lo studioso e la sua équipe hanno scoperto che l'ossigeno che contribuisce a illuminare le lucciole si presenta in una forma che contiene un elettrone spaiato, l'anione superossido.
In questo modo, spiega la ricerca pubblicata su Journal of the American Chemical Society, l'ossigeno può combinarsi chimicamente con la luciferina nel corpo delle lucciole, liberando i fotoni che brillano nelle notti d'estate.
Secondo Branchini, è plausibile che l'anione superossido sia coinvolto in tutte le forme di bioluminescenza presenti in natura, dal plancton ai pesci di profondità.

Il Pithovirus appena scoperto, ancora attivo e in grado di infettare un’ameba, ha 30.000 anni




Immagine per gentile concessione di Julia Bartoli e Chantal Abergel, IGS e CNRS-AMU

Le profondità del permafrost siberiano sembrano offrire tesori nascosti ai ricercatori che vi si avventurano.
Se nel 2012 alcuni scienziati russi erano riusciti a far sbocciare un fiore da un seme sepolto da 32.000 anni, oggi un gruppo di ricerca dell’Università francese di Aix-Marseille di Marsiglia, ne ha estratto qualcosa di più inquietante: un nuovo “virus gigante” rimasto sepolto e indisturbato per oltre 30.000 anni.
Lo studio, guidato da Jean-Michel Claverie e Chantal Abergel e pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, ha mostrato che questo virus finora sconosciuto, a cui è stato dato il nome di Pithovirus sibericum, può riattivarsi, ovvero essere “riportato alla vita” in laboratorio.
Pur trattandosi sempre di creature microscopiche, le dimensioni del Pithovirus sono circa mille volte maggiori rispetto a quelle degli altri virus: ben 1,5 micron di lunghezza per 0,5 micron di diametro (dove un micron è un millesimo di millimetro). Vivo e vegeto Con loro stessa sorpresa, quando Claverie e Abergel hanno esposto colonie di amebe della specie Acanthamoeba castellanii al virus in laboratorio, hanno scoperto che era ancora attivo e in grado di infettare rapidamente la cellula ospite, nonostante i 30.000 anni nelle profondità del permafrost.
“ In genere i virus possono venire distrutti o resi inattivi da diversi fattori, tra cui la luce e la degradazione biochimica, ma i virus giganti, oltre alle dimensioni record, sono anche più resistenti rispetto agli altri.
Per questo un ambiente favorevole ha consentito all’esemplare appena scoperto di restare intatto per migliaia di anni. “Ambienti protetti come i sedimenti nell’oceano profondo e il permafrost sono ottimi per la sopravvivenza di microbi e virus, perché sono freddi, privi di ossigeno e bui”, continuano Claverie e Abergel. La scoperta dei virus giganti risale a una decina di anni fa, e questo decennio ha portato alla luce diversi virus grandi e geneticamente complessi, che sono stati divisi in tre diversi gruppi: Mimivirus, Pandoravirus e Pithovirus. Questo suggerisce che i virus siano molto più complessi e variegati di quanto si pensasse, e che i virus giganti potrebbero non essere così infrequenti.
Questa variabilità di corredo genetico e morfologia ha indotto anche a ipotizzare che diversi tipi di virus possano non avere un’origine comune e che si siano evoluti separatamente. Virus e cambiamento climatico È comprensibile che la scoperta di antichi virus ancora attivi susciti qualche preoccupazione. Il cambiamento climatico e le attività industriali, che hanno un impatto sul ghiaccio antico, potrebbero portare in superficie potenziali agenti patogeni per l’essere umano rimasti sepolti per milioni di anni? Secondo gli autori dello studio, sì: “Se questi strati contenessero particelle virali attive, potrebbero provocare un vero disastro”.
Prospettive Le ricerche proseguiranno per stabilire quanto questi virus costituiscano una reale minaccia. “Ora stiamo lavorando ancora per analizzare il DNA contenuto in questi campioni di permafrost in cerca della firma genetica di virus che ricordino patogeni umani”, dicono Claverie e Abergel, sottolineando che il loro obiettivo non è quello di far “rivivere” virus patogeni, ma piuttosto di determinarne i potenziali pericoli. “Se scopriremo patogeni umani, allora il rischio diventerà più concreto. Altrimenti, saremo al sicuro”.

Di Stefan Sirucek e Valentina Tudisca

tratto da - National Geographic