giovedì 21 maggio 2015
Glaucus atlanticus: il “drago blu” scoperto dal capitano Cook.
Si dice che i disegnatori dei cartoon si siano ispirati ad animali realmente esistenti e tra la vasta gamma di creature curiose che Madre Natura ci offre, ne troviamo una che sembra uscita da un manga giapponese: il “drago blu”, il cui nome scientifico è Glaucus atlanticus; un mollusco appartenente alla famiglia dei Gasteropodi, in particolare dei Nudibranchi.
Si tratta di un predatore pelagico, che si nutre di caravella portoghese (Physalis physalis), barchetta di San Pietro (Velella velella), bottone blu (Porpita porpita) e lumaca viola (Janthina janthina), dedicandosi a volte al cannibalismo.
Il Glaucus, vive galleggiando, sorretto da una bolla d’aria, a testa in giù, spinto dalle correnti marine, popolando le acque delle zone temperate e tropicali (lo possiamo trovare nell’Est e nel Sud Africa, ma anche nelle acque europee, a Est dell’Australia e in Mozambico), ha la superficie corporea (che in realtà è quella ventrale) blu o bianca-blu, mentre la superficie opposta è grigio-argento.
La sua colorazione è un tipico esempio di controilluminazione; una particolare tipologia di camuffamento, tramite la quale l’animale produce luce per eguagliare uno sfondo illuminato, come la superficie dell’oceano o il cielo.
Questo simpatico esserino, che non supera i 2-3 cm di lunghezza, è ermafrodita: al termine dell’accoppiamento entrambi gli individui producono “nastri “ di uova ed è dotato di tentacoli che prendono il nome di cerata, con funzioni di sostegno, respirazione, difesa e digestione; raggruppati in coppie, dello stesso colore del corpo.
Il Glaucus atlanticus riesce a nutrirsi di caravella portoghese senza morire, rimanendo immune alle nematocisti velenose: seleziona e immagazzina quelle velenose della sua preda, per poi farle proprie, raccogliendo il veleno in cnidosacchi posti sulle punte dei suoi cerata e, avendo la capacità di concentrare il veleno, lo rielabora in forma ancora più potente di quello della caravella.
La specie è stata scoperta durante il secondo viaggio del capitano Cook nel Pacifico, al comando dell’HMS Resolution.
L’animale è stato descritto in una pubblicazione datata 1777 dagli scienziati Johann Reinhold Forster e da suo figlio, Johann Georg Adam Forster, presenti a bordo della nave; mentre l’illustratore ed artista scozzese di storia naturale Sydney Parkinson, ha disegnato gli esemplati raccolti.
La specie ricorda da vicino l’altra unica specie della famiglia, il Glaucus marginatus.
Entrambi, infatti, galleggiano capovolti sulla superficie dell’acqua in modo che i colori blu sono, in realtà, quelli della superficie ventrale, solo che il Glaucus marginatus ha più cerata, mentre il Glaucus atlanticus ha la coda più lunga ed è più grande (il Glaucus marginatus, infatti, raggiunge solo i 17 mm di lunghezza).
Il drago blu, così strano da far invidia ai Pokemon, rielabora il veleno raccolto dalle sue prede come difesa personale e, nonostante le sue ridotte dimensioni, è uno dei pochi esseri viventi privi di predatori, forse anche grazie alla colorazione della sua pelle.
Fonte: meteoweb.eu
L'incredibile Silfio, la "pillola" dell'antichità
I Romani conoscevano diverse erbe e le loro proprietà terapeutiche e culinarie.
Tra queste il cumino, utilizzato per i disturbi della digestione e il meteorismo, la tosse e le coliche; il timo, considerato vermifugo e antisettico; i capperi, ai quali si riconoscevano, proprietà diuretiche e depurative come l'ortica, che era anche cardiotonica, antianemica, antireumatica, antidiarroica.
L'anice era utilizzato per digerire, il porro contro i calcoli renali e vescicali.
La menta era inserita nel panis militaris a lunga conservazione, destinato ai legionari, poiché aveva proprietà toniche, antisettiche, antispasmodiche.
La salvia, chiamata salvatrix, era utilizzata per diversi disturbi e per usi sia interni che esterni.
La regina, però, delle erbe era, secondo i Romani, il silfio (in greco silphion, o laserpizio, come la chiamavano i Romani.
Questa pianta cresceva a sud di Cirene e determinò la fortuna di questa città che sull'esportazione del laserpizio basò la sua economia.
Tant'è vero che la città aveva impresso, sulle proprie monete, l'immagine della preziosa pianta.
Cirene fu fondata dai Greci di Thera (oggi Santorini) nel 630 a.C. circa, sulla costa della cirenaica.
I prodigiosi effetti del silfio furono scoperti dai Cirenaici circa sette anni dopo la fondazione della città.
Del silfio/laserpizio si usava il succo, un lattice resinoso detto laser, dal sapore vagamente simile all'aglio.
Questo lattice si solidificava al contatto con l'aria, assumendo un aspetto ceroso.
Il silfio non poteva essere coltivato, si trovava solo allo stato selvaggio.
I pastori la utilizzavano come cibo per pecore e mucche, nella convinzione che facesse bene agli animali e questo, unitamente allo sfruttamento indiscriminato per le sue proprietà, fece sì che il silfio cominciasse presto a scarseggiare e poi sparire.
Il silfio, al tempo di Augusto, era oramai una rarità e per questo era pagato a peso d'oro. Nel 93 d.C., però, secondo Plinio il Vecchio, ne erano state importate 30 libbre a spese dello stato e quest'acquisto venne ricordato per oltre un secolo e mezzo, tanto la pianta era considerata preziosa.
Sempre al tempo di Plinio un esemplare della pianta fu considerato così eccezionale da farne un omaggio personale a Nerone e ancora nel V secolo d.C. il filosofo cristiano Sinesio, originario di Cirene, ringraziava il fratello per avergli donato una certa quantità di silfio.
Una volta che il silfio di Cirene scomparve, si cercò un suo sostituto.
Questo venne trovato in Medio Oriente, nel regno partico, che si estendeva dalla Persia all'Afghanistan.
Questo silfio, però, era di qualità inferiore a quello di Cirene. Venne chiamato laser Parthicus o Siriacus ed aveva un odore piuttosto penetrante.
Ben presto il nuovo silfio prese il posto del pregiatissimo laser di Cirene.
Ancora oggi il silfio è una pianta piuttosto diffusa in certe regioni dell'India meridionale con il nome di Assafetida.
Ippocrate utilizzava il succo del silfio per la cura di diverse malattie.
Del silfio ne parlano Catone il Vecchio, Strabone e Columella. Nell'antica Roma il silfio era utilizzato in dosi minime ed era molto apprezzato come condimento.
Apicio, noto esperto di cucina dell'Urbe, consigliava di metterne l'equivalente di 30 grammi in un vaso pieno di pinoli e di prendere ogni volta una trentina di questi per pestarli nel mortaio con altri ingredienti.
Gli usi più apprezzati del silfio erano quelli medicamentosi: un vero e proprio toccasana per uomini e animali.
Secondo Plinio faceva addormentare le pecore, starnutire le capre e scoppiare i serpenti.
Per gli uomini era utilizzato durante i periodi di convalescenza e in quelli di depressione, nelle digestioni difficili e nei disturbi di circolazione. Ma veniva anche applicato su ferite e piaghe ed era considerato un antidoto contro il veleno degli scorpioni e dei serpenti.
Curava il mal di gola, l'asma, l'epilessia e l'itterizia.
I Romani producevano anche gocce oculari a base di silfio, come scrive Aulo Cornelio Celso, medico romano vissuto tra il 14 a.C. e il 37 d.C.
Dai fiori del silfio si ricavava il profumo e la pianta era conosciuta anche come contraccettivo e come mezzo per procurare l'aborto.
La coppa di di Arkesilas, risalente al 560 a.C., mostra una scena che si svolge davanti ad Arkesilas (Argesilao), re di Cirene: una grande stadera e tre personaggi intenti a pesare dei sacchi. L'operazione raffigura la pesatura e la vendita di quantità di silfio. Il re presiedeva a questa operazione proprio a causa della preziosità dei tuberi commerciati e dell'importanza che questo commercio aveva per la città di Cirene.
Teofrasto di Lesbo (370-287 a.C.), nella sua "Storia delle piante", descrive il silfio simile al finocchio gigante e parla delle modalità di raccolta della pianta. Gli arabi chiamavano il silfio asa, da cui il termine asafetida, utilizzato di recente per identificare questa pianta.