lunedì 4 maggio 2015

Lo scarafaggio predatore che visse con i dinosauri


Ricordatevi il suo profilo, la prossima volta in cui vi lamenterete di un odierno, innocuo scarafaggio.
 Il fossile di un suo aggressivo avo, dal nome scientifico di Manipulator modificaputis, è stato rinvenuto in una miniera di Noije Bum, in Myanmar (Birmania): una goccia d'ambra l'ha preservato pressoché intatto fino a noi, intrappolandolo per 100 milioni di anni. 

 L'insetto, che fa parte di una nuova famiglia di scarafaggi predatori dalle abitudini notturne, è stato accuratamente esaminato da Peter Vršanský del Geological Institute di Bratislava (Slovacchia) e Günter Bechly, del Museo Statale di Storia Naturale di Stoccarda, Germania. 
 In meno di 1 cm di lunghezza racchiude i tratti del cacciatore implacabile, più simile a una mantide religiosa (con cui sembrerebbe lontanamente imparentato) che a una blatta della spazzatura. 
 Il lungo collo, sormontato da un capo triangolare con due grandi occhi, doveva servire a individuare insetti più piccoli con facilità. Un paio di occhi "extra" posizionati in cima alla testa tenevano d'occhio i predatori aerei - forse i dinosauri piumati, contemporanei all'insetto.
 Le piccole spine all'estremità delle zampe finivano la preda, che il Manipulator raggiungeva probabilmente con agguati o veloci incursioni via terra o via area (sulle tecniche venatorie dell'animale ancora si discute). 
Ciò che è certo è che «oggi non c'è nulla di simile, sulla Terra», afferma Vršanský a BBC Earth. 

 Durante il Cretaceo si evolsero diverse specie di scarafaggi predatori. Solo una di queste linee evolutive è sopravvissuta fino a oggi: quella della mantide religiosa, che ha zampe anteriori simili a quelle del fossile (a cui è filogeneticamente legata) ed è allo stesso tempo strettamente imparentata con gli scarafaggi odierni. 

 Fonte : focus.it

Consumi e sprechi delle megalopoli del mondo


Le megalopoli del mondo rendono conto del 9 per cento del consumo di elettricità globale, del 10 per cento del consumo di carburante e del 13 per cento della produzione di rifiuti solidi. 

Sono questi alcuni dei principali risultati di un ampio studio, pubblicato sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences" a firma di Christopher A. Kennedy dell'Università di Toronto, in Canada, e colleghi di un'ampia collaborazione internazionale che comprende anche la Fondazione Enel. 
La ricerca, la prima in assoluto di questo tipo, ha valutato il flusso di energia e di materiali delle 27 città del mondo che nel 2010 superavano i 10 milioni di abitanti. 
 L'urbanizzazione è uno dei fenomeni sociali più evidenti dell'ultimo secolo. Secondo le stime, dal 1900 al 2011 la popolazione urbana è cresciuta da 220 milioni di persone, pari al 13 per cento della popolazione di allora, a 3 miliardi e 530 milioni, pari al 52 per cento del totale.
 Il culmine della crescita delle città è rappresentato dalle megalopoli, definite come le aree metropolitane con più di 10 milioni di abitanti. 
Il primo dato evidente è che il numero delle megalopoli cresce costantemente: erano otto nel 1970 e 27 nel 2010 (per complessivi 460 milioni di abitanti, pari al 6,7 per cento della popolazione mondiale) e saranno 37 entro il 2020.


Pierluigi Bruno: MEGALOPOLI 

 Questa crescita delle città ha posto alcune delle sfide di sostenibilità ambientale più ardue, tanto da stimolare nuove discipline scientifiche dedicate espressamente allo studio dei flussi di energia e di materiali che coinvolgono le città, e che consentono di calcolare le emissioni di gas serra dalle città e l'efficienza delle risorse urbane.
 Kennedy e colleghi hanno analizzato le statistiche riguardanti l'uso di elettricità; il consumo di carburanti per il traffico veicolare, per il riscaldamento degli edifici e per il funzionamento degli impianti industriali; il consumo d'acqua, la produzione di rifiuti, il consumo di cemento e di acciaio. 
 Complessivamente, i flussi di materia ed energia variano notevolmente tra le diverse megalopoli, con differenze enormi tra la città più sprecona e quella più parsimoniosa in ciascuna categoria: New York, cui spettano diversi primati negativi secondo lo studio, ha un consumo pro capite di energia 28 volte più elevato di quello della città indiana di Kolkata, un consumo d'acqua pro capite 23 volte più elevato di Giacarta, capitale dell'Indonesia, una produzione di rifiuti solidi 19 volte maggiore di Dacca, capitale del Bangladesh.


Abitanti di Dacca, capitale del Bangladesh, alla ricerca di materiali recuperabili in una discarica. La città è il fanalino di coda tra le 27 megalopoli considerate per consumo di risorse, ma ha anche bassissimi indici di sviluppo economico e sociale (© Carlos Cazalis/Carlos Cazalis/Corbis)

 Un'analisi più approfondita mostra che queste sperequazioni sono il frutto delle dinamiche complesse che hanno caratterizzato l'intensa urbanizzazione sul pianeta. 
Nel mondo ricco, le megalopoli, come New York o Los Angeles, sono anche città con alti indici di produttività, in cui lo sviluppo economico e sociale è arrivato a un livello elevato con un grosso consumo di energia e di materiali.
 In questi contesti, attualmente il problema principale è rendere più sostenibile l'impiego delle risorse per mitigare gli effetti ambientali. Nei paesi in via di sviluppo, e in particolare nel Sud Est Asiatico, invece, una larga fascia della popolazione non ha un accesso a un livello minimo di risorse quali l'acqua potabile, l'elettricità, o di servizi quali una rete fognaria o una rimozione organizzata dei rifiuti.
 La priorità in questi casi è arrivare a uno standard di vivibilità in tutti i quartieri della megalopoli, anche se non mancano anche qui problemi di sostenibilità dell'impiego delle risorse: si calcola per esempio che in città come Buenos Aires o San Paolo, circa il 70 per cento dell'acqua potabile vada sprecato.

 Fonte: lescienze.it

Lo straordinario fenomeno delle "Rocce viventi"


E’ difficile immaginare una roccia capace di crescere, soprattutto perché associamo il fenomeno della crescita agli organismi appartenenti al regno vegetale e a quello animale, non certo al regno minerale.

 A circa 35 km da Ramnicu Valcea, si trova uno dei più interessanti musei della Romania, una riserva naturale trasformata in un museo a cielo aperto, il Muzeul Trovantilor.
 Le esposizioni mostrano una raccolta di pietre molto strane e misteriose chiamate trovants. 
Queste straordinarie rocce sembrano essere state scolpite da uno scultore molto abile.
 La particolarità di queste pietre è che possono essere considerate “vive“, nel senso che quando entrano in contatto con l’acqua, sono capaci di riprodursi e di crescere, proprio come un essere vivente biologico. 
Dopo uno pioggia molto intensa, i trovants partendo da strutture di 6-8 millimetri, possono arrivare a formare rocce fino a 6-10 metri di diametro.
 Inoltre, come accade per le rocce della Death Valley in California, i trovants sono capaci di spostarsi da un luogo all’altro. 
Un vero rompicapo per gli scienziati! 
Il termine trovants, in rumeno, significa “sabbia cementata” e ben descrive la forma e la consistenza di queste rocce.
 I geologi pensano che queste straordinarie pietre siano comparse nell’area circa 6 milioni di anni fa, a seguito di una qualche potente attività sismica.


I ricercatori ritengono che la causa dell’aumento delle dimensioni del volume delle pietre sia causato dall’alta concentrazione di sali minerali che si trova nell’impasto che le compone. 
Quando l’acqua entra a contatto con queste sostanze chimiche, si determina un aumento della pressione interna che genera la caratteristica crescita.




Tuttavia, nonostante gli sforzi degli scienziati, non si è riuscito ancora a trovare una spiegazione logica per la quale le rocce presentano delle ramificazioni che ricordano le radici dei vegetali, forse necessarie a raccogliere l’acqua che le tiene “in vita”. 
Se si prova a sezionare una roccia, al loro interno è possibile ammirare dei caratteristici cerchi concentrici, proprio come gli alberi. 
 Forse ci troviamo di fronte ad una nuova forma di vita di tipo inorganico.
 I residenti della zona sono a conoscenza delle trovants da sempre, ma senza avergli mai dedicato particolare attenzione. Anzi, molto spesso, queste strabilianti rocce sono state utilizzate come materiale di costruzione.
 Il Muzeul Trovantilor è gestito dall’Associazione Kogayon ed è sotto il patrocinio dell’UNESCO. 

Ancora una volta, non possiamo non meravigliarci di fronte alla bellezza e alla fantasia dell’Universo. 

 Fonte: ilnavigatorecurioso.it

Mitchell Falls: le meravigliose cascate sacre di Kimberley, in Australia


Le Mitchell Falls sono una serie di cascate che una dopo l'altra si tuffano in un profondo lago d'acqua dolce. 
Sono parte del Mitchell River National Park, uno dei luoghi più remoti dell'Australia.
 L'area è considerata sacra dagli aborigeni. Nei piccoli laghi formati dalle cascate, secondo le tradizioni più antiche, vivrebbero degli esseri sovrannaturali.
   L'area del Mitchell Plateau è una delle ultime frontiere inesplorate del mondo. 
Si tratterebbe di un vero e proprio paradiso della biodiversità, in grado di ospitare numerose specie animali e vegetali. 
Questa regione del Nord Est dell'Australia è stata abitata a lungo dalle popolazioni aborigene ed ospita ancora la comunità dei Wumambal. 
Per raggiungere le Mitchell Falls occorrerebbero almeno due ore di cammino all'interno del Parco Nazionale, che è parte della regione australiana del Kimberley. 
Le cascate rappresentano una delle attrazioni principali della zona. Il mezzo più comodo per raggiungerle è l'elicottero, ma durante la stagione secca, da maggio a novembre, è possibile attraversare a piedi la Gibb River Road.


Nel corso della stagione umida, da dicembre a maggio, l'area è interessata da piogge torrenziali e i fiumi erodono il proprio letto portando via con sé tutto ciò che incontrano lungo il percorso. Passando da un livello all'altro del terreno, e scorrendo tra le rocce, i fiumi formano delle cascate di straordinaria bellezza.




Marta Albè