venerdì 10 aprile 2015

Che buoni i cibi esotici!


La tartaruga delle Galapagos (Chelonoidis niger) ha mostrato di preferire il gusto di piante non autoctone, arrivate di recente nell’arcipelago.
 La ricerca sul campo è stata eseguita da Stephen Blake, della Washington University in St. Louis, e Fredy Cabrera, della Charles Darwin Foundation alle Galapagos.
 I due ricercatori hanno osservato le tartarughe dell’isola di Santa Cruz, un vulcano spento abitato dagli uomini, il cui terreno fertile è ampiamente utilizzato per l’agricoltura e la cui vegetazione è, in molte zone, non autoctona. 
 Piazzando dei trasmettitori GPS sui gusci delle tartarughe, è stato osservato un comportamento strano: le tartarughe migravano dalle pianure, dove la vegetazione abbonda solo nella stagione delle piogge, fino agli altipiani, che sono ricchi di vegetazione per tutto l’anno.
 Ma perché questi animali pesanti oltre 200 kg, capaci di sopravvivere anche un anno senza bere e senza mangiare, dovrebbero fare la fatica di arrampicarsi lungo le pendici di un vulcano per cercare il cibo? 
Non sarebbe meglio attendere la stagione umida? 
 Poi la scoperta: i lenti giganti amano foraggiarsi di piante non native dell’isola. 
Perché? Sono più gustose.
 Dal punto di vista delle tartarughe, la guava (Psidium guajava) locale, per esempio, produce piccoli frutti con molti semi e poca polpa, relativamente amara, protetta da una buccia spessa. 
La guava importata dal continente, invece, ha frutti più grandi, contiene più polpa, dolce, con una buccia sottile.
 La conservazione della biodiversità locale è un cruciale problema con cui si confrontano le Isole Galapagos. 
Ma è impensabile sradicare le oltre 750 specie di piante invasive ed è anche difficile il loro controllo.
 Fortunatamente, la sopravvivenza delle tartarughe non sembrerebbe messa in pericolo: la dieta ricca di piante importate sembra essere neutra o, addirittura, positiva per la loro salute. Risulta anche utile per il loro equilibrio cellulare durante la stagione secca. 


Fonte www.rivistanatura.com

Anche a Roma i sakura sono in fiore: l'Hanami e lo spettacolo dei ciliegi giapponesi all'Eur


Si rinnova al laghetto dell'Eur il rito giapponese dell'Hanami, la contemplazione dei fiori che avviene quando fiorisce il sakura (Prunus serrulata), il fiore del ciliegio e uno dei simboli più importanti della cultura giapponese.

 Daiichi Sankyo arricchisce con dei nuovi esemplari di ciliegio Yoshino la Passeggiata del Giappone nel Parco EUR, con l'obiettivo di rinnovare l'impegno nella promozione di tutte le forme di tutela ambientale.
 "Abbiamo accolto con viva gratitudine l'iniziativa di Daiichi Sankyo di contribuire alla ripopolazione della Passeggiata del Giappone, all'interno del Parco Centrale del Lago. 
Le nuove alberature sono un modo per riaffermare il rapporto di stima e amicizia che lega i nostri due Paesi e si inseriscono nel più ampio progetto di valorizzazione del patrimonio paesaggistico affidato alla tutela di EUR SpA, che quotidianamente ne cura la bellezza, il rigoglio e gli arredi urbani, permettendone la fruizione ai tanti turisti e cittadini che scelgono questo luogo anche per festeggiare l'inizio della primavera con la celebrazione dell'Hanami", commenta Pierluigi Borghini, Presidente EUR SpA




Questa suggestiva area del parco tra marzo e aprile è frequentata dai tanti giapponesi residenti a Roma e dagli amanti della cultura giapponese che non rinunciano a festeggiare in kimono la loro Hanami, in Giappone una tradizione millenaria che consiste nel godere dello spettacolo della fioritura dei ciliegi che per circa due settimane tinge di rosa il Paese del Sol Levante, partendo dal sud del Kyushu alla fine di marzo, per poi toccare Tokyo i primi di aprile e giungere infine verso metà maggio a colorare l'Hokkaido settentrionale.


Durante la notte, l'Hanami continua trasformandosi in Yozakura, "La notte del Ciliegio", nell'ancor più suggestiva atmosfera creata dal bagliore lunare e dalle lanterne di carta accese.

 Fonte: greenme.it

Il culto della dea Mefite nella valle dell'Ansanto (AV)

Qui si mostra un’orrenda spelonca e gli spiragli del crudele Dite… Questa è la Mefite, una delle porte dell’Inferno”. 
Virgilio, Eneide, VII.


Nell’immaginario degli antichi numerose zone della Campania, per la loro natura vulcanica, furono associate al mondo degli Inferi. 
 C’è un luogo in particolare che, ancora oggi, rende facile capire come questo sia stato possibile: la valle dell’Ansanto descritta anche da autori come Cicerone, Diodoro Siculo e Dante Alighieri. In questo luogo è possibile vedere un lago di acque sulfuree da dove fuoriescono velenose emissioni di gas.


Mefite era una divinità adorata dagli italici perché propiziava buoni raccolti.
 Era però considerata anche una specie di tramite tra la vita e la morte, assumendo su di sé gli aspetti di altre divinità come Venere e Cerere. 

 In genere i luoghi di culto di Mefite si trovavano vicino a sorgenti d’acqua come nel caso di Tivoli.
 Forse, dopo la conquista da parte dei Romani delle zone dell’area osco-sabellica, Mefite fu associata solo alla presenza delle acque sulfuree che potevano avere proprietà curative. 
 A Roma un tempio dedicato Mefite fu eretto sull’Esquilino nel III sec. a. C. all’interno di un bosco sacro.

 Nella valle dell’Ansanto Mefite fu venerata dal IV sec. a. C., fino alla prima età imperiale, come dimostrato dai ritrovamenti di ex voto e monete lasciate nel fiume. 
 Famosi ex voto sono gli xoana e si datano al V sec. a. C. Si tratta di statue di legno perfettamente conservate, ma se ne ricorda in particolare una, asessuata, ma dotata di una particolare espressività.


Con l’avvento del Cristianesimo il culto fu abbandonato a favore di quello dedicato a Santa Felicita. 

 Chi oggi volesse visitare il lago della Mefite deve farlo con grande cautela a causa delle esalazioni venefiche e trattenersi il meno possibile.

 fonte: antika.it