lunedì 9 febbraio 2015
La lumaca di mare Elysia chlorotica : un ibrido animale - vegetale
La lumaca di mare Elysia chlorotica non solo somiglia ad una foglia, ma è anche di un verde brillante ed è in grado di assorbire anidride carbonica e di restare viva per mesi senza cibo, almeno fino a quando il laboratorio che la ospita è ben illuminato.
Come esattamente questa nudibranco, chiamato comunemente elysia verde smeraldo, riesca ad ottenere l’energia solare di cui ha bisogno è una domanda che gli scienziati stanno facendosi da decenni, ma ora il puzzle delle ricerche sembra quasi completato e quello che ne viene fuori è davvero sorprendente: un ibrido animale-vegetale.
Secondo lo studio “FISH Labeling Reveals a Horizontally Transferred Algal (Vaucheria litorea) Nuclear Gene on a Sea Slug (Elysia chlorotica) Chromosome”, pubblicato su The Bulletin Biologica da un team dal Marine Biological Laboratory del Woods Hole, «La lumaca ruba i geni dalle alghe che mangia».
Gli scienziati del Woods Hole dicono che «Questi geni contribuiscono a sostenere i processi fotosintetici all’interno della lumaca e gli forniscono tutto il cibo di cui ha bisogno.
È importante sottolineare che questo è uno dei soli esempi noti solo di trasferimento genico funzionale da una specie multicellulari all’altra, che è l’obiettivo della terapia genica per correggere malattie su base genetica nell’uomo».
Uno degli autori dello studio, Sidney K. Pierce, professore emerito alle università del South Florida e del Maryland, si chiede «Una lumaca di mare è un buon modello biologico per una terapia umana?» e risponde: «Probabilmente no. Ma capire il meccanismo di questo trasferimento naturale di geni potrebbe essere molto istruttivo per applicazioni mediche future».
Per confermare che un gene dall’alga V.litorea è presente nel cromosoma del nudibranco E. chlorotica , Il team ha utilizzato una tecnica di imaging avanzata e spiega che «Questo gene produce un enzima che è fondamentale per la funzione delle “macchine” della fotosintesi chiamate cloroplasti, che sono tipicamente presenti nelle piante e nelle alghe».
Già negli anni ’70 si sapeva che l’E. chloritica “ruba” i cloroplasti alla V. litorea – un fenomeno chiamato “Cleptoplastia” – e li incorpora nelle sue cellule digestive.
Una volta all’interno delle cellule della lumaca i cloroplasti continuano a fare la fotosintesi fino a 9 mesi, molto più a lungo di quanto lo farebbero in un’alga.
La fotosintesi produce carboidrati e lipidi, che nutrono la lumaca».
Per anni (e con molte polemiche scientifiche) si è studiato come la lumaca di mare verde riesce a mantenere questi organelli fotosintesi per così tanto tempo.
A complicare le cose era stato un esperimento condotto da un team tedesco-olandese all’università di Dusseldorf .
Infatti lo studio “Plastid-bearing sea slugs fix CO2 in the light but do not require photosynthesis to survive”, pubblicato su Proceedings of the Royal Society B il 20 novembre 2013, sottolinea che «Molti nudibranchi sacoglossan (Plakobranchoidea) si nutrono di plastidi di grandi alghe unicellulari.
Quattro specie – chiamate specie long-term retention (LtR) – sono note per sequestrare i plastidi ingeriti all’interno delle cellule specializzate della ghiandola digestiva.
Lì, i plastidi rubati (cleptoplastia) rimangono fotosinteticamente attivi per diversi mesi, durante i quali le specie LtR possono sopravvivere senza ulteriore assorbimento di cibo.
La longevità dei cleptoplastidi è stato a lungo un rompicapo, perché le lumache non sequestrano nuclei di alghe che potrebbero sostenere la manutenzione del fotosistema. È opinione diffusa che le lumache sopravvivano alla fame mediante la fotosintesi cleptoplastica, ma le prove dirette a sostegno di questo punto di vista sono carenti».
Il team tedesco-olandese però aveva dimostrato che due plakobranchidi LtR, Elysia timida e Plakobranchus ocellatus, «incorporano 14CO2 in prodotti acidi stabile rispettivamente 60 e 64 volte più rapidamente alla luce che al buio» e che «Nonostante questa capacità di fissazione della CO2 dipenda dalla luce, sorprendentemente, la luce non è essenziale per le lumache per sopravvivere alla fame.
Animali LtR sono sopravvissuti a diversi mesi di digiuno, al buio completo e nella luce in presenza dell’inibitore della fotosintesi monolinuron, tutto senza perdere peso più velocemente rispetto agli animali di controllo.
Contrariamente alle opinioni correnti, i cleptoplastidi sacoglossan sembrano digerire lentamente le riserve di cibo, non una fonte di energia solare».
Ma ora Pierce dice che il nuovo studio cambia ulteriormente le cose: «Questo documento conferma che uno dei diversi geni algali necessarie per riparare i danni ai cloroplasti e mantenerli funzionanti è presente sul cromosoma della lumaca.
Il gene è incorporato nel cromosoma della lumaca e trasmesso alla generazione successiva di lumache.
Mentre la prossima generazione dovrà nuovamente assumere i cloroplasti delle alghe, i geni per mantenere i cloroplasti sono già presenti nel genoma della lumaca.
Non c’è nessun modo sulla terra perché i geni di un’alga possano funzionare all’interno di una cellula animale.
Eppure qui lo fanno. Permettono all’animale a fare affidamento sul sole per la sua alimentazione.
Quindi, se succede qualcosa alla sua fonte di cibo, ha un modo per non morire di fame fino a quando non trova le alghe da mangiare. Questo adattamento biologico è anche un meccanismo di rapida evoluzione.
Quando si verifica un trasferimento di successo di geni tra specie, l’evoluzione può avvenire sostanzialmente da una generazione all’altra, piuttosto che su una scala di tempo evolutivo di migliaia di anni».
Fonte: http://www.greenreport.it
Tibet, la rete di trafficanti che fa affari con tigri e serpenti
Il commercio di animali pregiati è un business che vale 20 miliardi di dollari l’anno.
In diverse parti dell’Asia conviene di più trafficare in tigri che in droga.
Uno degli snodi centrali di questo mercato internazionale è la capitale spirituale del buddhismo, Lhasa, in Tibet, come documentato di recente da una studiosa della City University di Hong Kong.
I clienti convergono a Lhasa da tutto il mondo per comprare pelli, ossa e persino il pene dei felini.
Le tigri sono una delle specie a maggior rischio di estinzione, non solo a causa dei cambiamenti del loro habitat naturale, ma anche per effetto del crimine organizzato.
Cento anni fa vi erano centomila esemplari nel mondo. Oggi ne sono rimasti meno di tremila, la maggior parte in India.
Nonostante la «Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione» sia stata firmata da 180 Paesi, i trafficanti continuano il loro disdicevole commercio per soddisfare clienti in Asia, Europa e Stati Uniti. Me ne sono accorto io stesso quando, due anni fa, sono atterrato all’aeroporto di Dali, una città nella provincia cinese dello Yunan.
Lo scopo del mio viaggio era raggiungere il confine con la Birmania, per raccogliere dati sul traffico della droga tra il Triangolo d’Oro (Birmania, Laos e Thailandia) e la Cina.
La sala dove arrivavano i bagagli era piena di militari e di guardie di frontiera accompagnate da unità cinofile. I cani sembravano impazziti, presumevo io, perché alla ricerca di sostanze stupefacenti.
Mi sbagliavo. Quei labrador erano stati addestrati per individuare pellicce, corna di rinoceronte, avori, coccodrilli, pangolini, serpenti, civette, tartarughe, lucertole pregiate e altre specie protette.
Un macabro zoo di animali morti si celava in quelle valigie.
Quando siamo arrivati a Ruili, una città al confine con la Birmania, abbiamo scoperto che nel nostro albergo si erano tenuti di recente banchetti a base di tigre.
Non solo la carne è considerata un cibo prelibato, ma il sangue dell’animale è usato per fermentare il vino. Chi lo beve diventa più virile, sembrano credere molti cinesi.
Nel gennaio di quest’anno, la polizia della Repubblica Popolare ha arrestato un organizzatore di questi banchetti, un tal Signor Xu. Un cliente ha filmato la cena sul cellulare e l’ha diffusa su Internet. È stato facile per le autorità risalire alla mente dell’organizzazione, che ora rischia 13 anni di galera.
Ogni parte del corpo del felino viene sfruttata.
Con le ossa si fanno dei souvenir, mentre artigli, teschi e canini sono regali molto ambiti, al prezzo di 2.000 euro al chilo.
Le feci sono usate per curare le emorroidi, mentre il pene diventa un ingrediente di deliziose minestre, le quali ovviamente aumentano la potenza sessuale.
A Ruili due anni fa vi era anche la dottoressa Rebecca Wong, che oggi insegna alla City University of Hong Kong, dove si occupa del traffico illegale di specie protette. «Dopo il mio soggiorno a Ruili - mi racconta oggi - ho proseguito per la capitale del Tibet, Lhasa, dove i grandi felini arrivano dall’India, attraverso la città di Ladakh». Una volta entrati in Tibet, i bracconieri vendono la merce ai trafficanti che operano nella città tibetana di Shiquanje, non lontano dal confine, e questi a loro volta la portano a Lhasa. La piazza di Barkhor è il cuore della più famosa città tibetana, meta di ogni turista, con centinaia di bancarelle che offrono tappeti, costumi tradizionali e testi buddhisti.
La presenza delle forze dell’ordine è ingente, non solo ad altezza d’uomo: sulla terrazza di un palazzo all’ingresso della piazza si può notare una postazione di militari che osserva la folla.
Questo è anche il luogo dove la compravendita di tigri procede indisturbata.
Vi sono due tipi di clienti a Lhasa. I tibetani che acquistano le pelli per decorare il loro costume tradizionale (il chupas), e i compratori che vengono dalla Cina, da Hong Kong, da Taiwan e dall’Occidente.
Dopo il Messico, la Repubblica Popolare è la fonte principale di specie protette per il mercato americano.
In città vi sono due reti di venditori, una di etnia musulmana (gli Hui) e una di etnia tibetana, ovviamente in feroce competizione tra loro.
Sembra che i tibetani siano leggermente discriminati: hanno meno merce e i prezzi sono più alti. Inoltre tendono ad avere come clienti membri dello stesso gruppo etnico.
Sia tibetani che musulmani fanno riferimento a un fornitore unico ciascuno, il quale a sua volta tiene i rapporti con i bracconieri. Il numero di persone coinvolte nei due network non supera la cinquantina, e tutti vendono anche altri prodotti.
Le transazioni avvengono quasi alla luce del sole: per attirare i clienti, i venditori mettono su una rastrelliera pelli di volpi o di pecora fuori da negozi la cui insegna è spesso tradotta in un inglese improbabile (ad esempio, Public Useful Carpet Shop).
Il compratore straniero entra e fissa un appuntamento per visionare la mercanzia nel magazzino del fornitore, che si trova non lontano dalla piazza.
«Io stessa sono andata in uno di questi magazzini - racconta Wong -. Alle pareti erano scritti centinaia di numeri telefonici.
Il fornitore era molto orgoglioso del suo lavoro e si vantava di non aver mai raggirato nessuno.
“Una buona reputazione è la moneta più importante nel commercio”, ha ripetuto più volte.
Infatti sono più di vent’anni che fa questo mestiere.
Attorno a noi erano accatastate pelli di leopardo, di antilope e di tigre. Ognuna del valore di circa 900 euro».
Il magazzino si trova in un appartamento proprio di fronte a una caserma e molti ufficiali sono clienti fissi.
Il fornitore non ha alcun timore di essere scoperto. La sua preoccupazione maggiore è che una cicca mandi in fumo le pelli accatastate nelle tre stanze.
Una volta fatta la propria scelta, il cliente può mettersi la merce in valigia.
Oppure, per pochi soldi, il negozio si incarica di spedire il pacco per posta. Sembra che il servizio postale cinese sia altamente affidabile. Secondo Wong, il numero di bracconieri e trafficanti arrestati è ancora irrisorio e le pene non sono sufficienti a scoraggiare i colpevoli.
Inoltre, la frontiera tra India e Tibet è troppo poco sorvegliata.
Qualche buona notizia arriva dall’India. Il numero di tigri in quel Paese è cresciuto di cinquecento esemplari negli ultimi tre anni. Questo aumento è dovuto alla creazione di riserve dove l’habitat degli animali viene protetto da una nuova forza di polizia specializzata contro i bracconieri.
La Cina dovrebbe seguire lo stesso esempio. E soprattutto dovrebbe dar inizio a una rivoluzione cultuale pacifica, per convincere i cittadini di quel Paese che il modo migliore per dimostrare di essere uomini è lasciare in pace gli animali.
Federico Varese
Il villaggio delle volpi
Un villaggio interamente dedicato alle volpi.
Si trova in Giappone, terra che come abbiamo già raccontato ospita anche l'isola dei conigli e quella dei gatti.
Un posto isolato e da sogno, in inverno ricoperto da una soffice neve. L'ideale per una creatura schiva come la volpe.
E' lo Zao Fox Village, situato tra le montagne nei pressi di Shiroishi, nella prefettura di Miyagi.
Qui vivono 100 volpi, libere di muoversi e giocare.
Il parco è aperto al pubblico. Per 100 yen (circa 50 centesimi) i visitatori possono godersi lo spettacolo offerto da questi simpatici animali, ammirando nel frattempo il panorama regalato dai monti circostanti.
Il villaggio richiama molti giapponesi anche perché questi animali sono popolari nei racconti e secondo la tradizione hanno anche poteri mistici o sono messaggeri di divinità o simbolo della fertilità. Dietro la distesa di alberi e cespugli ecco apparire volpi di tante varietà e colori.
Alcune si avvicinano zampettando, incuriosite dai visitatori e speranzose di ricavare un po' di cibo, altre invece si allontanano guardinghe.
I guardiani consigliano sempre di non avvicinarsi troppo a loro e di ammirarle da lontano mentre si muovono in libertà.
Sembrerebbe tutto bello anche a giudicare dalle immagini che ritraggono questi splendidi animali, ma c'è un segreto.
Chi ha visitato il villaggio ha scoperto che non tutte le volpi sono libere.
Un paio di esemplari occupano una sorta di zoo allestito per i visitatori, insieme a conigli, pony e capre.
Davvero un gran peccato.
Fonte: greenme.it