lunedì 30 novembre 2015

L’uccello del Paradiso


Le strelitzie (questo è il nome botanico) vengono coltivate in Europa già dal 1700, quando vennero introdotte nei giardini botanici di Kew, nel Regno Unito; il loro nome infatti dimostra come lo scopritore di tali piante volle fare un omaggio alla Regina Carlotta, duchessa di Mecklemburg-Strelitz; da qui il nome bizzarro, spesso in Italia pronunciato sterlizia, forse perché la sua sonorità sembra più dolce con questa pronuncia.

 Si tratta di piante perenni, appartenenti alle musacee, ovvero parenti strette dei banani, originarie dell’Africa meridionale, luogo da cui sono partite moltissime piante, alla scoperta del globo intero, ormai diffusissime in certi luoghi, tanto da essere considerate autoctone; in effetti la Strelizia è diffusa ormai in gran parte dell’America centrale e meridionale, in Asia, in Europa ed in Australia, e viene spesso utilizzata come pianta da giardino, a formare ampie siepi. 

 Come per il banano, si tratta di una pianta erbacea perenne, sempreverde, che si sviluppa da agosto-settembre, fino ai caldi estivi, quando va in semi riposo vegetativo, quando le temperature sono molto alte e l’aria molto asciutta. 
Le radici sono carnose e formano spesso un tozzo rizoma, da cui si dipartono direttamente i lunghi piccioli rigidi, che portano grandi foglie verdi, coriacee, ricoperte da uno strato pruinoso che le rende bluastre. 
Una lunga foglia ben sviluppata può raggiungere i 150-200 cm di lunghezza, sviluppandosi dapprima eretta, per divenire con l’età leggermente arcuata.
 Le piante giovani producono soltanto grandi foglie, solo verso i 3-5 anni di età tra le foglie si ergono fusti carnosi, che portano le strane infiorescenze, simili a teste di uccello.

 La specie più diffusa in Italia è strelitzia reginae, che presenta infiorescenze sottese da una spata rigida verde, simile ad un lungo becco, sovrastata da alcuni fiori con petali arancioni e blu, il tutto a formare una specie di ciuffo; la specie strelitzia nicolai invece ha spate brune o violacee, e fiori bianchi o crema. I fiori negli esemplari adulti sbocciano a partire da settembre-ottobre, e spesso continuano a sbocciare o permangono sulla pianta fino a primavera.




Ulteriori informazioni su: Strelizia - Piante da Giardino - Strelizia alba http://www.giardinaggio.it/giardino/piante-da-giardino/strelizia.asp#ixzz3sxzZoXF5

La Ventanilla, Messico: il barca tra tartarughe, coccodrilli e iguane a due passi dall'oceano Pacifico


La costa pacifica dello stato messicano di Oaxaca richiama alla mente di molti probabilmente solo la più nota Puerto Escondido, destinazione di surferos più o meno avventurosi da ogni angolo del mondo.
 Questa regione offre in realtà uno dei tratti costieri più incontaminati di tutta la regione mesoamericana al nostro viaggiatore 'in punta di piedi', che non disturba con la sua presenza. Un viaggiatore che ama ricevere e allo stesso tempo lasciare vibrazioni positive per gli animali, le piante e la gente del luogo. 

‘La Ventanilla’ è il nome della meravigliosa spiaggia, dell’ecosistema umido e di mangrovie integrato nonché dell’omonimo piccolo centro abitato la cui popolazione locale, dopo anni di sopravvivenza attraverso la vendita della pelle di coccodrillo e delle uova di tartaruga, specie autoctone in via d’estinzione, ha ormai da qualche anno fortunatamente abbandonato tali pratiche per abbracciare iniziative di conservazione ambientale. 
Attraverso la gestione diretta di attività di educazione e divulgazione ambientale, la comunità locale garantisce così il proprio sostentamento e sviluppo, contribuendo attivamente alla protezione dell’ecosistema di mangrovie e della sua ricca e fragile biodiversità, offendo ai turisti l’opportunità di immergersi in questa natura fantastica.


Una spiaggia che sembra non avere fine, percorrerla a piedi è fare i conti con la luce accecante del sole che si specchia sulle onde aggressive dell’oceano Pacifico, respirare a pieni polmoni il sapore di selvaggio affondando i piedi nella sabbia bollente che neppure la notte riesce a raffreddare.
 Il tour della zona umida si fa in lancha, una piccola imbarcazione a remi, con una delle giovani guide locali. 
La foresta di mangrovie che caratterizza la zona umida si sviluppa a pochi metri dal mare, il punto di partenza si raggiunge a piedi e, nell’attesa che si liberi un'imbarcazione, il silenzio, rotto solo da qualche coccodrillo che si avventura al limite dello specchio d’acqua, è affascinante.
















Le guide locali hanno imparato tutto sul prezioso ecosistema delle mangrovie e sulla sua biodiversità: uccelli come il picchio rosso e il martin pescatore, il coccodrillo lagarto real, l'iguana, la tartaruga d'acqua salmastra, tutte specie che vivono nella laguna e che il tour in lancha vi farà ammirare senza spaventarle.
 Niente motori sulle imbarcazioni, si parla a voce bassa e si procede lentamente per non rischiare di rompere le radici preziose delle mangrovie che contribuiscono a mantenere elevata la qualità dell’acqua della laguna, i cui nutrienti sono essenziali per tutte le specie presenti.
 La guida racconta appassionata di quando se rompen las barras, quando cioè, in tempo di piogge, il mare si unisce con la laguna, e una immensa varietà di crostacei e microorganismi la invade, consentendone la sopravvivenza.
 

Fonte: http://www.greenme.it

sabato 28 novembre 2015

venerdì 27 novembre 2015

L'Uroplatus Phantasticus, il geco satanico dalla coda a foglia


Questa particolare specie appartenente al genere degli Uroplatus, comunemente detta “geco satanico dalla coda a foglia” vive tra le foreste del Madagascar, mimetizzata tra gli alberi.
 Le sue principali risorse evolutive sono, neanche a dirlo, la forma e il colore. Quando perfettamente immobile, infatti, si trasforma nella perfetta imitazione di una foglia secca, persino un po' mangiucchiata dai parassiti. 
Per questo passa intere giornate appeso a testa in giù, in attesa del momento giusto per balzare all’attacco. 
Se minacciato, si appiattisce sulla corteccia per nascondere la sua ombra e spalanca la bocca dall’interno rosso fuoco, con la precisa finalità di spaventare gli eventuali predatori.
 Il naturalista belga George Albert Boulenger (1858 – 1937) fu talmente colpito dall’avvistamento improvviso di questo animale che arrivò a considerarlo un prodotto della sua fantasia, attribuendogli il suffisso latino di phantasticus (immaginario).



Come tutti i suoi vicini biologici della famiglia gekkonidae, inclusi quelli che abitano la penisola italiana, il geco satanico è di abitudini notturne e si nutre prevalentemente di insetti, benché non disdegni occasionalmente di consumare nettare o frutta di vario tipo.
 Lui, però, a differenza dei cugini europei può raggiungere la rispettabile lunghezza di 15 cm circa, inclusa l’incredibile coda piatta e sfrangiata, un’elemento che lo accomuna agli altri gechi del suo ambiente naturale. 
In caso di necessità quest’ultima può essere abbandonata dall’animale, ricrescendo dopo qualche settimana.
 Questo geco presenta anche un’altra singolare caratteristica, un po' inquietante: il maggior numero di denti sottili ma tremendamente affilati.
 Dote che sfrutta ogni notte quando, al calare delle tenebre, inizia la sua famelica ricerca di grilli, falene o cavallette da fagocitare, voracemente, proprio come il piccolo drago cui tanto rassomiglia nell’aspetto.








Purtroppo, lo sfruttamento fuori controllo delle foreste tropicali, ambiente naturale dell’Uroplatus Phantasticus, e le difficoltà incontrate nell’allevarlo in cattività lo hanno reso una creatura a rischio d’estinzione.
 Il WWF l’ha classificato tra i 10 animali più ricercati al mondo dai collezionisti, ed avere un suo esemplare nel terrario costituisce un’ambizione di molti appassionati di erpetologia. 
Ciò purtroppo ne alimenta il commercio abusivo, pericolo ulteriore per la sua sopravvivenza. 

 Tratto da http://www.jacoporanieri.com/

Palmira: quel che resta della “sposa del deserto” dopo la distruzione dell’Isis


Palmira fu un vitale centro carovanico, tanto da essere soprannominata “La sposa del deserto” per i viaggiatori e i mercanti che attraversavano il deserto siriano, punto di passaggio tra Occidente e Oriente… una città bellissima grazie alla sua posizione strategica, lungo la cosiddetta “scorciatoia del deserto”; una via che conduceva dal Golfo Persico fino al Mediterraneo.
 Qui, fin da epoca lontanissima, sostavano le carovane che trasportavano merci dalla Mesopotamia, dall’India e perfino dalla Siria.
 Ma il nome Palmira è legato soprattutto ad una figura femminile: la regina Zenobia, moglie di Odenato, sovrano della città. 
Si trattava di una donna bellissima, molto ambiziosa che, dopo l’assassinio del marito, nel 267 d.C., prese il potere al posto del loro figlio Vabalathus. 
Roma rifiutò di riconoscere questo processo, anche perché Zenobia era sospettata di aver preso parte all’assassinio del marito. L’imperatore Valeriano, però, inviò un’armata per trovare un accordo con la regina.


Zenobia si scontrò con le truppe romane e le sconfisse; conducendo, poi, le sue legioni, contro la guarnigione di Bosra, allora capitale della provincia d’Arabia, invadendo con successo l’Egitto. Impossessatasi di tutta la Siria, di tutta la Palestina e di parte dell’Egitto, Zenobia (che sosteneva di discendere da Cleopatra) dichiarò indipendenza da Roma, coniando in Alessandria monete con impressa la sua immagine e quella del figlio, che assunse il titolo di Augusto (Imperatore).

 Aureliano, dopo aver sconfitto le truppe di Zenobia in Antiochia e a Homs nel 271 d.C., assediò Palmira. 
Zenobia venne mandata a Roma come trofeo nel 272 d.C., dove affrontò la parata di trionfo di Aureliano, legata in catene d’oro. Successivamente, liberata, sposò un sentore romano, vivendo i suoi giorni a Tivoli. 
Fu nel 634 d.C. che la città uscì dai libri di storia, cadendo nelle mani di un’armata guidata da Khaled Ibn-al-Walid. 
Nel 1751, il viaggiatore inglese R.Wood, riscoprendo i resti di questa città spettacolare, scrisse:
 “scoprimmo allora in un solo momento la più grande concentrazione di rovine, tutte di marmo bianco, che ci fosse mai capitato prima di vedere”. 
Poco più tardi, invece, un filoso francese, Costantin Francois, avventuratosi fino a Palmira “per interrogare i monumenti antichi sulla saggezza dei tempi perduti” arrivò ad affermare, lui stesso incredulo, che : 
“l’antichità nulla ci ha lasciato né in Italia né in Grecia che sia comparabile alla magnificenza delle rovine di Palmira”.


Dalla fine dell’800 in poi, grazie a pazienti lavori di ricerca e di restauro, dalla sabbia sono emersi spettacolari monumenti che hanno attraversato i secoli, resistendo a devastazioni e terremoti, costituendo un’area di 140 ettari, Patrimonio Unesco dal 1980. Stupendo il Tempio di Baal, edificio religioso dedicato al dio fenicio Baal, assimilato al greco Zeus, edificato nel I secolo d. C, consacrato tra il 32 e il 38; mentre il colonnato e i propilei sono stati innalzati alla fine del III secolo. 
Il recinto sacro, di forma quadrangolare, è molto ampio, misurando 205 X 210 metri, contornato da un alto muro di cinta esterno, affiancato da un portico sorretto da un doppio colonnato. 
Il tempio ha due nicchie, una rivolta a sud ed una a nord, contenente, quest’ultima, la triade di divinità di Palmira (Baal, Yarhibol (Sole) e Agribol (Luna)). 
Numerosi sono i bassorievi con immagini di frutta offerta al Dio e, in primo piano, una palma, simbolo di Palimira.

 La via colonnata inizia di fronte l’ingresso del Santuario di Baal ed il suo primo tratto si conclude con l’arco severiano, a 3 fornici. Le colonne presentano mensole su cui venivano poste delle statue, con carreggiata larga 11 metri, affiancata da due portici di 7 metri.
 A Palmira sorgevano le terme di Diocleziano, non mancavano un luogo d’incontro come l’agorà e un teatro romano, edificato nella seconda metà del II secolo, utilizzato per spettacoli, con una buona sonorizzazione che permetteva di sentire l’eco della propria voce se posti nel centro dello spazio che veniva occupato dall’orchestra. Sulla collina che domina il sito archeologico, il castello.

 L’Isis ha conquistato Palmira a maggio. 

Ad agosto inizia l’opera di distruzione iconoclasta.


Il 19 agosto l’orrore assoluto: i miliziani decapitano l’antico custode della città della regina Zenobia, l’82enne archeologo Khaled Assad. 
Poi, in rapida successione, il 23 agosto, l’Isis fa saltare in aria prima il tempio di Baal Shamin, poi il 30 è la volta del monumento icona di Palmira, il tempio di Bel.
 Il 5 settembre tocca alle tombe a torre di epoca romana e, il 5 ottobre, l’arco di trionfo viene fatto saltare in aria, ridotto in polvere dai miliziani.






Fonte: meteoweb.eu

L'antico ginko biloba perde le foglie e trasforma il prato in un manto dorato


Vanta tantissimi primati perché oltre a essere di una straordinaria bellezza, questo ginko biloba è uno dei più antichi al mondo, esiste infatti da 1400 anni.

 Proprio in questi giorni, questo ginko che cresce all’interno delle mura del tempio buddista di Gu Guanyin, nelle montagne Zhongnan Shan in Cina, ha attirato migliaia di turisti da tutto il mondo, curiosi di vedere uno spettacolo davvero sorprendente: perdendo le sue foglie colorate di giallo intenso, la pianta ha creato un prato dorato.

 A giudicare da queste immagini sembra proprio una perfetta rappresentazione dell’autunno.






Dominella Trunfio

giovedì 26 novembre 2015

Il quokka, "l'animale più felice del mondo", è a rischio estinzione


Lo chiamano "l'animale più felice del mondo": che lo sia davvero oppure no, la sua espressione lieta ha fatto meritare al quokka tale soprannome. 
Singolare l'appellativo, singolare il nome (quokka è una parola derivante dall'idioma degli aborigeni australiani, probabilmente), singolare anche l'aspetto: la prima volta che un marinaio lo avvistò, nella seconda metà del XVII secolo, pensò di trovarsi dinanzi ad un gatto selvatico; in seguito l'esploratore olandese Willem de Vlamingh lo scambiò per un grosso topo e battezzò l'isola in cui è diffuso Rottnest, ossia "nido di topi" nella sua lingua. 
A ben guardarlo, però, il quokka ricorda anche un canguro e, con quella sorta di sorriso beato che porta sempre dipinto sul musetto, si è guadagnato l'amore di tutti gli esseri umani che restano incantati ad ammirarne le goffe fattezze.




La sua simpatia, però, non lo ha messo al riparo dal pericolo di estinzione, ricorrente tra i mammiferi dei tempi moderni: tant'è che questo piccolo marsupiale endemico di una ristretta area dell'Australia occidentale sta vedendo la propria popolazione assottigliarsi progressivamente nei territori in cui ha sempre vissuto.
 Attualmente, infatti, il quokka si trova nella lista rossa dell'Unione internazionale per la conservazione della natura, classificato come vulnerabile: che è lo status meno grave ma, comunque sia, degno della massima preoccupazione.
 Sebbene la specie Setonix brachyurus (questo il suo nome scientifico) sia protetta, il quokka sta diventando sempre più raro: può godere di una relativa tranquillità su alcune isole, prima tra tutte quella di Rottnest, dove si aggira tra la boscaglia più selvaggia o tra le radure coltivate e dove è stata del tutto estirpata la presenza di animali di provenienza esterna, come gatti e volpi, i quali ne metterebbero in pericolo la sopravvivenza a causa delle loro abitudini predatorie. 
 Ma allora, cosa lo minaccia?
 Manco a dirlo, il suo problema principale deriva proprio dagli uomini: il suo aspetto da piccolo canguro che lo rende amabile agli occhi di tutti, in effetti, è attualmente anche la ragione dei suoi problemi. 
L'isola di Rottnest è una frequentata meta turistica ormai da decenni, conosciuta dagli australiani come dal resto del mondo: in tanti si recano presso le sue sponde, anche per una visita giornaliera, con l'obiettivo di ammirarne i paesaggi e, naturalmente, i suoi quokka! 
Il quokka è particolarmente socievole, non teme gli uomini né può costituire in alcun modo un pericolo per essi: tuttavia la salute del suo organismo viene sempre più minata dall'abitudine diffusa di regalare a questo animale cibi inappropriati.
 In particolare, il marsupiale è estremamente ghiotto di pane, alimento che fa particolarmente male al suo metabolismo: da qui la recente introduzione di norme che vietano di dar da mangiare all'animale e che multano i trasgressori.

 In ogni caso, il problema del quokka che ne potrebbe determinare la sparizione è assai più ampio: innanzitutto, la ristrettezza del suo areale non lo aiuta. Oltretutto, nelle zone continentali in cui risiede patisce effettivamente la minaccia dei predatori, sia di quelli naturali come i dingo, sia di quelli introdotti dagli europei nei secoli scorsi come gatti, cani e volpi.
 Per il quokka l'ideale sarebbe trovare rifugio nelle zone più boscose, proteggendosi nella fitta vegetazione e sui rami degli alberi dove riesce ad arrampicarsi, seppur goffamente: ma l'agricoltura ha ridotto notevolmente le zone più selvatiche, assestando l'ennesimo colpo all'animaletto che, evidente, adesso non ha molto da essere felice.

 Fonte: http://scienze.fanpage.it/

Tragico disastro ambientale in Brasile: la situazione è gravissima


Lo scorso 5 novembre il Brasile è stato colpito da una tragedia ambientale senza precedenti.
 Gli argini di due dighe trasportanti liquidi di scarto industriale altamente tossici hanno ceduto, riversando nel Rio Doce 60 milioni di metri cubi di sostanze inquinanti.
 Fanghi ferrosi contaminati da arsenico, piombo, cromo ed altri metalli pesanti hanno invaso la città di Mariana, continuando l’inarrestabile corsa di 500 km trasportati dalle acque del fiume fino alla sua foce: acqua e terreni circostanti, foreste, aree protette, campi agricoli, case, habitat sensibili – tutto è stato ricoperto dal fango tossico.

 La responsabile di tale incalcolabile disastro è la ditta Samarco Mineracao Sa, la quale è controllata dalla anglo-australiana Bhp Billiton e dalla brasiliana Vale, entrambi colossi delle miniere.
 Una colpevolezza ingiustificabile, se si considera che l’azienda non era nemmeno dotata di sistemi di allarme ed evacuazione in caso di possibile incidente! 
Inoltre sembrerebbe che la causa del cedimento sia dovuta ai recenti lavori di ampliamento del canale: al momento del crollo alcuni operai erano all’opera per allargare la diga così da poter trasportare più materiale tossico, scarti prodotti sia dalle miniere locali che da quelle più distanti, in vista del continuo aumento della produzione. 
 Questa regione infatti è ricca di minerali: è qui che viene prodotto il 10% del ferro di tutto il Brasile ed è questa la ragione per cui il Rio Doce ad oggi appare come una enorme pattumiera a cielo aperto, anche se decenni fa il fiume era immerso nella foresta amazzonica; oggi invece il panorama è spettrale, le rive del Rio appaiono disboscate, i fondali pieni di sedimenti.

 Il bilancio è di 11 morti, 15 dispersi, 600 sfollati, 250.000 persone senza acqua potabile. 
La Samarco è stata obbligata a pagare 250 milioni di dollari al governo brasiliano, ma le stime per la pulizia riportano un danno di 27 miliardi di dollari.
 Senza calcolare tutte le conseguenze collaterali che riguarderanno l’oceano: già la biodiversità del fiume è andata completamente distrutta e diverse specie – incluse alcune indigene – sono da considerarsi estinte; ora la preoccupazione è rivolta all’impatto che il disastro avrà sull’ecosistema dell’Atlantico.
 Scienziati e ambientalisti temono che se venti e correnti spingeranno l’onda tossica verso nord, l’Abrolhos Marine National Park sarà fortemente a rischio: il parco racchiude un arcipelago di isole e barriere coralline dove sono ospitate specie marine protette, come tartarughe, delfini e balene. 
Fortunatamente gli addetti del parco stanno già correndo ai ripari e per scongiurare una possibile moria di uova di tartaruga – deposte il mese scorso – hanno pensato di rimuoverle per tempo, sistemandole al sicuro.













Fonte: http://www.bioradar.net/

Castello di Moritzburg


Schloss Moritzburg è un edificio barocco piacevolmente insolito, con le sue torri rivestite di ceramica rossa e la sua facciata di un giallo brillante.
 Dal punto di vista architettonico è il risultato di una continua conversione di un complesso costruito in epoca rinascimentale. I boschi a nord di Dresda hanno rappresentato per secoli la riserva di caccia dei principi elettori e dei re sassoni.
 Per questo non sorprende che l’elettore Moritz possa avere eretto qui una palazzina di caccia nel 1542, che venne chiamata Motirtzburg dopo la sua morte.
 Si trattava di una costruzione rinascimentale, continuamente ampliata e modificata seguendo l’evoluzione dal Rinascimento al Barocco. Ma fu soprattutto l’elettore Federico Augusto I, meglio conosciuto come Augusto il Forte, a ricostruire completamente il castello in stile barocco.
 Essendo un appassionato di caccia ed avendo frequentato la palazzina di Moritzburg in gioventù, Augusto desiderava trasformarla in una residenza dove poter alloggiare e ospitare la propria corte.


Per riuscire in questo intento, dovette modificarla in modo tale da permettere affollate battute di caccia e renderla idonea a festeggiamenti e banchetti. 
Il lavoro di conversione della struttura fu realizzato fra il 1723 ed il 1733, sotto la supervisione di Matthàus Daniel Poppelmann, che si occupò anche dello Zwinger di Dresda.


Il piano terra è inusuale, con le sue torri angolari, sporgenti e tuttavia integrate nell’insieme. 
Esse sono unite al corpo principale da strette maniche di collegamento. 

I’imponente sala da pranzo fu costruita per i magnifici banchetti di Augusto, come contraltare architettonico della cappella, che venne invece edificata sul lato ovest, tra il 1661 e il 1672.




Gli edifici sorgono su un’area pressoché quadrata (90 x 95 m), come su un piedistallo, dal quale le scalinate dotate di balaustre, decorate da sculture, conducono all’isola sottostante.
 Il lago, creato nel 1730 dopo il completamento del castello, si integra perfettamente in questo panorama, anche grazie alla presenza di altri numerosi specchi d’acqua.
 L’imponenza del castello è enfatizzata da otto piccoli padiglioni che lo circondano. 
Il giardino venne realizzato in stile barocco francese e si estende in direzione nord.


L’armoniosa decorazione interna dello Schloss Moritzburg riflette perfettamente quella esterna.
 Essa è opera dell’architetto di corte di Augusto, Raymond Leplat, che riprese costantemente il carattere di palazzina di caccia proprio del complesso.
 Raffinati arazzi in pelle dipinta con raffigurazioni correlate alla caccia, come la Festa dei pescatori al lago di Moritzburg e scene tratte dalla mitologia greca che vedono la dea Diana come protagonista, ispirarono l’appellativo “Dianenburg”.
 Si tratta di capolavori di inestimabile valore, sia sotto il profilo storico, sia sotto quello della lavorazione artigianale. 
Consistono infatti in singoli pezzi, coperti da una lamina d’argento e dipinti con colori brillanti.


Due scaloni d’onore conducono, tanto da est quanto da ovest, al piano superiore, dove si trovano le decorazioni più antiche di tutto complesso.
 Muri e soffitti sono coperti di banchi stucchi, impreziositi solo da piccole dorature.