mercoledì 17 dicembre 2014

Garden of Eden: la Venezia del Medio Oriente


Un paradiso quasi perduto.
 Si tratta delle zone umide nel Sud dell'Iraq. Ambienti che offrono un panorama unico al mondo, dove un tempo viveva un popolo conosciuto come Ma'dam, o "Arabi della palude". 
 Si trattava - e in parte si tratta ancora - di una sorta di Venezia mesopotamica, caratterizzata da case galleggianti realizzate interamente con canne raccolte in queste aree paludose e lavorate a mano. 
Queste meraviglie architettoniche sono poco conosciute. Si chiamano mudhif e sono state costruite senza chiodi, legno o vetro. Basterebbero soli tre giorni per realizzarle.
 Le loro fondamenta sono fango compattato e giunchi.
 Si tratta di un metodo di costruzione che sarebbe stato utilizzato dagli abitanti delle pianure dell'Iraq per migliaia di anni, ma negli ultimi decenni questa forma di architettura alternativa è scomparsa quasi del tutto e rischia di perdersi completamente insieme alla tecnica di costruzione, unica nel proprio genere.


Perché un patrimonio dell'umanità di questo genere è destinato a scomparire? 
Si ritiene che, come con la maggior parte delle giustizie che hanno rovinato l'Iraq nel 20esimo secolo, la distruzione di questo paradiso mediorientale sia avvenuta a causa delle decisioni di Saddam Hussein. 
Infatti pare che le paludi e le case galleggianti siano state considerate a lungo un rifugio dal governo Hussein, così come nei secoli passati probabilmente hanno rappresentato le dimore di schiavi e servi fuggiti dai loro padroni.
 Nel 1991 Saddam aveva prosciugato le paludi del Sud dell'Iraq per punire quella parte della popolazione che avrebbe appoggiato i suoi avversari. 
In breve tempo questi paesaggi con le loro costruzioni sono stati bruciati e distrutti e le paludi lussureggianti si sono purtroppo trasformate in deserti, vista la scarsità d'acqua. 

Nel 2003 è però iniziata una ripresa. Le comunità locali sono riuscite a ripristinare almeno una parte delle zone umide. L'ecosistema però richiederà molto più tempo per ritornare così com'era, rispetto alla facilità e alla rapidità che sono bastate per distruggerlo. 
Ormai molti Arabi delle paludi hanno abbandonato la zona e chi è rimasto vive purtroppo in condizioni disagiate, senza la disponibilità di acqua potabile.








C'è però una speranza per la Venezia del Medio Oriente. L'associazione Nature Iraq, fondata da un ingegnere iracheno-americano, sta entrando in azione per ripristinare questi luoghi, con il supporto di Stati Uniti, Canada, Giappone e Italia. 
Alcune capanne possono già offrire sistemazioni per accogliere i turisti che vogliano pranzare in compagnia e condividere le proprie idee sul futuro dell'Iraq. 

 Marta Albè

Com’è nato il velcro?


Fino al 2 aprile 1978, se vi fosse mai capitato di parlare di velcro, non potevate sbagliare. 
Fino a quel giorno, infatti, il nome per indicare il sistema attacca e strappa (meglio: chiusura hook and loop) usato su giacche, scarpe, borse, giochi, era di proprietà dell’omonima azienda, la Velcro appunto.
 Quel giorno, però, il brevetto che ne rivendicava la paternità scadeva, e il sistema di chiusura inventato da George de Mestral
diventava di dominio pubblico, vantando una serie di imitatori da cui, per rimanere in tema, sarebbe stato difficile staccare il nome di velcro. 

 Il materiale era nato nella testa del suo inventore, come spesso accade, osservando la natura. 
Si racconta che un giorno d’estate, negli anni Quaranta, George de Mestral, ingegnere svizzero appassionato di caccia e amante della montagna, se ne fosse uscito per una passeggiata portando con sé anche il suo cane. 
Di ritorno a casa, si era accorto che i suoi vestiti e il pelo dell’animale erano pieni degli appiccicosi fiori di
cardo alpino, quelle palline che si attaccano ovunque.
 Più incuriosito che infastidito dal caso, de Mestral cercò di carpire i segreti di quei fiori. 
Fu così che si armò di un microscopio e cominciò a osservare il modo con cui si attaccavano alle superfici.


E quello che vide era un sistema tanto semplice quanto efficace sviluppato dal cardo per diffondere i propri semi (e far innervosire gli appassionati di montagna).
 La loro superficie infatti era ricoperta di una sorta di aghi le cui estremità terminavano con degli uncini, i quali a loro volta si arpionavano ai cappi naturali presenti sul pelo degli animali o sui tessuti.
 Così a de Mestral venne l’ idea. 
Avrebbe sfruttato lo stesso meccanismo per realizzare un sistema di chiusura analogo a quello delle zip, a incastro: uncini da un lato, cappi dall’altro.


Dopo essersi fatto aiutare da un tessitore, l’ingegnere nel 1955 brevettava il suo Velcro, ma non ancora con i connotati in cui sarebbe diventato famoso.
 Inizialmente era infatti costituito di due strisce di cotone, e solo successivamente sarebbe diventato di nylon, un materiale che meglio si prestava allo scopo, che poteva essere cucito ovunque. Per il nome, invece, la scelta fu facile: bastava pensare alle sue origini e alla sua funzione: ne venne fuori Velcro, l’insieme delle parole francesi velour (velluto) e crochet (gancio, uncino).


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