giovedì 6 novembre 2014
L'origine dei dadi da gioco
I dadi da gioco hanno un'origine antichissima.
Sofocle riteneva che fossero stati inventati da Palmede, un astuto condottiero greco, durante la guerra di Troia; Erodono ne attribuiva l'invenzione ai popoli della Lidia.
In realtà numerosi reperti archeologici hanno dimostrato che erano già utilizzati molti secoli prima da numerosi popoli (tra i quali anche gli Eschimesi, i Maya e gli Atzechi, le popolazioni dell'Africa e delle isole della Polinesia).
Gli esemplari più antichi furono ritrovati nel 1972 all'interno di una tomba risalente a V millennio.
Più che di veri dadi si trattava di astragali, piccoli ossicini di forma cuboide che possiedono quattro facce facilmente distinguibili.
Inizialmente erano considerati oggetti magici, utilizzati per divinare il futuro.
Forse anche per questa ragione venivano conservati nelle tombe.
In seguito divennero oggetti per il gioco, soprattutto quello d'azzardo.
Dadi a sei facce, praticamente uguali a quelli moderni, sono stati trovati in Egitto (risalgono al 600 a.C.) e Cina (2000 a.C.).
I dadi più antichi ritrovati in Italia risalgono all'epoca etrusca: erano a sei facce, d'avorio ed erano ornati di lettere e non di numeri. Presso i romani i dadi erano utilizzati soprattutto per i giochi d'azzardo, strettamente connessi con Saturno: a Roma era permesso giocare soltanto durante i Satumalia, i giorni dedicati al dio.
Anche il gioco della tombola risale a questo periodo e a questo dio: il Grande Gioco di Saturno era una sorta di gioco-oracolo col quale anticamente, e non solo a Roma, si esercitava una forma di divinazione.
Quando gli antichi egizi iniziarono ad imbalsamare i loro morti ?
Il lavoro congiunto di alcuni ricercatori provenienti dalle Università di York, Macquarie ed Oxford avrebbe portato alla luce nuove testimonianze che suggeriscono come l’origine della pratica dell’imbalsamazione dei cadaveri nell’antico Egitto sia da collocare almeno 1.500 anni prima di quanto pensato fino ad ora.
Tale conclusione giunge dopo uno studio durato 11 anni che ha visto coinvolti i dipartimenti di archeologia e storia antica dei diversi atenei: i risultati approfondiscono alcuni aspetti estremamente interessanti (ed affascinanti) relativamente alla pratica che fu centrale nella cultura dell’Egitto dei faraoni e che, ancora oggi, assurge quasi a simbolo di quella antichissima e straordinaria civiltà che fiorì lungo le rive del Nilo.
A proposito della mummificazione presso gli egiziani, le teorie tradizionali, in buona parte basatesi su ritrovamenti archeologici avvenuti negli scorsi secoli, suggeriscono come nell’epoca preistorica corrispondente al tardo neolitico e alla fase pre-dinastica compresa tra il 4.500 e il 3.100 a. C. i corpi degli uomini fossero sottoposti ad un processo naturale allo scopo di conservarli nel tempo, determinato dal clima caldo e asciutto del deserto.
Le sabbie dell’Egitto hanno infatti restituito negli anni agli archeologi cadaveri del tutto integri, essiccati quasi come i loro discendenti che, qualche secolo dopo, avrebbero vissuto e sarebbero morti nell’epoca del massimo splendore della regione nilotica.
Il ricorso a resine naturali nell’ambito della mummificazione artificiale è documentato soltanto a partire da un caso del 2.200 a C., ossia durante il periodo detto del Regno Antico, e divenne sempre più diffuso durante il Regno medio, tra il 2.000 e il 1.600 a. C.: il lavoro dei ricercatori, reso noto attraverso un articolo pubblicato da PLOS ONE, apre però a nuove inaspettate prospettive che muterebbero profondamente tale cronologia. Secondo la dottoressa Jana Jones, della australiana Macquarie University, infatti, l’uso di sostanze particolari nel trattamento dei cadaveri sarebbe stato comune già in un arco di tempo compreso tra il 4.500 e il 3.350 a. C., come dimostrerebbero le mummie prese in esame per lo studio, provenienti dai cimiteri neolitici di Badari e Mostagedda, venute alla luce principalmente negli anni ’30 ed inviate all’epoca presso diversi musei britannici.
Alcuni campioni, particolarmente antichi, non erano mai stati sottoposti ad approfondite indagini archeologiche: ed hanno rivelato segreti sorprendenti.
I primi esami effettuati al microscopio nel 2002 su alcuni dei campioni di materiale tessile che avvolgeva i cadaveri avevano effettivamente dato modo di considerare l’ipotesi della presenza di resine nei bendaggi.
Tuttavia per avere la conferma occorrevano rilievi più approfonditi: così il dottor Stephen Buckley, ricercatore presso la University of York, è stato coinvolto nello studio.
Grazie ad una combinazione di analisi specifiche (gascromatografia, spettrometria di massa), è stato possibile rilevare la presenza di resina di pino, un estratto di pianta aromatica, gomma vegetale, grasso animale, petrolio naturale: il tutto a sigillare le bende funerarie, esattamente come accadeva durante il trattamento dei cadaveri illustri oltre mille anni dopo, al culmine della potenza dei faraoni.
I ricercatori sostengono che le proprietà antibatteriche di queste sostanze vennero sfruttate anche nei secoli successivi, quando tali ingredienti erano utilizzati dagli imbalsamatori professionisti 3.000 anni più tardi: sostanzialmente all’epoca dei cimiteri neolitici la tecnica era ancora in fase sperimentale ma, a giudicare dai risultati, dava già ottimi frutti. Anzi, pare che sia possibile addirittura stabilire che le proporzioni tra le diverse resine naturali restò inalterata nei secoli a venire: insomma, l’imbalsamazione fu un’eredità trasmessa dalla società tribale delle origini e custodita gelosamente fino al declino di quel regno unico e irripetibile che conobbe potenza, ricchezza e cultura sotto le dinastie dei faraoni.
Il professor Thomas Higham, responsabile della datazione delle sepolture presso la University of Oxford, ha sottolineato l’importanza di un lavoro del genere, in grado di esaltare il potenziale del materiale custodito anche da decenni all’interno dei musei ma ancora capace di svelarci segreti del tutto inaspettati. Decine di collezioni possono essere ancora un fondamentale strumento archeologico, per illuminare punti oscuri o fornire nuove chiavi di lettura, soprattutto grazie all’ausilio dei moderni strumenti scientifici che aiutano a leggere sempre più in profondità tra le sabbie del tempo.
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Midway, l'impegno a distruggere il pianeta
L'atollo di Midway è un'isola di 5,2 km quadrati con circa 3.000 abitanti, nella parte occidentale dell'arcipelago delle Hawaii, nell'Oceano Pacifico.
Scoperto nel 1859, costituisce oggi un comprensorio geografico sotto il controllo degli Stati Uniti, a cui l'arcipelago fu annesso nel 1867.
La civiltà della plastica è lontana 3.200 km. Eppure ecco quello che riesce a fare, documentato in un video decisamente forte, disturbante, ma da vedere.
Non sono necessarie parole di commento, tranne forse "ecco che cosa possiamo fare di... pessimo al nostro pianeta e a tutti noi".
Midway, il corto di Chris Jordan, è un viaggio fino al cuore di una tragedia ambientale straordinariamente simbolica.
Su una delle isole più distanti da ogni altra terra sul nostro pianeta, migliaia di albatros morti sul terreno, avvelenati dal giro del Pacifico, che vi spieghiamo nel multimedia L'isola rifiutata.
Da : http://www.focus.it/