giovedì 23 ottobre 2014

Pau, la culla della dinastia borbonica


Il castello di Pau, nella Francia sudoccidentale, è noto soprattutto per aver dato i natali a Enrico IV, capo degli ugonotti protestanti, assurto alla dignità di re di Francia nel 1589.
 La sua importanza e bellezza tuttavia dovrebbero bastare da sole a dargli il rango che gli spetta.


I conti di Foix, divennero signori di Pau, dove avrebbero posto la loro dimora principale, alla fine del Duecento.
 Il principale esponente fu Gastone III Febo (1331 – 1391), poeta e compositore, grande e ispirato mecenate, ma nel contempo politico senza scrupoli, responsabile della morte cruente del fratello e del suo stesso figlio. 
Durante il suo dominio l’antica rocca cittadina dei precedenti proprietari, i signori di Moncade, fu trasformata in possente castello dall’architetto Sicard de Lordat.


Nel 1527 Margherita d’Angoulème, sorella del re francese Francesco I, sposò in seconde nozze il sovrano di Navarra, Enrico d’Albret, e scelse come residenza il castello di Pau, apportando notevoli mutamenti alla struttura.
 Qui ebbe contatti con il riformatore Giovanni Calvino (1509 – 1564) e si convertì segretamente alla nuova confessione: fece tradurre preghiere e canti religiosi in francese e nella sua cappella privata si celebravano funzioni secondo il rito evangelico.
 La dinastia di Navarra divenne così punto di riferimento del protestantesimo francese. 
 Il nipote di Margherita, Enrico IV, lasciò nel 1587 Pau, dove non sarebbe più tornato, per le successive vicende che l’avrebbero portato sul trono.
 Figlio del duca di Borbone, diede questo nome alla nuova dinastia che con lui iniziava, annoverando in seguito grandi re come Luigi XIV.


Passò alla storia come Le Bon Roi Henri, il ‘buon re Enrico’, pacificatore della contesa religiosa tra francesi, dopo decenni di terribili lotte fratricide.
 Nel 1598 promulgò l’editto di Nantes, che riconosceva libertà di fede e una sostanziale parità fra le diverse religioni. 
Resta famosa la frase con cui sintetizzò il proprio programma politico: “Voglio che i contadini francesi stiano così bene da avere ogni domenica pollo in pentola”.


I restauri (in realtà, in molti casi, veri e propri rifacimenti) apportati nell’Ottocento hanno molto trasformato l’antico castello dei conti di Foix. 
Tuttavia l’impianto e, se si prescinde dalle incrostazioni romantiche, anche le strutture murarie dell’edificio sono tutto sommato ancora quelli originali. 
Si tratta di una fortificazione irregolare, con al centro un cortile trapezoidale, collocata su una piccola ma ripida ‘motta’ – cioè un monticello di terra spianato alla sommità – a dominio della città e del fiume ai suoi piedi.
 È, per tipologia e funzioni, un insieme molto simile agli Alcàzar spagnoli: dopo tutto, i Pirenei non sono lontani.


Enrico IV, nipote di Margherita di Angoulème e figlio del duca Antonio di Borbone, era legatissimo al suo posto di nascita. All’ottavo mese di gravidanza sua madre Giovanna III d’Albret intraprese un faticoso viaggio di 19 giorni solo per partorire a Pau. Quando il bambino venne alla luce, il 13 dicembre 1553, secondo l’usanza locale gli furono sfregate le labbra con aglio e vino di Jurançon. 
Nel 1560 Giovanna, come sua madre, aderì al protestantesimo e cominciò a educare il figlio secondo questa dottrina. Poi, fino all’età di 14 anni, Enrico fu trasferito alla corte reale, come prevedeva la legge per i possibili eredi al trono. 

 Già da piccolo egli aveva scritto nei suoi quaderni di studio il motto latino Aut vincere aut mori, vincere o morire. Alla fine vinse, ma rischiò di morire.
 Era ancora assai giovane quando assunse il comando degli ugonotti e del loro esercito, affrontando una situazione difficile che ben presto sembrò diventare catastrofica.
 In occasione delle proprie nozze fu costretto, in quanto protestante, a fermarsi sulla soglia della cattedrale di Notre-Dame, a Parigi, mentre la moglie Margherita di Valois, sorella del re Carlo IX, pronunciava il sì davanti all’altare.
 Nella notte seguente (tristemente nota come la Notte di San Bartolomeo, tra il 23 e il 24 agosto 1572) migliaia di ugonotti furono massacrati a Parigi e in tutta la Francia per ordine della regina madre Caterina de’ Medici. 
 Enrico riuscì a salvarsi solo abiurando la propria fede evangelica. Ma solo dopo che nel 1593, a Saint-Denise, a nord di Parigi, si fu convertito ufficialmente al cattolicesimo, poté finalmente entrare a Parigi per assumere il titolo che gli spettava. 
“Parigi – disse – valeva bene una messa”.


Il donjon, il poderoso mastio a sinistra dell’ingresso, risale all’epoca di Gastone Febo. La torre di Montauser che svetta sulla destra è invece un residuo dell’originale rocca duecentesca, allora appartenente ai signori di Moncade.

 Numerosi lavori furono svolti negli anni Sessanta del XIX secolo, per volontà di Napoleone III. Risale a quell’epoca la veste attuale del complesso.







Cosa racconta il dna di un umano di 45mila anni fa





Nel 2008, un femore umano quasi integro è stato rinvenuto lungo le rive dell’Irtysh, il fiume bianco, nella Siberia occidentale. 
Che si trattasse di un osso antico era chiaro da subito, perché spuntava in mezzo a fossili risalenti al medio-tardo pleistocene. 
Per scoprire esattamente quanto però ci sono voluti un team di ricerca internazionale capitanato da Svante Pääbo, uno dei fondatori della paleogenetica, e cinque anni di lavoro, ma i risultati sembrano aver ripagato gli sforzi dei ricercatori. 

Come riportato su Nature, il femore risale infatti a 45mila anni fa, ed è quindi il più antico osso di Homo Sapiens moderno mai ritrovato e studiato fuori dall’Africa. 
L’analisi del suo dna ha permesso inoltre ai chiarire con maggior precisione quando sarebbe avvenuto l’incrocio tra i nostri progenitori e i Neanderthal.
 Molti studi hanno dimostrato che condividiamo alcuni dei geni presenti nel nostro dna con quelli dei nostri cugini ormai estinti, anche se non è stato ancora stabilito con certezza come siano arrivati nel nostro materiale genetico. 
Una delle ipotesi più accreditate è che nei circa 2.600-5.400 anni in cui le due specie (neanderthalensis e sapiens) hanno condiviso gli stessi ambienti, si siano anche incrociate, in un periodo compreso tra i 37 e gli 86mila anni fa.

Sequenziando il dna presente nell’antico osso siberiano, i ricercatori hanno scoperto al suo interno una quantità di geni Neanderthal paragonabile a quella presente negli europei e negli asiatici di oggi (il dna degli africani contiene una quantità minore di geni Neanderthal). 
Osservando la lunghezza di questi segmenti genomici (i frammenti di dna Neanderthal), maggiore di quelli attuali, hanno potuto quindi stabilire che il loro ingresso nel dna dell’individuo a cui apparteneva il femore siberiano risale a circa 7-13 mila anni prima della sua nascita. 
 Stando a questi risultati, spiegano i ricercatori, il periodo in cui i geni Neanderthal hanno fatto ingresso nel nostro dna deve essere ripensato, e spostato indietro fino a circa 50-60mila anni fa, un periodo molto vicino alla principale espansione dell’Homo Sapiens al di fuori dell’Africa e del Medio Oriente. 

 Fonte: www.wired.it