mercoledì 14 maggio 2014
Yanar Dag, la montagna che brucia in Azerbaijan
Yanar Dag è un fuoco di gas naturale dal forte impatto visivo.
Esso arde continuamente su una collina della penisola Absheron, sul Mar Caspio, a 25 chilometri da Baku, capitale dell'Azerbaijan, paese conosciuto come la "terra del fuoco".
Getti di fiamme fuoriescono da un sottile strato di arenaria porosa per lanciarsi in aria fino a 3 metri d'altezza.
Un fenomeno naturale che riporta alla mente altre meraviglie del pianeta, come il vulcano che erutta lava blu o altri siti modellati dal tempo e dai venti, come la montagna Bucegi, in Romania.
Yanar Dag o Mountain Fire è uno dei siti magicamente attraenti e sorprende ed incanta i visitatori per le fiamme che vi bruciano in superficie in modo perpetuo.
Si tratta di una collina di 116 metri, caratterizzata da una continua eruzione di fuoco di gas naturali.
I geologi ritengono che Yanar Dag sia un vulcano di fango o di sedimenti e gas, in quanto questo tipo di vulcani è indicativo di riserve di petrolio e di metano, in gran parte nascosti sotto terra e nel mare, soprattutto nella regione del Caspio. Tuttavia, l'Azerbaijan ne presenta la più grande concentrazione a livello globale, sebbene ne esistano di simili in Turchia, in Turkmenistan ed altrove sul pianeta.
I vulcani di fango, ad esempio, sono imprevedibili e la loro formazione non è ancora chiara agli studiosi.
A differenza di quelle prodotte dai vulcani di fango, le fiamme di Yanar Dag bruciano costantemente. E ciò è dovuto al fatto che non si tratta di un'eruzione periodica, ma è relativa all’infiltrarsi perpetuo di gas dal sottosuolo.
La gente del posto ha sempre considerato Yanar Dag come un luogo sacro, tanto che la montagna divenne un sito di pellegrinaggio per la popolazione azera, così come per i turisti.
A differenza dei vulcani di fango diffusi in Azerbaijan, non vi è alcuna infiltrazione di materiali al suo interno, ma ciò non impedisce alle fiamme di bruciare costantemente.
Un muro di 10 metri di fuoco produce un vero e proprio spettacolo anche di notte. E, intorno a questo sito, l'aria è sempre pesante e odorante di gas. Inoltre, i venti che soffiano sul posto, creano bizzarre forme con le fiamme.
Oggi, Yanar Dag è un luogo tutelato ed è sotto la protezione dello Stato.
Studi archeologici sono tuttora in esecuzione su tutta la zona. L'Istituto di Archeologia ed Etnografia dell'Accademia Nazionale delle Scienze dell'Azerbaijan, infatti, ha recentemente scoperto due colline destinate alla sepoltura proprio nei suoi pressi.
Come è noto, l'Azerbaijan possiede enormi riserve di petrolio e di gas. Per questo si ritiene che le fiamme superficiali siano il prodotto delle costanti emissioni provenienti dal sottosuolo.
I fuochi naturali del paese sono considerati cruciali nella creazione della fede mistica incentrata sui culti cerimoniali dedicati al fuoco, apparsi nella regione circa 2mila anni fa.
Tratto da : nextme.it
Il napolitano-pensiero.........
Certo che questa affermazione 10...100..1000... Ungheria la dice lunga.
Questo è il suo pensiero sulla autodeterminazione dei popoli e sul loro sacrosanto diritto di libertà?
A chi ritiene che Napolitano non può essere definito “comunista”, ricordo che nel 1956, all’indomani dell’invasione dei carri armati sovietici a Budapest, mentre Antonio Giolitti e altri dirigenti di primo piano lasciarono il Pci, Napolitano arrivò a bocciare con durezza questa scelta dell’esponente comunista piemontese, profondendosi in elogi non solo di Togliatti, ma anche dei sovietici. L’Unione sovietica, infatti, secondo lui, sparando con i carri armati sulle folle inermi e facendo fucilare i rivoltosi di Budapest, avrebbe addirittura contribuito a rafforzare la «pace nel mondo».
In Ungheria il 23 ottobre 1956 operai e studenti diedero il via a una rivolta generale chiedendo il ritiro delle truppe sovietiche e radicali riforme.
Il 2 novembre il capo del governo Imre Nagy proclamò la neutralità del Paese e chiese l’intervento dell’Onu ma il 4 novembre intervenne l’armata rossa che represse la rivolta dopo una resistenza eroica degli anticomunisti ungheresi che continuarono a combattere sino l’anno successivo: gli storici fanno una stima dei morti ungheresi che è tra le 25.000 e 50.000 persone oltre circa 7.000 soldati sovietici uccisi in combattimento.
Negli anni seguenti tra le circa 2.000 esecuzioni dei condannati a morte vi fu quella di Imre Nagy; circa 250.000 ungheresi emigrarono per evitare persecuzioni politiche. Con l’avvento della democrazia in Ungheria la data del 23 ottobre è diventata festa nazionale.
Dopo essere stato invitato alle celebrazioni del 50° anniversario della rivolta di Budapest e dopo aver preso atto delle vibranti proteste che questo invito ha suscitato in Ungheria, Napolitano prova a farsi perdonare ma rimedia solo una figuraccia da vile opportunista.
Il mea culpa recita cosi’: “Sui fatti d’Ungheria Nenni aveva ragione”. Un po’ poco caro Presidente, certo che Nenni aveva ragione ma il fatto e’ che lei aveva torto.
Un sincero pentimento avrebbe portato a parole di condanna verso chi, come lei e i suoi compagni di partito comunista, dal dopoguerra in poi ha sempre sostenuto Stalin e i suoi crimini e da quel regime riceveva soldi sporchi di sangue, ma forse era chiedere troppo e per questo continuera’ a non rappresentare tutti gli italiani ma solo una parte.
Questo è il suo pensiero sulla autodeterminazione dei popoli e sul loro sacrosanto diritto di libertà?
A chi ritiene che Napolitano non può essere definito “comunista”, ricordo che nel 1956, all’indomani dell’invasione dei carri armati sovietici a Budapest, mentre Antonio Giolitti e altri dirigenti di primo piano lasciarono il Pci, Napolitano arrivò a bocciare con durezza questa scelta dell’esponente comunista piemontese, profondendosi in elogi non solo di Togliatti, ma anche dei sovietici. L’Unione sovietica, infatti, secondo lui, sparando con i carri armati sulle folle inermi e facendo fucilare i rivoltosi di Budapest, avrebbe addirittura contribuito a rafforzare la «pace nel mondo».
In Ungheria il 23 ottobre 1956 operai e studenti diedero il via a una rivolta generale chiedendo il ritiro delle truppe sovietiche e radicali riforme.
Il 2 novembre il capo del governo Imre Nagy proclamò la neutralità del Paese e chiese l’intervento dell’Onu ma il 4 novembre intervenne l’armata rossa che represse la rivolta dopo una resistenza eroica degli anticomunisti ungheresi che continuarono a combattere sino l’anno successivo: gli storici fanno una stima dei morti ungheresi che è tra le 25.000 e 50.000 persone oltre circa 7.000 soldati sovietici uccisi in combattimento.
Negli anni seguenti tra le circa 2.000 esecuzioni dei condannati a morte vi fu quella di Imre Nagy; circa 250.000 ungheresi emigrarono per evitare persecuzioni politiche. Con l’avvento della democrazia in Ungheria la data del 23 ottobre è diventata festa nazionale.
Dopo essere stato invitato alle celebrazioni del 50° anniversario della rivolta di Budapest e dopo aver preso atto delle vibranti proteste che questo invito ha suscitato in Ungheria, Napolitano prova a farsi perdonare ma rimedia solo una figuraccia da vile opportunista.
Il mea culpa recita cosi’: “Sui fatti d’Ungheria Nenni aveva ragione”. Un po’ poco caro Presidente, certo che Nenni aveva ragione ma il fatto e’ che lei aveva torto.
Un sincero pentimento avrebbe portato a parole di condanna verso chi, come lei e i suoi compagni di partito comunista, dal dopoguerra in poi ha sempre sostenuto Stalin e i suoi crimini e da quel regime riceveva soldi sporchi di sangue, ma forse era chiedere troppo e per questo continuera’ a non rappresentare tutti gli italiani ma solo una parte.
La tragedia di Marcinelle. Il durissimo accordo italo-belga: uomini in cambio di carbone
Una delle più gravi tragedie minerarie della storia si verificò l’8 agosto 1956, nella miniera di carbone di Bois du Cazier (appena fuori la cittadina belga di Marcinelle) dove si sviluppò un incendio che causò una strage.
262 minatori morirono, per le ustioni, il fumo e i gas tossici. 136 erano italiani.
Causa dell’incidente fu un malinteso sui tempi di avvio degli ascensori.
Si disse che all’origine del disastro fu un’incomprensione tra i minatori, che dal fondo del pozzo caricavano sul montacarichi i vagoncini con il carbone, e i manovratori in superficie.
Il montacarichi, avviato al momento sbagliato, urtò contro una trave d’acciaio, tranciando un cavo dell’alta tensione, una conduttura dell’olio e un tubo dell’aria compressa.
Erano le 8 e 10 quando le scintille causate dal corto circuito fecero incendiare 800 litri di olio in polvere e le strutture in legno del pozzo.
L’incendio si estese alle gallerie superiori, mentre sotto, a 1.035 metri sottoterra, i minatori venivano soffocati dal fumo.
Solo sette operai riuscirono a risalire. In totale si salvarono in 12.
Il 22 agosto, dopo due settimane di ricerche, mentre una fumata nera e acre continuava a uscire dal pozzo sinistrato, uno dei soccorritori che tornava dalle viscere della miniera non poté che lanciare un grido di orrore: «Tutti cadaveri!».
Ci furono due processi, che portarono nel 1964 alla condanna di un ingegnere (a 6 mesi con la condizionale).
In ricordo della tragedia, oggi la miniera Bois du Cazier è patrimonio Unesco.
La tragedia della miniera di carbone di Marcienelle è soprattutto una tragedia degli italiani immigrati in Belgio nel dopoguerra.
Tra il 1946 e il 1956 più di 140mila italiani varcarono le Alpi per andare a lavorare nelle miniere di carbone della Vallonia.
Era il prezzo di un accordo tra Italia e Belgio che prevedeva un gigantesco baratto: l’Italia doveva inviare in Belgio 2mila uomini a settimana e, in cambio dell’afflusso di braccia, Bruxelles si impegnava a fornire a Roma 200 chilogrammi di carbone al giorno per ogni minatore.
Il nostro Paese a quell’epoca soffriva ancora degli strascichi della guerra: 2 milioni di disoccupati e grandi zone ridotte in miseria.
Nella parte francofona del Belgio, invece, la mancanza di manodopera nelle miniere di carbone frenava la produzione. Così si arrivò al durissimo accordo italo-belga.
Gli italiani trovarono innumerevoli difficoltà di integrazione con la comunità belga, almeno fino a quell'8 agosto 1956. «Il nostro vicino, che non la smetteva mai di insultare mio padre, è entrato da noi piangendo» racconta il figlio di un minatore.
“La comunità italiana del Belgio ha pagato con il sangue il prezzo del suo riconoscimento” scrisse Patrick Baragiola sul quotidiano Le Monde.
Tratto da : focus.it