sabato 25 gennaio 2014
Josephine Myrtle Corbin: la donna nata con quattro gambe
Nata a Clabourne, in Texas nel 1868, la donna crebbe con due paia di gambe. All’esterno un paio, di grandezza normale, e un altro interno, decisamente più piccolo.
In pratica la donna era dotata di due bacini e due corpi separati dalla vita in giù.
Nonostante questo grave handicap, Josephine si sposò all’età di 19 anni con un dottore ed ebbe 5 figli, 4 femmine ed un maschio. Si dice che tre di questi fossero nati da una vagina e due dall’altra. Ognuna delle due gambe più grandi era accoppiata con una più piccola interna. Poteva muovere le gambe interne, ma erano troppo deboli per camminare.
Questa donna, così “particolare”, morì nel 1927, all’età di 59 anni.
La nascita di una coppia di gemelli siamesi è un’eventualità molto rara. L’evento è causato da una tardiva divisione dell’embrione e se ne conta una ogni 120 mila. Tali gemelli sono esclusivamente monozigoti e, a seconda delle parti in cui sono uniti e degli organi che hanno in comune, vengono suddivisi secondo diverse tipologie. Ancora più raro è il caso del cosiddetto “gemello parassita”, in cui uno dei due embrioni si forma all’interno dell’altro o non completamente. Un gemello, in pratica, prende il sopravvento e “assorbe” l’altro.
Ma il caso di Josephine è ancora più complesso: esso fu il risultato di una forma ancora più rara nel regno del gemellaggio, noto come Dipygus, che le diede due corpi completi dalla vita in giù.
La donna ha lavorato per P.T.Barum e il Ringling Brothers Circus, poiché durante l’epoca vittoriana le persone deformi non erano discriminate.
Loro stesse si mettevano in mostra nei più grossi circhi dell’epoca, come appunto il Ringling Brod and Barnum and Boley circus, ricercando popolarità.
In un certo senso, era una fortuna che vi fossero queste occasioni di “dare spettacolo” attraverso la propria deformità, altrimenti, persone incapaci di camminare o svolgere le più normali attività quotidiane, sarebbero sicuramente morte di stenti.
Nell’800 e nella prima metà del 900, nei circhi andavano di moda i cosiddetti “freaks”, ovvero uomini con varie deformità che si esibivano come fenomeni da baraccone e diventavano delle vere e proprie celebrità del loro tempo.
Phineas Taylor Barnum (1810-1891) fu uno dei più grandi impresari del XIX secolo. Egli presentava molti fenomeni e molte stranezze della natura.
Le folle erano attirate da uomini nani, donne barbute o corpulente, uomini mostruosamente grandi o uomini scheletrici e, soprattutto, fratelli siamesi.
Nel 1871 Barnum creò The Greatest Show on Earth, ovvero Il più grande spettacolo al mondo, con cui fece il giro del pianeta.
Charles Eisenmann, fu uno dei primi fotografi di culto che la società abbia mai conosciuto. Ebbe l’idea di vestire queste “celebrità” di tutto punto e metterle davanti al suo obiettivo. Le fotografie venivano poi vendute come cartoline collezionabili dando lustro al fotografo quanto ai protagonisti.
Un po’ come facevamo noi da piccoli con le figurine Panini: “io ti do l’uomo elefante e tu, in cambio, mi dai la donna che cammina sulle mani”.
Solo che questi non erano calciatori oppure cartoni animati, bensì uomini e donne ripresi nei minimi particolari, in tutta la loro drammaticità. Ed Eisenmann, fra gli altri, ritrasse anche Josephine.
Oggi, la rara patologia della “donna con 4 gambe”, in certi casi, potrebbe essere operabile.
Nella nostra società le imperfezioni non vanno mostrate, anzi, si tengono nascoste sempre e comunque.
Regna purtroppo una grande diffidenza nei confronti di tutto ciò che non si conosce e si presenta ai nostri occhi come “diverso”. Una cosa positiva è che non ci si abbandona più al fato ed alla rassegnazione, bensì la medicina e la chirurgia cercano di offrire soluzioni adeguate e definitive.
Che in alcuni casi permettono anche di salvare delle vite.
Un biberon messapico a forma di maiale
Gli archeologi italiani hanno scoperto un antico maiale di terracotta che serviva come giocattolo oltre che come biberon.
Noto come guttus, il recipiente risale a circa 2.400 anni fa, quando parte della Puglia era abitata dai Messapi, una popolazione migrata dall’Illiria verso il 1.000 a.C.
Caratterizzato da orecchie a punta e occhi umani, il guttus tintinnabula a forma di maiale aveva dei sonagli nella pancia – apparentemente per incoraggiare il bambino a dormire dopo il pasto.
Il piccolo manufatto è uno dei rari oggetti rinvenuti lo scorso maggio a Manduria, vicino a Taranto, quando alcuni lavori di costruzione avevano esposto una tomba messapica.
Tagliata nella roccia, la tomba era decorata con bande ocra, rosse e blu. Conteneva i resti di due individui – in linea con l’usanza messapica di seppellire i membri della famiglia insieme nella stessa tomba.
“Abbiamo trovato alcuni resti scheletrici in un angolo. Altri resti, relativi a una sepoltura successiva, occupavano l’intera tomba”, ha detto l’archeologo Arcangelo Alessio della Soprintendenza archeologica della Puglia.
Oggetti come una ciotola dipinta di nero e una lama di ferro indicano una sepoltura maschile, mentre un forte indizio di sepoltura femminile arriva da una particolare ceramica messapica chiamata trozzella. Caratterizzata da quattro piccole rotelle sui manici, delle versioni del vaso si trovano spesso nelle tombe di donne messapiche.
“L’analisi degli oggetti funerari e del loro contesto suggerisce che le due sepolture risalgono al periodo ellenistico, tra la fine del quarto e il terzo secolo a.C.”, dice Alessio. La presenza dei tre recipienti per l’allattamento indicherebbe una terza sepoltura, forse di una neonata, come suggerito da due statuette di terracotta scoperte nella tomba. Queste sculture erano infatti spesso poste nelle sepolture di giovani ragazze.
“Dovremmo ipotizzare che l’individuo femminile fosse incinta al momento della morte”, spiega l’archeologo che ha seguito gli scavi Gianfranco Dimitri.
“È un’ipotesi intrigante, anche se è possibile che le ossa del piccolo si siano decomposte totalmente nei secoli”.
Fonte: ilfattostorico
Nel 2013 quattro adozioni sono costate ai cittadini 88mila euro. Spreco di denaro pubblico
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I cittadini del Lazio pagano 88mila euro annui per sostenere al momento quattro adozioni all’estero, cifra confermata per il 2013 - Gli enti autorizzati quantificano in 4mila euro il costo di una pratica: con 88mila euro un ente privato avrebbe potuto seguire 22 coppie - L’accordo risale al 2012, quando Renata Polverini sottoscrisse un impegno con l’Agenzia Regionale per le Adozioni Internazionali (Arai) del Piemonte
- Il garante per l’infanzia del Lazio, Francesco Alvaro: “Quasi 90mila euro per sole 4 coppie è più che uno spreco, meriterebbe una riflessione a livello istituzionale”
Forse non lo sanno, ma i cittadini del Lazio pagano 88mila euro annui per sostenere al momento quattro adozioni all’estero.
A giudicare dalle delibere relative, sarà così ogni anno, visto che la medesima cifra è stata stanziata nel 2012 e confermata anche per l’esercizio finanziario del 2013.
Azione benemerita, dirà qualcuno.
In fondo, accrescere la famiglia, anche quando i figli di pancia non arrivano, non può essere un privilegio riservato ai più ricchi. Peccato che con 88mila euro, a cui vanno aggiunti altri costi ‘invisibili’ (per esempio gli stipendi percepiti dai dipendenti pubblici incaricati di seguire il servizio),
la Regione Lazio riesce a tagliare solo una quota delle spese relative alla cosiddetta ‘pratica Italia’, cioè i servizi resi all’inizio dell’iter adottivo, prima che la coppia venga abbinata a un Paese straniero. Costi che la maggior parte degli enti autorizzati privati quantificano in 4mila euro per ciascuna pratica.
Quindi con 88mila euro un ente autorizzato privato avrebbe potuto seguire 22 coppie.
E invece gli 88mila euro sono davvero troppi, specie se rapportati al numero delle coppie laziali seguite dal servizio pubblico, che la stessa Regione, durante un incontro pubblico tenuto il giorno 16 dicembre 2013, ha dichiarato essere state quattro nel 2013. Laddove nel Lazio, stando alle statistiche pubblicate dalla Cai, le coppie che ogni anno portano a termine un’adozione sono circa 300.
Né le agevolazioni garantite alle coppie che si rivolgono al servizio pubblico riguardano la ‘pratica estero’. A carico comunque degli aspiranti genitori adottivi. In merito a quest’ultima, nella convenzione viene specificato che l’Arai si impegna a informare la Regione Lazio di “ogni eventuale proposta di modifica dei costi per le spese relative ai servizi all’estero e alle relazioni di follow up a carico delle coppie”.
L’accordo risale al 6 luglio 2012 quando la Regione Lazio, all’epoca guidata da Renata Polverini, ha sottoscritto l’impegno a collaborare per un quinquennio, rinnovabile, con l’Agenzia Regionale per le Adozioni Internazionali (Arai) del Piemonte, che è convenzionata anche con Liguria, Valle d’Aosta e Calabria. Obiettivo dichiarato, garantire alle coppie aspiranti all’adozione un’adeguata preparazione e un costante accompagnamento durante tutto il percorso adottivo; realizzare il principio di economicità dell’azione amministrativa; evitare il proliferare di enti che concorrono all’estero per gli stessi fini.
Ora, nel caso del Lazio siamo al paradosso. Visto che questa è la regione italiana in cui si registra il maggior numero di sedi di enti autorizzati, che sono ben 31. Per cui l’Arai, anziché sfoltire, semmai incrementa la pletora di enti autorizzati.
Scettico sull’opportunità del provvedimento anche il garante per l’infanzia del Lazio, Francesco Alvaro:
«Questa convenzione mi è suonata male fin da quando è nata. Pensavo che la nuova amministrazione l’avesse accantonata. Tenendo conto che il contratto è addirittura quinquennale, rischia di devitalizzare su una materia così importante le funzioni della Regione».
E nel merito osserva: «Una spesa di quasi 90mila euro per sole quattro coppie che peraltro non va a beneficio dei richiedenti è più che uno spreco, meriterebbe una riflessione a livello istituzionale. E’ una specie di cantiere aperto, che non si sa dove va a finire».
I cittadini del Lazio pagano 88mila euro annui per sostenere al momento quattro adozioni all’estero, cifra confermata per il 2013 - Gli enti autorizzati quantificano in 4mila euro il costo di una pratica: con 88mila euro un ente privato avrebbe potuto seguire 22 coppie - L’accordo risale al 2012, quando Renata Polverini sottoscrisse un impegno con l’Agenzia Regionale per le Adozioni Internazionali (Arai) del Piemonte
- Il garante per l’infanzia del Lazio, Francesco Alvaro: “Quasi 90mila euro per sole 4 coppie è più che uno spreco, meriterebbe una riflessione a livello istituzionale”
Forse non lo sanno, ma i cittadini del Lazio pagano 88mila euro annui per sostenere al momento quattro adozioni all’estero.
A giudicare dalle delibere relative, sarà così ogni anno, visto che la medesima cifra è stata stanziata nel 2012 e confermata anche per l’esercizio finanziario del 2013.
Azione benemerita, dirà qualcuno.
In fondo, accrescere la famiglia, anche quando i figli di pancia non arrivano, non può essere un privilegio riservato ai più ricchi. Peccato che con 88mila euro, a cui vanno aggiunti altri costi ‘invisibili’ (per esempio gli stipendi percepiti dai dipendenti pubblici incaricati di seguire il servizio),
la Regione Lazio riesce a tagliare solo una quota delle spese relative alla cosiddetta ‘pratica Italia’, cioè i servizi resi all’inizio dell’iter adottivo, prima che la coppia venga abbinata a un Paese straniero. Costi che la maggior parte degli enti autorizzati privati quantificano in 4mila euro per ciascuna pratica.
Quindi con 88mila euro un ente autorizzato privato avrebbe potuto seguire 22 coppie.
E invece gli 88mila euro sono davvero troppi, specie se rapportati al numero delle coppie laziali seguite dal servizio pubblico, che la stessa Regione, durante un incontro pubblico tenuto il giorno 16 dicembre 2013, ha dichiarato essere state quattro nel 2013. Laddove nel Lazio, stando alle statistiche pubblicate dalla Cai, le coppie che ogni anno portano a termine un’adozione sono circa 300.
Né le agevolazioni garantite alle coppie che si rivolgono al servizio pubblico riguardano la ‘pratica estero’. A carico comunque degli aspiranti genitori adottivi. In merito a quest’ultima, nella convenzione viene specificato che l’Arai si impegna a informare la Regione Lazio di “ogni eventuale proposta di modifica dei costi per le spese relative ai servizi all’estero e alle relazioni di follow up a carico delle coppie”.
L’accordo risale al 6 luglio 2012 quando la Regione Lazio, all’epoca guidata da Renata Polverini, ha sottoscritto l’impegno a collaborare per un quinquennio, rinnovabile, con l’Agenzia Regionale per le Adozioni Internazionali (Arai) del Piemonte, che è convenzionata anche con Liguria, Valle d’Aosta e Calabria. Obiettivo dichiarato, garantire alle coppie aspiranti all’adozione un’adeguata preparazione e un costante accompagnamento durante tutto il percorso adottivo; realizzare il principio di economicità dell’azione amministrativa; evitare il proliferare di enti che concorrono all’estero per gli stessi fini.
Ora, nel caso del Lazio siamo al paradosso. Visto che questa è la regione italiana in cui si registra il maggior numero di sedi di enti autorizzati, che sono ben 31. Per cui l’Arai, anziché sfoltire, semmai incrementa la pletora di enti autorizzati.
Scettico sull’opportunità del provvedimento anche il garante per l’infanzia del Lazio, Francesco Alvaro:
«Questa convenzione mi è suonata male fin da quando è nata. Pensavo che la nuova amministrazione l’avesse accantonata. Tenendo conto che il contratto è addirittura quinquennale, rischia di devitalizzare su una materia così importante le funzioni della Regione».
E nel merito osserva: «Una spesa di quasi 90mila euro per sole quattro coppie che peraltro non va a beneficio dei richiedenti è più che uno spreco, meriterebbe una riflessione a livello istituzionale. E’ una specie di cantiere aperto, che non si sa dove va a finire».
Castello di Fumone : tra antiche leggende e storie di fantasmi
Prima di appartenere alla famiglia Longhi, Fumone fu principale fortezza militare dello Stato Pontificio del basso Lazio.
“Quando Fumone fuma, tutta la campagna trema”, si diceva, poiché le fumate che venivano prodotte dall’alta torre comunicavano che i nemici stavano giungendo ed avvertivano la popolazione di trovare un rifugio.
Da ciò nacque il detto popolare e anche il nome del paese.
Nel Medioevo, Fumone fu quindi fortezza inespugnabile e si narra che i nemici furono fatti prigionieri e murati vivi al suo interno. La leggenda vuole che, nel castello, ancora oggi i visitatori avvertano le urla di dolore dei malcapitati.
Il castello ha anche una triste fama di essere stato prigione pontificia. Qui vennero perpetrate, ai danni degli infedeli, torture disumane e inimmaginabili. Tra i suoi prigionieri illustri, che fra queste mura terminarono i loro giorni, va ricordato l’”antipapa” Gregorio VIII, il cui corpo non è mai stato ritrovato, e si ritiene che i suoi resti siano stati occultati in qualche intercapedine del castello. Vi fu imprigionato anche Celestino V, il noto papa citato nell’Inferno di Dante Alighieri come pontefice che “fece per viltà il gran rifiuto”.
Celestino V morì proprio nel Castello di Fumone il 19 maggio 1296, e si pensa fu assassinato, poiché il teschio presenta un foro come fosse stato trapassato da un chiodo.
Nel 1988 uno studio radiologico ha confermato che la morte del celebre papa sia avvenuta proprio in seguito ad una perforazione cranica, attribuibile ad un oggetto appuntito.
Le cronache narrano che, poco prima della sua morte, fu vista una croce splendente apparire dinanzi alla sua cella. Da allora si dice che, di tanto in tanto, si sentano battere colpi misteriosi alle pareti. Una visita guidata permette di entrare nelle stanze più importanti del castello, quelle visibili al pubblico.
Nel corso degli anni, infatti, il castello di Fumone è stato trasformato dalla famiglia Longhi in una vera e propria residenza, dove attualmente ancora abitano.
Ma la vicenda più triste per la quale è conosciuta questa fortezza, è senza dubbio quella del “Marchesino” Francesco Longhi, un bimbo di soli 5 anni, ucciso dalle sorelle invidiose nel 1800.
Francesco era l’unico erede maschio della famiglia Longhi e avrebbe quindi acquisito l’intera eredità, secondo la regola della primogenitura maschile. La madre aveva dato alla luce ben sette figlie femmine che, crescendo, non si rassegnarono ai privilegi di Francesco e misero in atto un tremendo piano di vendetta.
Gli misero dell’arsenico nel cibo, ed il piccolo morì tra atroci sofferenze.
Le spoglie furono imbalsamate con la cera, per ordine della madre disperata, che non lo volle seppellire nel tentativo di tenerlo per sempre accanto a sé.
Il corpo del piccolo è esposto in una teca conservata nel castello ed è visibile al pubblico.
La tecnica che fu utilizzata per conservare il corpo del bimbo non è ben chiara, ed il medico che la eseguì morì subito dopo in circostanze misteriose.
La madre non seppe mai la verità, e morì nella convinzione che il suo figlio prediletto fosse morto di polmonite.
Ad appesantire l’atmosfera del castello fu una decisione presa dalla donna stessa, di far ridipingere tutti i ritratti presenti, allo scopo di eliminare ogni scena di felicità e serenità.
Un ritratto nel quale la donna portava un vestito bianco, per esempio, venne modificato. L’abito fu dipinto di nero e fu coperta la collana. Fra le mani comparve una piccola culla con dentro l’effige del suo amato bambino.
Soltanto dopo la morte di quest’ultima, una delle figlie confessò il misfatto. Furono eseguite delle indagini sui capelli del corpo imbalsamato del bimbo e furono effettivamente trovate tracce di arsenico.
Un’altra storia legata alla morte del piccolo Francesco Longhi, narra che il fantasma di sua madre, Emilia Caetani Longhi, si aggiri ancora, senza pace, nelle sale del castello di Fumone. Ogni notte la mamma del “Marchesino” si recherebbe nella stanza dov’è conservata la teca con il corpo di suo figlio per abbracciarlo e cullarlo.
Quando calano le tenebre, quindi, i passi del fantasma riecheggiano nel castello e si odono nenie e singhiozzi provenire dalla stanza della mummia.
Lo stesso “Marchesino”, ogni tanto, si diletterebbe a spostare o nascondere oggetti.
Ed infine, quando si pensa che le storie siano terminate, ecco comparire il “Pozzo delle Vergini”, un pozzo stretto e profondo, dove venivano gettate le ragazze appena sposate che giungevano “impure”al cospetto del proprietario del castello.
Il signorotto locale, imponeva lo “jus primae noctis”, ovvero il “diritto della prima notte”.
Un signore feudale aveva il diritto di trascorrere, in occasione del matrimonio di un proprio suddito, la prima notte di nozze con la sposa.
In poche parole, tutte le ragazze che prendevano marito dovevano trascorrere la prima notte dopo le nozze nel letto del signore, e se costui non ne constatava la purezza, le gettava nel pozzo, dove trovavano una morte atroce, accompagnata da urla strazianti.
Questa “tradizione” è talmente barbara da sembrare assurda! Eppure, il ritrovamento di ossa umane femminili in fondo al pozzo, è stata una conferma che il fatto avvenisse realmente.
Fonte: http://oubliettemagazine.com/
Cosa successe 3.200 anni fa sulle rive orientali del Mediterraneo?
“In pochissimo tempo, l’intero mondo dell’Età del Bronzo crollò”, racconta Israel Finkelstein, archeologo dell’Università di Tel Aviv. “L’impero ittita, l’Egitto dei faraoni, la civiltà micenea in Grecia, il regno di Cipro, celebre per la produzione del rame, la grande città-mercato di Ugarit, sulla costa siriana, le città-Stato cananite, sotto l’egemonia egiziana: tutte queste civiltà scomparvero, e solo dopo qualche tempo furono rimpiazzate dai regni territoriali dell’Età del Ferro, come quelli di Israele e di Giuda”.
Il mistero fa discutere gli scienziati da decenni.
Si è pensato a guerre, pestilenze, disastri naturali improvvisi.
Ora Finkelstein e i suoi colleghi ritengono di aver trovato una soluzione studiando particelle di polline estratti dai sedimenti estratti sul fondo del lago di Tiberiade (o mar di Galilea).
A mettere in crisi quelle civiltà fu la siccità, anzi una serie di gravi periodi di siccità succedutisi nell’arco di 150 anni, tra il 1250 e il 1100 a.C. circa.
L’équipe ha preso in esame campioni di sedimenti depositati sul fondo del lago nel corso degli ultimi 9.000 anni, ed estratti grazie a carotaggi fino a 18 metri di profondità.
Le “impronte digitali” delle piante
“Ci siamo concentrati sull’intervallo di tempo tra il 3200 a.C. e il 500 a.C.”, spiega Dafna Langgut, palinologa (ossia studiosa di antichi pollini) dell’Università di Tel Aviv e autrice, assieme a Finkelstein e al geologo dell’Università Thomas Litt, dello studio, pubblicato questa settimana sulla rivista Tel Aviv: Journal of the Institute of Archaeology of Tel Aviv University.
Studiando campioni di polline prelevati da strati di sedimenti depositati a intervalli di un quarantina d’anni, gli scienziati sono riusciti a ricostruire i cambiamenti avvenuti nella vegetazione.
“I granelli di polline sono le ‘impronte digitali’ delle piante”, dice Langgut. “Sono utilissimi per ricostruire le condizioni della vegetazione e del clima nell’antichità”.
Intorno al 1250 a.C., gli scienziati hanno notato un netto calo della presenza di querce, pini e carrubi, la tradizionale flora del Mediterraneo durante l’Età del Bronzo, e un aumento delle piante che si trovano di solito in regioni semiaride.
Si notava anche una grossa diminuzione degli ulivi, segno di una crisi dell’agricoltura.
Tutto insomma faceva pensare che la regione fosse afflitta da siccità gravi e prolungate.
Carestie e tumulti Gli anni fondamentali per il crollo, prosegue Finkelstein, furono probabilmente quelli tra il 1185 e il 1130 a.C., ma si trattò di un processo che avvenne su un arco di tempo abbastanza lungo.
“Secondo me il cambiamento climatico può essere considerato una sorta di scintilla che diede il via a una serie di eventi a catena.
Ad esempio, il crollo dei raccolti costrinse alcuni gruppi che abitavano nelle regioni settentrionali a migrare in cerca di cibo, magari scacciando altre comunità che a loro volta si spostarono per terra e per mare.
Questa reazione a catena suscitò guerre e distruzioni e mise in crisi il delicato sistema commerciale del Mediterraneo orientale.
Le conclusioni raggiunte dagli scienziati, anche grazie alla datazione al radiocarbonio, coincidono quasi alla perfezione con i pochi resoconti storici del periodo, che appunto narrano di carestie, interruzioni delle rotte commerciali, tumulti, saccheggi e guerre per impadronirsi delle scarse risorse.
La tarda Età del Bronzo fu anche il periodo in cui bande di predoni, detti “Popoli del mare” cominciarono a razziare le coste della regione.
La crisi finì solo con il ritorno delle piogge, quando le comunità costrette al nomadismo dalla fame poterono tornare stanziali.
National Geographic
Università di Tel Aviv
Antiche strisce di bambù cinesi sarebbero la prima moltiplicazione
Fila di frammenti di bambù scritte in calligrafia cinese per ricreare un dispositivo di matematica che è stato utilizzato 2300 anni fa, che la rende la tavola pitagorica in decimali più antiche del mondo.Nel 2008, i ricercatori della Tsinghua University di Pechino hanno ricevuto quasi 2.500 strisce di bambù quasi distrutte da un donatore che l'aveva comprata in un mercato di Hong Kong.Risale a circa 305.a C., periodo degli Stati Combattenti prima che la Cina si sia unita durante la dinastia Qin.Ogni striscia è tra 0,7 e 1,3 centimetri di larghezza e 50 centimetri di lunghezza, con una linea verticale di calligrafia con inchiostro nero.Le 21 strisce presentano solo numeri e formano una struttura a matrice quando disposti correttamente. La riga superiore e la colonna di destra contiene gli stessi 19 numeri (da sinistra a destra e dall'alto in basso: 0.5, i numeri da 1 a 9, e multipli di 10 tra il 10 e il 90)."Le strisce erano tutte mischiate, poiché la corda usata per legare ogni manoscritto in un rotolo si era deteriorata molto tempo fa", ha detto il ricercatore Li Junming, secondo la rivista Nature , aggiungendo che era "come un puzzle", perché alcune parti erano rotte e altra mancanti ."Effettivamente si tratta di una calcolatrice".La matrice può essere utilizzata in vari modi, per esempio, le voci in cui ogni riga e ogni colonna sono unite sono il risultato della moltiplicazione di questi numeri, e può essere calcolata qualsiasi intero o semi-intero compreso tra 0,5 e 99,5.Il team ritiene che il sistema può essere stato usato dai funzionari per calcolare la superficie della terra, i raccolti e le tasse. "Anche noi possiamo usare la matrice per fare divisioni e radici quadrate", ha detto lo storico Feng Lisheng. "Questo tipo molto complesso per la moltiplicazione è assolutamente unico nella storia della Cina",
Fino ad ora, le prime tavole conosciute cinesi esse sono stati utilizzate durante la dinastia Qin tra 221 e 206. aC.
Il gatto più peloso del mondo
Colonel Meow è un gatto da record: cos’è che rende questo felino così particolare rispetto agli altri suoi simili?
Colonel Meow è un gatto incrociato con due delle razze più belle ed amate al mondo: il persiano e l’himalayano. La sua caratteristica è la lunghezza del pelo, talmente straordinaria da meritare il Guinness World Record per essere il gatto con il pelo più lungo al mondo; ben 22,87 cm! La misura è stata rilevata da un’equipe di veterinari riunita a Los Angeles, dove il cucciolo vive con la sua padrona Anne Marie in una villa. La presenza di Colonel Meow nell’elenco dei record mondiali sarà ufficializzata il prossimo 12 settembre, con l’uscita del libro sui Guinnes 2014.
Il gatto dei record ha subito conquistato tantissimi fans, grazie in particolare ai social network.
La vita di questo pet non è sempre stata coccole e lustrini: Colonel Meow, infatti, ha un passato da gatto di strada e Anne Marie lo ha adottato dopo che alcuni volontari l’hanno salvato da un futuro incerto. Oggi ha invece la fortuna di essere viziato con pappa di primissima qualità, uno spazio a lui interamente dedicato e toelettatura una volta a settimana.