lunedì 30 settembre 2013

Le lontre marine, custodi delle foreste sottomarine


L'interno di un ecosistema, l'equilibrio delicato e dinamico che si crea è mantenuto da una fitta rete di interazioni, sia dirette che indirette, tra le diverse specie e tra queste e l'ambiente.
 Per questo motivo, quando avvengono oscillazioni delle popolazioni di una specie, le conseguenze si rispecchiano su tutta la biocenosi. 
 Un esempio di questo viene da un bellissimo studio che ha dimostrato come l'abbondanza di lontre di mare (Enhydra lutris) possa influenzare fortemente le dinamiche dell'intero ecosistema nonché la dieta e le abitudini alimentari di un predatore terrestre ai vertici della rete trofica: l'aquila di mare testabianca (Haliaeetus leucocephalus).
 Lo studio, pubblicato sull'ultimo numero della rivista Ecology, è stato condotto presso le isole Aleutine, arcipelago che si estende tra l'Alaska e la Siberia e che ospita nelle sue acque l'ecosistema marino del tutto particolare delle foreste di kelp.


Il kelp è un'alga bruna dalle foglie molto larghe che cresce appena al di sotto della superficie e può formare delle vere e proprie foreste sottomarine, che forniscono cibo e protezione a moltissime specie di pesci e invertebrati. 

Il principale nemico del kelp, che vive e si nutre dei suoi tessuti vegetali, è un piccolo riccio di mare, le cui popolazioni in caso di crescita esponenziale possono distruggere le intere foreste e compromettere l'esistenza di tutte le forme di vita legate a questo ambiente. 
E' stato da tempo osservato come l'equilibrio dell'intero ecosistema venga mantenuto dalla presenza delle lontre marine, che si nutrono in prevalenza di questi invertebrati, e dei loro predatori, le orche (Orcinus orca).
 E' stato documentato infatti che all'aumentare del numero di orche si osserva un sostanziale decremento delle lontre e una conseguente riduzione dell'estensione delle foreste di kelp. 

Lo slittamento da un ecosistema marino ricco di alghe verso uno che ne è privo, comporta però non solo problemi per le specie che vi abitano, ma anche per quelle che utilizzano le foreste di kelp come luogo di caccia. 
Infatti, la riduzione della presenza di pesci e invertebrati legati a questo ecosistema può influenzare i comportamenti e le strategie di caccia di predatori sia acquatici che terrestri, come le aquile di mare testabianca che nidificano sulle coste vicine.


In risposta alla differente disponibilità di prede, infatti, le aquile sembrano aver modificato le proprie abitudini di caccia e la propria dieta. 
Un gruppo di ricercatori della Oregon State University ha infatti monitorato la presenza delle diverse tipologie di prede all'interno dei nidi di questa specie dalla metà degli anni '90 a oggi.
 Nei periodi in cui le lontre erano abbondanti la dieta predominante di questi rapaci era a base di pesci legati alle foreste di kelp e cuccioli di lontra. 
Al contrario, negli ultimi anni, in cui si è verificato un netto calo demografico delle lontre di mare come conseguenza dell'aumento delle popolazioni di orche che vivono in quelle acque, le prede cacciate con maggior frequenza sono gli uccelli marini.
 Sembra perfino che nei periodi di dieta a base di uccelli, le aquile abbiano deposto più uova e portato all'involo in media un numero maggiore di pulcini. 
Forse questo incremento del successo riproduttivo è legato a condizioni climatiche e meteorologiche favorevoli presentatesi in quegli anni, ma i ricercatori pensano che possa essere il frutto del maggior contenuto calorico ottenuto dal consumo di uccelli marini anziché di pesci e lontre.
 Come si è visto, l'abbondanza di una specie all'interno di un ecosistema può condizionare mediante un effetto domino le dinamiche di popolazione di molte altre, anche di quelle con cui apparentemente non entrano in contatto.


http://www.pikaia.eu/

Una cantina in fondo al mare


Capitan Nemo offrì ai suoi ospiti sul Nautilus pesci rari e un «liquore fermentato estratto dall’alga nota col nome di “rodomenia palmata”».
 Lo credevano matto, racconta Jules Verne in ”Ventimila leghe sotto i mari”, quando invitò tutti a una battuta di caccia nella sua foresta di Crespo, nel Pacifico, rivelando che si trattava di boschi sottomarini. Ma la foresta esisteva davvero e tutti la videro usando speciali scafandri. 
Quei viaggi tra perle giganti, mostri e tunnel segreti che portano al Mediterraneo, vengono in mente ascoltando il racconto di un’impresa meno epica ma carica dello stesso fascino che porta alla scoperta di nuovi mondi nascosti. 

L’avventura sottomarina è quella di Pierluigi Lugano, 65 anni, ex professore di storia dell’arte e ora vignaiolo.
 Ha aperto la prima cantina d’Italia in fondo al mare. Ha stivato ogni anno 15 mila bottiglie a 60 metri di profondità. E ora ha portato a galla un nuovo vino: un migliaio di bottiglie con un primato di immersione, 30 mesi tra pesci e alghe.
 Il nuovo vino si chiamerà Abissi Riserva, uno spumante, o per meglio dire un Metodo classico, ovvero un vino prodotto con la stessa procedura di uno champagne. 
Solo che le bottiglie, invece di riposare in cantine buie, spesso storiche, con il giusto grado di temperatura e servizio, vengono adagiate sul fondale davanti alla Cala degli Inglesi, nel Parco marino di Portofino.


Sembrava una idea al limite della follia, una trovata per attirare l’attenzione. Invece ha funzionato. Non solo, ne ha scritto un esperto di vino come Alan Tardi sul New York Times e ne hanno parlato le televisioni di mezzo mondo (l’ultimo servizio è stato mandato in onda in Russia).
 Anche dalle degustazioni sono arrivati giudizi positivi:
 «Molto coerente, deciso e ficcante» è ad esempio il giudizio di Ernesto Gentili e Fabio Rizzardi sulla guida dei vini d’Italia dell’Espresso.
 Lugano ha iniziato la sua seconda vita («dopo aver girovagato come insegnante tra scuole medie e licei dal Veneto alla Sardegna») nel 1978. Fonda l’azienda Bisson. L’idea è semplice: recuperare vitigni locali della Riviera del Levante, acquistando uve da piccoli contadini e vinificando poi con tecniche moderne. Arrivano in cantina, a Chiavari, le uve di Bianchetta genovese e Vermentino ligure. Poi di Ciliegiolo e Cimixià.
 «Dopo qualche anno ho iniziato la seconda fase — racconta Lugano — ho impiantato vigneti miei e ho pensato a uno spumante. Ma non avevo una cantina sotterranea, non sapevo dove poter affinare il vino che ha bisogno di penombra e temperatura costante. E ho pensato a tutti quei galeoni naufragati con carichi a volte sopravvissuti dopo centinaia di anni sott’acqua».

 Nel maggio del 2009 è partito il primo esperimento, 6.500 bottiglie che sono state messe in vendita due anni dopo, poco prima di Natale. «Non sono operazioni semplici — spiega Lugano — le bottiglie vengono stivate in cassoni d’acciaio e portate sul fondale da sub esperti che si danno il turno, perché più di 15 minuti non possono stare in profondità. Serve un rimorchiatore attrezzato per assisterli».


Quando tornano sulla terra le bottiglie sono piccole opere d’arte, impreziosite dal tempo, come quelle di Kounellis che sono state esposte alla Fondazione Cini di Venezia nella mostra «Fragile come il vetro» nell’aprile scorso.
 Crostacei, alghe, stelle marine, conchiglie, residui di vita marina restano saldati alle bottiglie, che vengono avvolte da un pellicola trasparente prima di essere portate nelle enoteche e vendute a circa 40 euro per quanto riguarda la versione «normale» di Abissi, quella con 18 mesi affinamento.
 Abissi viene prodotto con i vitigni autoctoni, Bianchetta, Cimixià e Vermentino, con le uve dei 15 ettari di Bisson. C’è anche una versione rosè (con l’aggiunta di Ciliegiolo), che debutterà a novembre assieme alla Riserva.


Ora Lugano potrebbe ripetere quello che pensava Capitan Nemo alla cena prima della battuta di caccia nella foresta sottomarina: 
«Mi avete creduto matto. Non bisognerebbe mai giudicare gli uomini alla leggera».

Placebo : una cura fatta di niente


Medicine che funzionano sempre, anche se dentro c'è solo acqua fresca: si chiama "effetto placebo" ed è noto da sempre. 

Per secoli la sua efficacia è stata fonte di imbarazzo per medici e ricercatori, in quanto mette in dubbio il valore di rimedi anche molto costosi. Recentemente, però, la scienza lo ha rivalutato e si è chiesta come funziona e perché. Scoprendo che il successo del placebo sembra collegato alla produzione di dopamina, una sostanza prodotta dal nostro organismo che funziona da neurotrasmettitore e che attiva dei recettori, alcuni dei quali agiscono in un'area del cervello correlata alla percezione del piacere e del dolore.
 Un risultato che, se confermato, potrebbe avere grande importanza addirittura nell'individuazione di nuove terapie.

Non vale per tutti, ma per tanti sì: ad alcune persone, la sola idea di ingerire una pillola, a prescindere da cosa contenga, fa passare tutti i mali. E quando i mali non sono immaginari, c'è proprio da chiedersi... com'è possibile? La risposta la propone una ricerca recente: l'effetto placebo sarebbe collegato alla produzione di dopamina, un neurotrasmettitore che agisce, tra l'altro, in un'area del cervello nota come "nucleo accumbens", che riveste un ruolo basilare rispetto alla percezione del piacere e del dolore. 
 Psichiatri dell'Università del Michigan hanno somministrato a un gruppo di volontari un'iniezione dolorosa, rassicurandoli sul fatto che in seguito sarebbe stato dato loro un analgesico.
 A tutti è stato invece dato un placebo. Poi, gli stessi volontari sono stati sottoposti a una tomografia a emissione di positroni (PET) per osservare l'effetto del finto antidolorifico, che era una comune soluzione salina. Effetto che si è presentato, ma solo in coloro in cui lo scanner ha evidenziato un'elevata attività cerebrale legata alla dopamina. Mentre alcuni dei volontari, per i quali il placebo non ha funzionato, hanno accusato addirittura più dolore (in questo caso si parla di "effetto nocebo").

Non soddisfatti, gli scienziati qualche giorno dopo hanno sottoposto i volontari a una risonanza magnetica funzionale (fMRI), per vedere quali aree del cervello si attivavano durante un gioco che avrebbe potuto fare loro vincere del denaro (meccanismo di gratificazione).
 Ebbene, anche in quel caso è stato il nucleo accumbens a mostrare un'elevata attività, e negli stessi soggetti che già erano risultati "positivi" al test del placebo. «L'attività dopaminica in risposta a un placebo è direttamente proporzionale ai benefici che un paziente si aspetta di ricevere», sono state le conclusioni di Jon Kar Zubieta, professore di Psichiatria all'University of Michigan e leader del team di ricercatori. «Più crediamo che una pillola abbia effetto, più ne avrà. Avere acquisito oggi questa evidenza scientifica potrebbe essere di grande aiuto per individuare nuove terapie per soggetti particolarmente sensibili ai principi attivi dei farmaci che devono prendere» 

Fonte : focus.it