martedì 9 luglio 2013
QUEL PRETE ERITREO CHE DAL VATICANO ANNUNCIA ALLA GUARDIA COSTIERA LE COORDINATE DEI BARCONI DELLA SPERANZA
Un prete eritreo riceve una telefonata, l’ennesima.
E’ sempre lui, Don Mosé Zerai, tutti i passeurs hanno il suo numero. Dietro ogni sbarco con “telefonata”, c’è il prete eritreo.
Prima c’era anche Boldrini, ora ha altri impegni. Il traffico funziona in questo modo.
Si prende il mare dalla Libia, poi si danneggia il barcone e si avvisa Don Mosè Zerai – il sacerdote eritreo responsabile dell’agenzia Habeshia – da quel momento parte la segnalazione del sacerdote alla Guardia Costiera: “mi hanno chiamato e stanno affondando, sono…”.
Il resto lo immaginate: i nostri “crocerossini” corrono in acque libiche a prendersi i clandestini.
In basso troverete una serie di screenshots che il “prete” pubblica sulla sua pagina Facebook, segnalando ai coloni già presenti in Italia la sua attività.
Tutto avviene alla luce del sole.
Con la protezione del Vaticano.
Poi, però, quelli che lui definisce profughi – di quale guerra? – non finiscono in Vaticano, ma nelle nostre città.
Intanto nessun magistrato indaga.
Eppure ci sarebbero ottimi motivi: come mai gli scafisti hanno il suo numero?
Conoscete disperati col satellitare?
E’, il prete, per caso anche implicato nella truffa dei falsi profughi minorenni?
A quanto pare, la procura di Roma non ha tempo per indagare Don Mosè Zerai e i suoi strani contatti.
Il business dei “profughi” è un business fiorente che ha ben attecchito nella cerchia dei “preti” xenofili e delle loro associazioni. Non è quindi bizzarro che, visti i soldi che ogni immigrato vale per l’associazione che lo ospita, la stessa cerchi di farne arrivare il più possibile.
Bizzarro è che nessuno indaghi. Intanto, altri 1000 invasori – e altri in arrivo secondo Zerai, che è più aggiornato dell’Ansa, sono stati raccolti dalla Guardia Costiera e, da oggi, riceveranno 45€ al giorno delle nostre tasse.
Vitto e alloggio escluso, ovviamente.
Ancora più scioccante, è che la Guardia Costiera risponda con ossequio al ‘prete’- lo leggerete negli screenshots in basso – e che, una volta salvato il barcone, la prima volta, non abbia richiesto indagini su questo personaggio che riceve chiamate dai trafficanti di carne umana.
No, continuano a correre dove lui li manda.
Nessuno fa un’interrogazione parlamentare? https://www.facebook.com/abbamussie.zerai http://patrick.blog.tiscali.it/?doing_wp_cron Abba Mussie Zerai RESPONSABLE presso Catholic Church
Ha studiato Morale sociale presso Pontifical Urbaniana University Vive a Villars-sur-Glâne, Switzerland
Al Ain, un’oasi di storia e verde nel mezzo del deserto
Nel corso degli ultimi anni, gli Emirati Arabi Uniti hanno puntato sullo sviluppo ipertecnologico, anche architettonicamente, di città come Dubai ed Abu Dhabi per attrarre il turismo d’elite internazionale.
Gli Emirati, però, posseggono anche una vero e proprio tesoro di cultura nel deserto: Al Ain, città di mezzo milioni di abitanti posta al confine con l’Oman.
Chiamata anche la Città Giardino, sorge sull’oasi di Buraymi, una delle più rigogliose del deserto arabo, situata ai piedi del Jebel Hafeet, la seconda montagna degli Emirati, alta 1340 metri. E proprio la montagna è una delle mete da non perdere: la vista della città dall’alto, infatti, rappresenta uno spettacolo mozzafiato.
Il soprannome di Garden City si deve al gran numero di parchi e giardini che si trovano ad Al Ain, oltre che al divieto di costruire palazzi superiori ai quattro piani d’altezza, voluto per preservare il paesaggio millenario della città.
Il primo insediamento dell’uomo nel territorio in cui sorge attualmente Al Ain risale, infatti, ad oltre 4mila anni fa.
La città attualmente è considerata il luogo di maggiore interesse culturale del paese, contenendo alcuni siti archeologici che sono stati inseriti nel patrimonio mondiale dell’Unesco. Tra questi, il sobborgo di Hili, risalente all’età del bronzo.
Altra caratteristica peculiare di Al Ain sono le numerose sorgenti d’acqua sotterranee: ancora oggi è possibile visitare i falaj, tradizionali sistemi d’irrigazione fatti di canalizzazioni sotterranee che a tratti emergono in superficie.
Da non perdere, infine, il tradizionale suk dei cammelli, vicino al confine con l’Oman, dove ogni giorno va in scena la compravendita di questi animali tra centinaia di mercanti.
I segreti rivelati dell'antica città sommersa di Pavlopetri
Una volta, tanto tempo fa, esisteva un luogo unico al mondo abitato da una civiltà avanzata. Poi successe qualcosa di drammatico e la città scomparve tra le acque del mare Atlantide? No, Pavlopetri, una città sommersa al largo della costa sud della Laconia, nel Peloponneso, Grecia.
Secondo gli studiosi, con i suoi 5000 anni di età, è una delle città sommerse più antiche del pianeta. Si tratta di un sito archeologico unico nel suo genere: le profondità del mare ospitano un'intera cittadella composta da edifici, strade, cortili e tombe.
Gli archeologi hanno contato almeno 15 edifici ben conservati, con le loro pareti realizzate in 'aeolianite', una roccia composta dalla litificazione dei sedimenti prodotti dall'azione erosiva del vento, ma anche di roccia arenaria e blocchi di calcare, tutte assemblate rigorosamente senza malta.
Tutta la città copre un area pari a otto campi da calcio. A vederla, sembra che sia stata congelata nel tempo: abbiamo davanti ai nostri occhi un'intera città dell'età del bronzo, un legame tra il nostro passato e l'epoca contemporanea, con numerosi misteri che aspettano solo di essere svelati.
La città sommersa di Pavlopetri fu scoperta casualmente nel 1967 dall'oceanografo Nicholas Flemming, durante la ricerca di prove sul cambiamento del livello del mare nella zona.
L'anno dopo, nel 1968, un team di archeologi dell'Università di Cambridge eseguì una mappatura dettagliata del sito. Nonostante il grandissimo interesse archeologico della scoperta, nessun'altra esplorazione fu eseguita negli anni successivi. Almeno fino al 2011, quando Jon Henderson, ricercatore presso l'Università di Nottingham, ha fatto del suo meglio per portare in vita l'interesse su quella che lui stesso ha definito la 'Pompei subacquea'.
Grazie alla collaborazione offerta del Ministero della Cultura Ellenico, Henderson ha guidato un team della British School at Athens per registrare e ricostruire digitalmente l'aspetto dell'antica città. Come spiega lo stesso Henderson sull'Huffington Post, Pavlopetri non era una città di semplici agricoltori, ma una città portuale che ospitava una società sofisticata, con abitazioni su due piani e una rete stradale ben pianificata.
Gli edifici più grandi sembrano essere quelli pubblici, mentre altri indizi fanno ipotizzare che la città fosse addirittura in possesso di sistemi per la gestione dell'acqua. Le case private erano fornite di giardini, cortili e mura di confine ben definite. Secondo il ricercatore, la città di Pavlopetri, antica di 5000 anni, era molto simile alle nostre zone residenziali suburbane.
Pavlopetri è stata una vera novità sullo scenario d'Europa: non una città basata sulla centralità di una divinità o di un re, ma piuttosto basata sul commercio e l'economia.
Come città portuale, doveva essere crocevia di un inebriante mix culturale. Come le moderne città costiere, la sua ricchezza era stata costruita grazie al commercio, con operatori in contatto con le ultime innovazioni e all'avanguardia sulle mode e le tendenze dell'epoca.
Nonostante parliamo di una cittadina di 5000 anni fa, le scoperte di Henderson hanno permesso di comparare Pavlopetri alle moderne città portuali, quali Liverpool, Shangai, Londra, New York, San Francisco e Tokyo.
La società era molto complessa: c'era la classe dirigente, i funzionari, gli scrittori, i mercanti, i commercianti, gli artisti e gli artigiani, maestri nell'arte delle ceramica e nella lavorazione del bronzo. Ma c'erano anche soldati, marinai, contadini e pastori. Sembra incredibile, ma un insediamento dell'età del bronzo mostra un'organizzazione gerarchica ben organizzata, dove ognuno aveva un ruolo chiaro e ben definito, in maniera molto simile alle nostre società moderne.
Sparsi su tutto il fondale di Pevlopetri, gli archeologi hanno trovato centinaia di grandi serbatoi di stoccaggio che probabilmente venivano facilmente caricati sulle navi per trasportare olio, vino, coloranti, profumi e piccoli oggetti come statuette e ceramiche da tavola.
Il grande numero di ritrovamenti suggerisce che la città fosse in possesso di un complesso sistema centralizzato di archiviazione, dato che tutte le operazioni di carico e scarico richiedevano un livello avanzato di gestione amministrativa e contabile, al fine di tenere traccia delle importazioni e delle esportazioni. E' molto probabile che queste operazioni fossero registrate per iscritto, quindi Pavlopetri potrebbe fornire la prima forma di scrittura in Europa, anche se nessuna prova definitiva è stata ancora trovata.
Gli archeologi ritengono che la città sia sprofondata nelle acque del mare intorno al 1000 a.C., a seguito di tre terremoti che colpirono la zona. La città fu ovviamente abbandonata e, sebbene l'erosione causata dal passare dei millenni, la città è rimasta praticamente uguale a come era 5000 anni fa, fotografata in un immagine che apre una straordinaria finestra sul nostro passato, a quanto pare, ancora tutto da ricostruire.
Fonte : ilnavigatorecurioso
Foto dal web
Come è nato il simbolo del dollaro?
Sull’origine del simbolo che compare sulle banconote statunitensi esistono diverse versioni.
Secondo alcuni infatti fu il presidente americano Thomas Jefferson a inventarlo, partendo dal monogramma delle sue iniziali (TSJ) . Altri ritengono invece che derivi dalla sovrapposizione della U e della S di United States. In seguito la U, per ignoranza, o per errori di trascrizione, fu rimpiazzata da due linee (II).
Molto probabilmente però la sua origine è spagnola. La famiglia reale spagnola aveva nel suo stemma due colonne (che rappresentavano le colonne d’Ercole di Gibilterra) e una bandiera spiegata su cui era scritto “Plus Ultra”.
Questa immagine appariva sul peso spagnolo e poi su quello delle colonie, e assomiglia abbastanza al moderno segno del dollaro. Attualmente, per velocizzare la scrittura, viene sempre più spesso utilizzata una sola barra.
Secondo alcuni infatti fu il presidente americano Thomas Jefferson a inventarlo, partendo dal monogramma delle sue iniziali (TSJ) . Altri ritengono invece che derivi dalla sovrapposizione della U e della S di United States. In seguito la U, per ignoranza, o per errori di trascrizione, fu rimpiazzata da due linee (II).
Molto probabilmente però la sua origine è spagnola. La famiglia reale spagnola aveva nel suo stemma due colonne (che rappresentavano le colonne d’Ercole di Gibilterra) e una bandiera spiegata su cui era scritto “Plus Ultra”.
Questa immagine appariva sul peso spagnolo e poi su quello delle colonie, e assomiglia abbastanza al moderno segno del dollaro. Attualmente, per velocizzare la scrittura, viene sempre più spesso utilizzata una sola barra.
I ghepardi
Campioni di accelerazione, non di velocità
Il segreto degli inseguimenti perfetti di questo felino non è la velocità ma la capacità di moderarla a piacimento e in brevissimo tempo.
Tutti li consideriamo le "schegge" del mondo animale, ma secondo un nuovo studio i ghepardi (Acinonyx jubatus) non sono poi così veloci.
Piuttosto, è la loro capacità di accelerazione a seminare i rivali (e a terrorizzare le prede).
«È opinione comune che i ghepardi raggiungano velocità incredibilmente alte, anche 97 chilometri orari» spiega Alan Wilson, del Royal Veterinary College dell'Università di Londra «ma queste misurazioni sono state fatte con strumenti imprecisi».
Oltre che su animali tenuti in cattività e poco abituati a cacciare.
La potenza è nulla, senza controllo
Per ricavare dati più precisi Wilson ha sistemato su tre femmine e due maschi di ghepardo della savana africana speciali collari muniti di GPS, accelerometri, giroscopi e altri strumenti per monitorare le corse di questi felini.
La velocità più alta registrata richiama i record che già conosciamo: 93 chilometri orari.
Ma - sorpresa - la velocità media è ben più modesta, 54 chilometri all'ora.
È stata piuttosto l'abilità nell'accelerazione a lasciare di stucco gli scienziati: con un singolo balzo, il ghepardo può accelerare fino a 3 metri al secondo, o decelerare di 4 metri al secondo, uno sforzo che richiede una potenza muscolare pari a 4 volte quella utilizzata da Usain Bolt nei 100 metri olimpici. 100 metri, ghepardo vs Bolt: chi vincerà?
Il successo dei ghepardi durante la caccia, quindi, non dipenderebbe dalla velocità ma, piuttosto, da questa incredibile capacità di manovra e da un sapiente dosaggio del proprio scatto: a gazzelle e impala non resta che provare a scappare.
di: Elisabetta Intini
Il segreto degli inseguimenti perfetti di questo felino non è la velocità ma la capacità di moderarla a piacimento e in brevissimo tempo.
Tutti li consideriamo le "schegge" del mondo animale, ma secondo un nuovo studio i ghepardi (Acinonyx jubatus) non sono poi così veloci.
Piuttosto, è la loro capacità di accelerazione a seminare i rivali (e a terrorizzare le prede).
«È opinione comune che i ghepardi raggiungano velocità incredibilmente alte, anche 97 chilometri orari» spiega Alan Wilson, del Royal Veterinary College dell'Università di Londra «ma queste misurazioni sono state fatte con strumenti imprecisi».
Oltre che su animali tenuti in cattività e poco abituati a cacciare.
La potenza è nulla, senza controllo
Per ricavare dati più precisi Wilson ha sistemato su tre femmine e due maschi di ghepardo della savana africana speciali collari muniti di GPS, accelerometri, giroscopi e altri strumenti per monitorare le corse di questi felini.
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Ma - sorpresa - la velocità media è ben più modesta, 54 chilometri all'ora.
È stata piuttosto l'abilità nell'accelerazione a lasciare di stucco gli scienziati: con un singolo balzo, il ghepardo può accelerare fino a 3 metri al secondo, o decelerare di 4 metri al secondo, uno sforzo che richiede una potenza muscolare pari a 4 volte quella utilizzata da Usain Bolt nei 100 metri olimpici. 100 metri, ghepardo vs Bolt: chi vincerà?
Il successo dei ghepardi durante la caccia, quindi, non dipenderebbe dalla velocità ma, piuttosto, da questa incredibile capacità di manovra e da un sapiente dosaggio del proprio scatto: a gazzelle e impala non resta che provare a scappare.
di: Elisabetta Intini