martedì 4 giugno 2013
Irlanda: Skellig Michael, un antico monastero in mezzo all'oceano
Skellig Michael (dal gaelico irlandese: Sceilig Mhichíl, che significa "roccia di Michele") o anche Grande Skellig (Great Skellig), è l'isolotto più grande delle due isole Skellig.
Situato a circa 17 km dalle coste del Kerry, è un luogo di notevole importanza sia a livello paesaggistico e naturalistico, ma soprattutto per la presenza sulla sua sommità di uno straordinario quanto poco accessibile monastero di origine cristiana costruito nel 588 e divenuto patrimonio dell'umanità protetto dall'UNESCO nel 1996.
Il luogo non è oggetto di moltissime visite da parte dei turisti, scoraggiati dalla sua remota e sperduta posizione, ma anche da numerose restrizioni da parte del governo irlandese: solo 10 imbarcazioni hanno il permesso di salpare dalle coste del Kerry, con un massimo di 12 persone a bordo e soltanto una volta al giorno. Ne deriva che il posto è preservato in maniera eccellente.
L'interno del monastero, spartano fino all'eccesso, è un'immagine palese dell'ascetismo e della vita rigorosa praticata dai monaci del primo Cristianesimo irlandese. I monaci vivevano in piccole celle circolari (clochans) fatte di pietra viva asciutta incastrata, costruiti praticamente sulla sommità di scogliere a picco sul mare alte circa 60 metri.
Il monastero è accessibile da un'impervia scalinata scavata nella roccia
e presenta accanto un'antica High Cross.
Il monastero sopravvisse a una razzia vichinga nell'823, con una successiva espansione culminata con la costruzione della cappella centrale all'inizio del primo millennio. Fu abbandonato un secolo dopo circa dall'ultima espansione e riscoperto nel XVI secolo per pellegrinaggi annuali, ma senza residenti fissi. Nel 1826 fu costruito un faro e nel 1986 furono intrapresi dei lavori di restauro per aprire il luogo ai turisti.
Recentemente, tuttavia, l'accesso ai turisti è stato sempre più limitato per cercare di conservare al meglio questo luogo eccezionale e unico al mondo: in particolare ciò che desta più preoccupazione è la particolare scalinata, da un lato non particolarmente sicura per le persone, dall'altro in pericolo di degradazione se percorsa da troppa gente.
Nell'aprile del 2008 sono state realizzate delle monete euro commemorative raffiguranti Skellig Michael per celebrare l'ingresso del sito nei luoghi protetti UNESCO avvenuto 12 anni prima.
Una vergogna antica
I resti di un bambino di uno o due anni di età, ritrovati nel cimitero romano-cristiano dell'Oasi di Dakhleh, in Egitto, ha mostrato agli studiosi segni di abusi fisici.
Il piccolo, vissuto 2000 anni fa, rappresenta il primo caso documentato di abusi su minori annoverato dall'archeologia e il primo caso in Egitto.
Dakhleh è una delle sette oasi del deserto occidentale egiziano. Il sito è stato, praticamente, abitato in forma continua sin dal periodo neolitico, attirando, per questo, l'attenzione degli archeologi.
I cimiteri scavati finora hanno permesso agli studiosi di gettare uno sguardo prezioso sugli inizi del cristianesimo in Egitto. In particolare il cimitero Kellis 2 riflette le pratiche mortuarie proprie della comunità cristiana. I metodi di datazione al carbonio radioattivo, applicati agli scheletri rinvenuti, suggeriscono che il cimitero è stato utilizzato tra il 50 e il 450 d.C.
Proprio in questo cimitero gli archeologi e gli antropologi si sono imbattuti nello scheletro del piccolo maltrattato, che presenta diverse fratture sulle braccia. I resti sono stati sottoposti ad una serie di indagini ai raggi X, istologici e isotopici, che hanno permesso di individuare le variazioni metaboliche con le quali il piccolo corpo ha cercato di curare se stesso. Queste analisi hanno ulteriormente sottolineato la presenza di fratture in tutto il corpo, nelle costole, nel bacino e nella schiena.
Le lesioni erano tutte a diversi stadi di guarigione. Una delle fratture più interessati era situata nella parte superiore delle braccia del bambino. I ricercatori hanno dedotto che qualcuno ha afferrato il piccolo per le braccia e lo ha scosso violentemente. Altre fratture, per esempio quelle alle costole, sono state provocate da colpi diretti. Ad uccidere il bambino, secondo gli antropologi, sarebbe stata l'ultima frattura, quella alla clavicola.
Per quel che riguarda gli abusi sui bambini, dal punto di vista archeologico se ne sono trovate tracce in Francia, in Perù e nel Regno Unito solo per quel che riguarda il medioevo ed i periodi successivi.
Delle 158 sepolture di minori scavate nel cimitero Kellis 2, solo la sepoltura del bambino - identificata dal numero 519 - mostra segni di traumi ripetuti non accidentali, riconducibili ad atti di violenza perpetrati sul piccolo.
Foto: Sandra Wheeler
Il piccolo, vissuto 2000 anni fa, rappresenta il primo caso documentato di abusi su minori annoverato dall'archeologia e il primo caso in Egitto.
Dakhleh è una delle sette oasi del deserto occidentale egiziano. Il sito è stato, praticamente, abitato in forma continua sin dal periodo neolitico, attirando, per questo, l'attenzione degli archeologi.
I cimiteri scavati finora hanno permesso agli studiosi di gettare uno sguardo prezioso sugli inizi del cristianesimo in Egitto. In particolare il cimitero Kellis 2 riflette le pratiche mortuarie proprie della comunità cristiana. I metodi di datazione al carbonio radioattivo, applicati agli scheletri rinvenuti, suggeriscono che il cimitero è stato utilizzato tra il 50 e il 450 d.C.
Proprio in questo cimitero gli archeologi e gli antropologi si sono imbattuti nello scheletro del piccolo maltrattato, che presenta diverse fratture sulle braccia. I resti sono stati sottoposti ad una serie di indagini ai raggi X, istologici e isotopici, che hanno permesso di individuare le variazioni metaboliche con le quali il piccolo corpo ha cercato di curare se stesso. Queste analisi hanno ulteriormente sottolineato la presenza di fratture in tutto il corpo, nelle costole, nel bacino e nella schiena.
Le lesioni erano tutte a diversi stadi di guarigione. Una delle fratture più interessati era situata nella parte superiore delle braccia del bambino. I ricercatori hanno dedotto che qualcuno ha afferrato il piccolo per le braccia e lo ha scosso violentemente. Altre fratture, per esempio quelle alle costole, sono state provocate da colpi diretti. Ad uccidere il bambino, secondo gli antropologi, sarebbe stata l'ultima frattura, quella alla clavicola.
Per quel che riguarda gli abusi sui bambini, dal punto di vista archeologico se ne sono trovate tracce in Francia, in Perù e nel Regno Unito solo per quel che riguarda il medioevo ed i periodi successivi.
Delle 158 sepolture di minori scavate nel cimitero Kellis 2, solo la sepoltura del bambino - identificata dal numero 519 - mostra segni di traumi ripetuti non accidentali, riconducibili ad atti di violenza perpetrati sul piccolo.
Foto: Sandra Wheeler
Italiani cornuti e mazziati col beneplacito dei nostri misericordiosi politici
Schio, la sagra è un inferno: dieci feriti
Tra la gente è indignazione per l'accaduto
SS. TRINITÀ.
L'altra sera è scoppiato il putiferio davanti alla chiesa parrocchiale dove si stava svolgendo la festa. Alcuni nomadi dopo avere bevuto hanno innescato una zuffa che ha fatto fuggire tutta la gente delusa e arrabbiata
Ieri sera la sagra di Santissima Trinità è proseguita con la consueta serentità, ma bruciano ancora i lividi rimasti dopo la zuffa causata da 5 rom ubriachi e che ha fatto finire al pronto soccorso una decina di persone fra cui un bambino di 12 anni. Dopo la paura arriva l'indignazione dell'opinione pubblica.
Alla stazione dei carabinieri nessuno ha sporto denuncia.
ORE 7. Sagra insanguinata a Santissima Trinità. L'altra sera cinque rom ubriachi hanno scatenato il panico picchiando indiscriminatamente tutti quelli che trovano a tiro: madri, bambini, anziani. Una decina di persone sono finite al pronto soccorso, tra cui un ragazzino di 12 anni, contusi in maniera lieve. Poi hanno spintonato la ragazza sbagliata e si sono trovati contro un gruppetto di magrebini che ha risponsto alla violenza con violenza.
Tumefatti ed insanguinati, quattro hanno tagliato la corda prima dell'arrivo delle forze dell'ordine.
Uno è stato bloccato dai carabinieri: G.H., di 21 anni, segnalato per ubriachezza.
Alla serata conclusiva della festa parrocchiale le giostre sul sagrato della chiesa avevano richiamato oltre 300 persone, per lo più famiglie e bambini. La tranquillità della serata è stata spezzata poco prima delle 22. Fuori dal bar “Da Piero” gremito di clienti si è innescata una baruffa tra un gruppetto di nomadi in preda ai fumi dell'alcool: in stato di alterazione hanno iniziato a sragionare. Qualcuno racconta di averli visti bere fin dal pomeriggio al chiosco della sagra. In pochi minuti la situazione è precipitata. I cinque hanno iniziato a muoversi fra la folla, insultando, spintonano, tirando pugni contro chiunque capitava a tiro.
Qualcuno di loro, brandendo una catena divelta dal “calcinculo”, ha iniziato a rotearla, colpendo alla cieca. Sono state colpite, in modo più o meno serio, una ventina di persone, diverse delle quali sono finite al pronto soccorso per medicazioni ed accertamenti. Fra i feriti una madre che teneva in braccio il figlioletto di pochi mesi; una donna raggiunta da una sferzata alla mano; un giovane di 23 anni picchiato al volto ed alla schiena. Anche un ragazzino di 12 anni è rimasto coinvolto: i nomadi l'hanno bloccato e colpito ripetutamente al volto. Il tutto davanti agli sguardi attoniti di decine di testimoni.
I particolari nel Giornale in edicola Il giornale di Vicenza FOTOSERVIZIO CUCOVAZ di Elia Cucovaz
L'altra sera è scoppiato il putiferio davanti alla chiesa parrocchiale dove si stava svolgendo la festa. Alcuni nomadi dopo avere bevuto hanno innescato una zuffa che ha fatto fuggire tutta la gente delusa e arrabbiata
Ieri sera la sagra di Santissima Trinità è proseguita con la consueta serentità, ma bruciano ancora i lividi rimasti dopo la zuffa causata da 5 rom ubriachi e che ha fatto finire al pronto soccorso una decina di persone fra cui un bambino di 12 anni. Dopo la paura arriva l'indignazione dell'opinione pubblica.
Alla stazione dei carabinieri nessuno ha sporto denuncia.
ORE 7. Sagra insanguinata a Santissima Trinità. L'altra sera cinque rom ubriachi hanno scatenato il panico picchiando indiscriminatamente tutti quelli che trovano a tiro: madri, bambini, anziani. Una decina di persone sono finite al pronto soccorso, tra cui un ragazzino di 12 anni, contusi in maniera lieve. Poi hanno spintonato la ragazza sbagliata e si sono trovati contro un gruppetto di magrebini che ha risponsto alla violenza con violenza.
Tumefatti ed insanguinati, quattro hanno tagliato la corda prima dell'arrivo delle forze dell'ordine.
Uno è stato bloccato dai carabinieri: G.H., di 21 anni, segnalato per ubriachezza.
Alla serata conclusiva della festa parrocchiale le giostre sul sagrato della chiesa avevano richiamato oltre 300 persone, per lo più famiglie e bambini. La tranquillità della serata è stata spezzata poco prima delle 22. Fuori dal bar “Da Piero” gremito di clienti si è innescata una baruffa tra un gruppetto di nomadi in preda ai fumi dell'alcool: in stato di alterazione hanno iniziato a sragionare. Qualcuno racconta di averli visti bere fin dal pomeriggio al chiosco della sagra. In pochi minuti la situazione è precipitata. I cinque hanno iniziato a muoversi fra la folla, insultando, spintonano, tirando pugni contro chiunque capitava a tiro.
Qualcuno di loro, brandendo una catena divelta dal “calcinculo”, ha iniziato a rotearla, colpendo alla cieca. Sono state colpite, in modo più o meno serio, una ventina di persone, diverse delle quali sono finite al pronto soccorso per medicazioni ed accertamenti. Fra i feriti una madre che teneva in braccio il figlioletto di pochi mesi; una donna raggiunta da una sferzata alla mano; un giovane di 23 anni picchiato al volto ed alla schiena. Anche un ragazzino di 12 anni è rimasto coinvolto: i nomadi l'hanno bloccato e colpito ripetutamente al volto. Il tutto davanti agli sguardi attoniti di decine di testimoni.
I particolari nel Giornale in edicola Il giornale di Vicenza FOTOSERVIZIO CUCOVAZ di Elia Cucovaz
Les Baux de Provence: uno dei più bei villaggi della Francia
Uno sperone roccioso in un paesaggio desertico, poche case e i resti del Castello, fanno di Les Baux de Provence una delle mete più affascinanti anche se poco conosciute della Provenza.
A guardarlo adesso non si crede che questo piccolo villaggio decaduto abbia per secoli rivaleggiato con la potenza di Barcellona e dominato su circa 80 altri villaggi provenzali. Dopo secoli di splendore dovuto all'intraprendenza dei signori di Les Baux, nel 1632, per combattere l'eresia protestante che qui aveva un centro importante, Richelieu fece radere al suolo il castello e le case. Da allora, Les Baux è rimasta così come oggi la vediamo.
Foto di Maarjaara
Prima di arrivare al Castello ci si arrampica lungo le stradine incontrando nell'ordine la Casa del Re (oggi ufficio turistico), il Museo dei Santons (con alcuni pastori del presepe napoletano del 1700) e la Cappella dei Penitenti Bianchi, con scene pastoriali provenzali.
Continuando a salire si incontra la piccola e bella chiesa di St-Vincent con la piazza ombreggiata che affaccia sul vallone.
La prossima tappa è il Castello.
Il monumento più importante è Il Castello (o quel che ne resta) di cui si può scoprire la storia grazie ai due plastici ospitati nel Museo di storia. Costruito nel punto più alto del villaggio, da qui si ammira uno splendido panorama su tutta la valle circostante. La caratteristica colorazione rossa della terra è dovuta alla bauxite, minerale che prende proprio il nome da Les Baux de Provence.
Qua e là, distribuite nel castello, armi medievali, immense balestre ancora funzionanti e altre armi che gli abitanti hanno escogitato in secoli di lotta.
Il relitto della nave romana di Melita
La nave romana di Mljet (Melita in italiano) fu scoperta nelle acque della Croazia nel 1987 da un gruppo di subacquei di Zagabria membri del Club Savia.
Il relitto si trovava a 36/42 m di profondità presso punta Glava, nel mare di Mljet. Poiché il sito risultava essere in pessime condizioni di conservazione a causa dell’intervento di clandestini ed era anche difficile per la profondità e le condizioni di giacitura creare intorno ad esso un’idonea protezione, su autorizzazione del Ministero dei Beni Culturali della Croazia furono condotte quattro campagne di scavo d’emergenza, supervisionate dagli studiosi Marijan Orlìc e Mario Jurisìc.
Melita è la più meridionale delle isole croate, luogo di passaggio per le rotte di navigazione lungo il versante orientale del Mar Adriatico. Melita è situata davanti a Dubrovnik, è un’isola mediterranea con una ricca vegetazione, infatti dal 1960 ospita un meraviglioso parco nazionale ricco di piante tra cui i pini d’Aleppo ed il gelsomino. Esso comprende anche due baie chiamate Laghi (Piccolo e Grande) perché dalla loro conformazione appaiono chiusi, anche se in realtà sono comunicanti con il mare. Nella zona sud del lago Grande si trova l’isola di S. Maria, sulla quale nel XII sec. vennero costruiti un monastero e una chiesa.
La Dalmazia fu una provincia romana, il cui nome deriva dai Delmati, tribù che risiedeva nell’Illyricum, la cui capitale era Delminium.
Gli scontri dell’Impero Romano con questa regione, per la sua conquista, cominciarono nella seconda metà del III sec. d.C. ed ebbero fine con la completa pacificazione ad opera di Ottaviano nel 9 d.C., che portò alla divisione del territorio in Dalmazia e Pannonia.
La Dalmazia fu una delle province più importanti e pacifiche fino alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Il relitto dopo essere stato documentato, è stato ricoperto con la sabbia in attesa di un intervento futuro volto al recupero dello scafo.
Le ricerche hanno permesso di individuare e riconoscere lo scheletro ed il fasciame della nave. L’imbarcazione era stata costruita secondo la tecnica a mortase e tenoni, prestando molta attenzione nella scelta dei materiali impiegati per la sua costruzione. I madieri erano in legno di pino, i tenoni erano stati realizzati con il bosso verde, mentre le bigotte erano in legno d’olivo. Sono stati ritrovati alcuni elementi secondari che erano stati utilizzati per costruire la nave come i chiodi o le lamine di piombo che dovevano rivestire l’opera viva.
La nave era lunga all’incirca 20 m e poteva trasportare più di 100 tonnellate di carico.
Non si conoscono i fattori che ne causarono il naufragio, ma sappiamo in base ai reperti trovati sulla nave, che esso avvenne alla fine del I sec. d. C. In base alla posizione in cui sono stati ritrovati i reperti durante le ricerche, si è potuta ricostruire la loro collocazione all’interno della nave quando era ancora in viaggio.
La parte della stiva più vicina alla prua conteneva vasellame, in particolar modo terrine unite a piatti con il fondo arrotondato e grandi piatti verniciati di rosso all’interno. Nella zona centrale della stiva si trovavano minerali e materiali di piombo semilavorati. Alcune giare contenevano dall’ossido di piombo, la cui polvere è di coloro rosso-arancione.
Inoltre sono state trovate tracce di carbonato di piombo dal quale si ricavava il bianco di piombo, questi colori venivano usati per dipingere ambienti di domus e oggetti vari, come ad esempio le statue, ma è anche possibile che fossero usati per dipingere anche le navi.
Sulla nave erano presenti anche residui di sulfuro di piombo, dal quale si ricavava piombo puro, il sulfuro di piombo veniva usato per la produzione di colori, ma anche di oggetti in piombo. Mentre la parte centrale della stiva della nave era occupata da materiali in piombo, lungo i bordi si trovavano le anfore Dressel 21 e 22, adibite al trasporto della frutta
proveniente dalla Campania.
Invece verso la poppa era sistemato vetro grezzo, infatti ne è stato trovato circa un quintale di color verde-azzurro. Esso probabilmente non era contenuto in recipienti, ma era sparso. I vari pezzi non hanno una forma bene precisa e il loro peso varia, anche se non supera i 2 kg.
Dagli studi effettuati sul vetro ritrovato è stato avanzata l’ipotesi che questo fosse stato prodotto in Palestina e poi inviato nelle varie officine vetrarie controllate dall’impero romano.
In epoca romana la sabbia del fiume Na’aman veniva usata per la fabbricazione di grandi blocchi di vetro grezzo, vetro che una volta giunto nelle officine, veniva fuso dagli artigiani per la produzione di oggi quali bottiglie, bicchieri, coppe, ma era usato anche per smaltare la ceramica.
Quindi il vetro presente sulla nave di Melita poteva essere facilmente destinato ad una seconda lavorazione per la produzione di oggetti vari e smalti, infatti sul relitto non sono stati ritrovati soltanto pezzi di vetro non lavorato, ma anche il minio, usato come fondente per realizzare smalti a base di piombo.
La dotazione di bordo era invece costituita da attrezzatura impiegata per la conservazione di viveri e per il loro consumo come bicchieri, anfore, brocche e recipienti vari; inoltre sono stati trovati anche oggetti riservati all’illuminazione come le lucerne o legati al commercio come l’asta della stadera. I reperti trovati fanno datare il naufragio della nave intorno alla fine del I sec. d.C., probabilmente i minerali e i materiali semilavorati in piombo provenivano dalla Dalmazia, dove è stata ritrovata una fabbrica di oggetti in piombo. Si presume che il carico minerario fosse imbarcato dai porti commerciali della Dalmazia come Salona o Narona per poi essere esportato in altri porti mediterranei dove veniva trasformato in prodotto finale.
Fonte : http://www.antika.it/