sabato 12 gennaio 2013
Il gatto sacro di Birmania
Una bella leggenda proviene dalla Birmania dove esisteva, prima d’essere distrutto, un tempio sotterraneo denominato “Tempio dei Gatti”; al suo interno dimoravano cento gatti, tutti bianchi…
I monaci Khmer avevano costruito questo tempio, situato nella zona di Lao Tsun, agli inizi del XVIII secolo. In seguito, i monaci Kittah lo dedicarono alla venerazione della statua in oro di una bellissima dea dai meravigliosi occhi di zaffiro, denominata Tsun–Kyan–Kse. Il suo compito era quello di prendersi cura della trasmigrazione delle anime.
La statua della dea era sempre accudita da un monaco molto venerato e rispettato di nome Mun-Ha, che amava meditare lungamente davanti alla statua e che aveva come sua unica compagnia, un gatto bianco a lui fedelissimo di nome Sinh.
In una terribile notte, dei briganti uccisero il religioso (che stava meditando dinnanzi alla dea), per portar via la statua d’oro e zaffiri. Nell’istante in cui sopravvenne la morte di Mun-Ha, l’amato gatto s’accucciò sulla sua testa e il suo pelo bianco si tramutò in un manto dorato come quello della statua. Gli occhi si colorarono con lo stesso blu dello zaffiro; le zampe, la coda e il musetto si tinsero di un bruno vellutato, come il colore della terra su cui la statua poggiava. Soltanto le parti a contatto con il monaco rimasero bianche, in ricordo della sua purezza.
Il mattino successivo, tutti i gatti bianchi del tempio avevano subìto la stessa trasformazione del gatto Sinh e da allora non solo vennero tutelati, ma anche considerati sacri. Qualche tempo dopo, tutta la regione venne invasa dalle popolazioni indù che uccisero molti religiosi e occuparono la gran parte dei templi.
Auguste Pavie e suo marito, il maggiore Russel Gordon,118 presero le difese dei monaci Kittah aiutandoli a fuggire in Tibet. Fu proprio in quell’occasione che videro, per la prima volta, il Gatto sacro di Birmania venendo a conoscenza della sua storia. Nel 1919, quando i due fecero ritorno in Francia portarono con sè due gatti sacri, un maschio e una femmina, che avevano ricevuto in dono. Purtroppo durante il lungo viaggio il maschio morì, ma fortunatamente la gattina era rimasta incinta e, grazie ancora alla dea Bastet, la razza fu salva.
Una credenza birmana vuole che quando muore un sant’uomo, il suo spirito si incarni in un gatto e che, solo alla morte dell’animale, lo spirito possa salire al cielo.
Una truffa legalizzata
La questione nasce nel momento in cui i governi occidentali hanno ceduto la facoltà di creare la moneta ai banchieri, i quali, sotto le mentite spoglie di istituti di diritto pubblico (cioè di proprietà dei cittadini), hanno creato le cosiddette Banche Centrali, istituti bancari che, grazie ad un gioco di scatole cinesi, sono di proprietà privata.
Per esempio, l'azionariato della BCE (http://www.ecb.int/ecb/orga/capital/html/index.it.html) è composto dalle Banche Centrali sia dei paesi dell'area euro, che da altri paesi.
Fin qui tutto bene.
Ma se andiamo a vedere chi sono gli azionisti delle Banche Centrali Nazionali, scopriamo una serie di istituti bancari privati che di “diritto pubblico” non hanno proprio nulla. Nel caso dell'Italia, l'azionariato della Banca d'Italia, uno dei maggiori soci della BCE, è composto da istituti di credito che hanno come oggetto sociale il profitto e non il bene della comunità nazionale (http://www.bancaditalia.it/bancaditalia/funzgov/gov/parte...).
Ciò significa che ogni volta che la BCE presta denaro all'Italia, l'interesse applicato al prestito servirà a creare un utile che verrà diviso tra i vari azionisti. Ecco, allora, che una parte delle tasse pagate al governo servirà ad arricchire i banchieri che partecipano al capitale delle Banche Centrali. Diabolico!!
Ma il problema è molto più profondo e richiede di esaminare almeno due conseguenze estremamente nefaste di questo assurdo sistema monetario: l'incongruità tra il valore materiale e valore nominale della moneta, e l'inestinguibilità del debito pubblico.
1. Incongruità tra valore materiale e valore nominale Attualmente, la materia di cui è fatto il denaro è di tipo cartaceo per le banconote e di metallo per le monete.
Per come è concepito attualmente il sistema monetario, il valore del denaro non è determinato dal tipo di materiale utilizzato per il conio, ma dal valore nominale, cioè dal numero di crediti segnato sulla banconota o sulla moneta. Per esempio, una banconota vale 5 euro non per la quantità e la qualità della carta utilizzata per fabbricarla, ma per il numero “5” scritto su di essa.
In passato, invece, il valore del denaro era determinato dal materiale utilizzato per coniare le monete, solitamente oro o argento, metalli riconosciuti unanimemente come “preziosi”.
La rottura del legame tra “valore materiale” e “valore nominale” del denaro è avvenuta nel 1971, con il definitivo superamento degli accordi di Bretton Woods.
Operazione estremamente diabolica. Perchè? Mettiamo che il governo italiano, per far quadrare il bilancio del 2013, abbia bisogno di 100€.
Non potendolo emettere autonomamente, lo chiede in prestito alla BCE.
La BCE, dopo aver chiesto per l'ennesima volta le riforme strutturali per garantire il ritorno del debito, decide di concedere il prestito di 100€ all'Italia, con un aggravio di interesse pari al 2%.
La BCE, magia delle magie, creerà dal nulla i 100€, stampandoli (così come avrebbe potuto fare il governo).
Per stampare la banconota da 100€, la BCE spenderà tra carta, inchiostro, elettricità, trasporto e manodopera circa 0,01€ (un centesimo di euro). Essendo un ente privato, ci si aspetta che la BCE venda la banconota all'Italia ad un prezzo ottenuto dalla somma del costo di produzione (0,01€), più un lecito ricarico di guadagno (un altro 0,01€, per esempio). Quindi, in un mondo logico e sano, la banconota costerebbe all'Italia 0,02€.
Invece, la BCE che fa? Ecco la diabolicità dell'operazione: la Banca Centrale Europea scriverà nelle voci in uscita del suo bilancio “100€” e non “0,01” come ci si aspetterebbe. Mentre nelle voci in entrata scriverà “102€” e non “0,02€” come sarebbe giusto.
Ciò significa che i banchieri, a fronte di una banconota costata 0,01€, guadagneranno la bellezza di 101,99€. Sì, perchè l'Italia si indebiterà per il valore nominale della banconota, invece del suo valore materiale.
Infatti, a fine anno, l'Italia dovrà sborsare 102€ reali spremendo i suoi cittadini con le tasse.
Questo meccanismo, in termini tecnici, si chiama “Signoraggio Bancario”, mentre in termini sociali si chiama “truffa”!
Tratto - da Il Navigatore curioso
Fin qui tutto bene.
Ma se andiamo a vedere chi sono gli azionisti delle Banche Centrali Nazionali, scopriamo una serie di istituti bancari privati che di “diritto pubblico” non hanno proprio nulla. Nel caso dell'Italia, l'azionariato della Banca d'Italia, uno dei maggiori soci della BCE, è composto da istituti di credito che hanno come oggetto sociale il profitto e non il bene della comunità nazionale (http://www.bancaditalia.it/bancaditalia/funzgov/gov/parte...).
Ciò significa che ogni volta che la BCE presta denaro all'Italia, l'interesse applicato al prestito servirà a creare un utile che verrà diviso tra i vari azionisti. Ecco, allora, che una parte delle tasse pagate al governo servirà ad arricchire i banchieri che partecipano al capitale delle Banche Centrali. Diabolico!!
Ma il problema è molto più profondo e richiede di esaminare almeno due conseguenze estremamente nefaste di questo assurdo sistema monetario: l'incongruità tra il valore materiale e valore nominale della moneta, e l'inestinguibilità del debito pubblico.
1. Incongruità tra valore materiale e valore nominale Attualmente, la materia di cui è fatto il denaro è di tipo cartaceo per le banconote e di metallo per le monete.
Per come è concepito attualmente il sistema monetario, il valore del denaro non è determinato dal tipo di materiale utilizzato per il conio, ma dal valore nominale, cioè dal numero di crediti segnato sulla banconota o sulla moneta. Per esempio, una banconota vale 5 euro non per la quantità e la qualità della carta utilizzata per fabbricarla, ma per il numero “5” scritto su di essa.
In passato, invece, il valore del denaro era determinato dal materiale utilizzato per coniare le monete, solitamente oro o argento, metalli riconosciuti unanimemente come “preziosi”.
La rottura del legame tra “valore materiale” e “valore nominale” del denaro è avvenuta nel 1971, con il definitivo superamento degli accordi di Bretton Woods.
Operazione estremamente diabolica. Perchè? Mettiamo che il governo italiano, per far quadrare il bilancio del 2013, abbia bisogno di 100€.
Non potendolo emettere autonomamente, lo chiede in prestito alla BCE.
La BCE, dopo aver chiesto per l'ennesima volta le riforme strutturali per garantire il ritorno del debito, decide di concedere il prestito di 100€ all'Italia, con un aggravio di interesse pari al 2%.
La BCE, magia delle magie, creerà dal nulla i 100€, stampandoli (così come avrebbe potuto fare il governo).
Per stampare la banconota da 100€, la BCE spenderà tra carta, inchiostro, elettricità, trasporto e manodopera circa 0,01€ (un centesimo di euro). Essendo un ente privato, ci si aspetta che la BCE venda la banconota all'Italia ad un prezzo ottenuto dalla somma del costo di produzione (0,01€), più un lecito ricarico di guadagno (un altro 0,01€, per esempio). Quindi, in un mondo logico e sano, la banconota costerebbe all'Italia 0,02€.
Invece, la BCE che fa? Ecco la diabolicità dell'operazione: la Banca Centrale Europea scriverà nelle voci in uscita del suo bilancio “100€” e non “0,01” come ci si aspetterebbe. Mentre nelle voci in entrata scriverà “102€” e non “0,02€” come sarebbe giusto.
Ciò significa che i banchieri, a fronte di una banconota costata 0,01€, guadagneranno la bellezza di 101,99€. Sì, perchè l'Italia si indebiterà per il valore nominale della banconota, invece del suo valore materiale.
Infatti, a fine anno, l'Italia dovrà sborsare 102€ reali spremendo i suoi cittadini con le tasse.
Questo meccanismo, in termini tecnici, si chiama “Signoraggio Bancario”, mentre in termini sociali si chiama “truffa”!
Tratto - da Il Navigatore curioso
McDonald’s.
McDonald’s.
Una multinazionale pericolosa per la salute di tutti
Ogni anno migliaia di bambini consumano il fast food (“cibo veloce”) di un’impresa responsabile della deforestazione dei boschi, dello sfruttamento dei lavoratori, e della morte di milioni di animali: McDonald’s.
Strategie di marketing abilmente architettate hanno permesso l’espansione di McDonald’s in 40 paesi, dove l’empatica immagine di Ronald McDonald e il suo Happy Meal, vende ai bambini il gusto per il cibo rapido, associandolo a un’idea di allegria.
Questa pubblicità ha avuto un grande successo in diverse parti del mondo, contribuendo agli alti tassi di obesità infantile. L’alimentazione che propone questa impresa è totalmente carente di sostanze nutrienti.
Inoltre, questo cibo è conosciuto in tutto il mondo come “cibo spazzatura”, e non è un caso che riceva questo nome. Gli hamburger e i “nuggets” offerti da McDonald’s provengono da animali mantenuti in condizioni artificiali per tutta la loro vita: privati di aria libera e luce solare, vengono ammucchiati al punto da non poter allungare le zampe o le ali (nel caso dei polli), rimpinzati di ormoni per accelerare la crescita e di antibiotici per arrestare le molteplici infezioni alle quali sono esposti a causa delle insalubri condizioni che genera il sovraffollamento.
I polli vengono fatti ingrassare al punto che le zampe non sono più in grado di reggere il loro peso.
Per la concessione del franchising, McDonald’s acquista a basso prezzo terreni che prima ospitavano boschi tropicali e li deforesta per consacrarli all’allevamento.
Offre salari minimi ai suoi dipendenti, approfittando delle minoranze etniche e assumendo minori.
I prodotti di McDonald’s, con il loro alto contenuto di grassi, zuccheri e sale, contribuiscono al sovrappeso dei bambini, alla resistenza all’insulina e al conseguente Diabete di Tipo 2.
Ah, vi avevo detto che è stata una delle finanziatrici della campagna di George W. Bush?
Da - Il Navigatore curioso
Una multinazionale pericolosa per la salute di tutti
Ogni anno migliaia di bambini consumano il fast food (“cibo veloce”) di un’impresa responsabile della deforestazione dei boschi, dello sfruttamento dei lavoratori, e della morte di milioni di animali: McDonald’s.
Strategie di marketing abilmente architettate hanno permesso l’espansione di McDonald’s in 40 paesi, dove l’empatica immagine di Ronald McDonald e il suo Happy Meal, vende ai bambini il gusto per il cibo rapido, associandolo a un’idea di allegria.
Questa pubblicità ha avuto un grande successo in diverse parti del mondo, contribuendo agli alti tassi di obesità infantile. L’alimentazione che propone questa impresa è totalmente carente di sostanze nutrienti.
Inoltre, questo cibo è conosciuto in tutto il mondo come “cibo spazzatura”, e non è un caso che riceva questo nome. Gli hamburger e i “nuggets” offerti da McDonald’s provengono da animali mantenuti in condizioni artificiali per tutta la loro vita: privati di aria libera e luce solare, vengono ammucchiati al punto da non poter allungare le zampe o le ali (nel caso dei polli), rimpinzati di ormoni per accelerare la crescita e di antibiotici per arrestare le molteplici infezioni alle quali sono esposti a causa delle insalubri condizioni che genera il sovraffollamento.
I polli vengono fatti ingrassare al punto che le zampe non sono più in grado di reggere il loro peso.
Per la concessione del franchising, McDonald’s acquista a basso prezzo terreni che prima ospitavano boschi tropicali e li deforesta per consacrarli all’allevamento.
Offre salari minimi ai suoi dipendenti, approfittando delle minoranze etniche e assumendo minori.
I prodotti di McDonald’s, con il loro alto contenuto di grassi, zuccheri e sale, contribuiscono al sovrappeso dei bambini, alla resistenza all’insulina e al conseguente Diabete di Tipo 2.
Ah, vi avevo detto che è stata una delle finanziatrici della campagna di George W. Bush?
Da - Il Navigatore curioso
Il mistero della biblioteca metallica di Padre Carlo Crespi
Il Padre italiano Carlo Crespi (1891-1982), era giunto nella selva amazzonica ecuadoriana nel 1927.
Con il tempo aveva ammassato, presso la sua missione salesiana di Cuenca, una fantasmagorica collezione di manufatti antichi d’inestimabile valore storico e archeologico: statuette d’oro di stile mediorientale, numerosi oggetti d’oro, argento o bronzo: scettri, elmi, dischi, placche, e molte lamine metalliche che riportavano delle incisioni arcaiche simili a geroglifici, la cosiddetta “biblioteca metallica”.
Tra le varie lamine, una di esse era lunga circa 20 pollici e riportava 56 segni stampati, come fosse un alfabeto più antico di quello dei Fenici
Carlo Crespi ha sempre dichiarato a tutti i suoi intervistatori che tutti i reperti del suo museo, gli erano stati consegnati, nel corso degli anni, da indigeni Suhar, che a loro volta li avevano raccolti nella Cueva de los Tayos.
Ecco una sua dichiarazione, ripetuta più volte a vari ricercatori: Tutto quello che gli indios mi hanno portato dalla caverna risale a epoche antiche, prima di Cristo. La maggioranza dei simboli e di alcune rappresentazioni preistoriche risalgono ad epoche antecedenti il Diluvio.
Il religioso italiano sosteneva che i reperti da lui custoditi fossero d’origine antidiluviana e fossero stati nascosti nella caverna da discendenti di popoli mediorientali che erano scampati al diluvio.
Molte persone che mi hanno contattato durante questi anni, hanno argomentato che il “tesoro” di Padre Carlo Crespi fosse costituito da falsi o, da pezzi veri, che però non provenivano dalla Cueva de los Tayos. E’ una possibilità, però a mio parere qualcosa di vero in questa storia della Cueva de los Tayos c’è, per vari motivi. Innanzitutto il Padre Carlo Crespi, non ha mai tenuto conferenze sulla sua collezione e non si è mai fatto pubblicità allo scopo di guadagnarci soldi o fama, anzi era piuttosto schivo e controverso. Che bisogno avrebbe avuto quindi di inventarsi tutto e raggruppare una montagna di manufatti falsi?
C’è poi la possibilità che sia stato ingannato da astuti artigiani: a tale proposito lo scrittore Richard Wingate, scrive:
E’ stato detto che i reperti di Padre Crespi siano dei falsi che gli furono consegnati da indigeni. Però in seguito i segni scolpiti in alcuni suoi reperti sono stati individuati come geroglifici egizi, ieratico egizio, punico e demotico.
Come avrebbero potuto, gli indigeni Suhar o improvvisati artigiani della zona di Cuenca, riportare delle iscrizioni in lingue antiche, nei reperti che consegnavano a Crespi? E' vero che tutti o alcuni dei suoi manufatti potrebbero essere stati veri, ma non provenienti dalla Cueva de los Tayos, ma anche in questo caso perché lui avrebbe divulgato che gli furono consegnati dagli indigeni Suhar? Non avrebbe guadagnato nulla dicendo ciò.
Alcuni reperti di Crespi sono stati analizzati da riconosciuti archeologi: per esempio il professor Miloslav Stingi, membro dell’Accademia delle scienze di Praga, dopo aver analizzato alcuni reperti di Padre Crespi disse:
Il sole è spesso parte centrale di alcuni reperti incaici, ma l’uomo non è stato mai messo sullo stesso piano rispetto al sole, come vedo in alcuni di questi reperti. Vi sono rappresentazioni di uomini con dei raggi solari che si dipartono dalle loro teste, e vi sono uomini rappresentati con punti, come fossero stelle uscendo da loro stessi. Il simbolo sacro del potere è sempre stato la mente, ma in questi reperti la mente o il capo, è rappresentata simultaneamente come il sole o una stella.
Con questa dichiarazione Stingi, propende per sostenere che alcuni dei reperti di Crespi non hanno una derivazione indigena (che sia andina o amazzonica), ma hanno origine differente. Osservate con attenzione la placca d’oro che riporto qui sotto: è una piramide con alla sua sommità un sole.
Molto stranamente i gradini della piramide sono 13 e il sole posto nella sua sommità ricorda l’occhio onniveggente. Ai lati vi sono poi due felini, due elefanti e due serpenti.
Alla base della piramide vi sono le lettere di un alfabeto arcaico, che secondo alcuni ricercatori sarebbe un proto-fenicio. La piramide, il sole posto alla sua sommità e i 13 gradini sono indubbiamente simboli massonici.
Sappiamo che la Massoneria ha origini che si rimontano alla notte dei tempi, e pertanto questa potrebbe essere una placca aurea di culture medio-orientali.
Notiamo inoltre che gli elefanti non sono presenti in Sud America (se non prima del diluvio, i mastodonti, che si sono estinti con gli altri animali della megafauna nel 9500 a.C.), e questo rafforza la tesi che l’oggetto in questione abbia un’origine non americana.
Per quanto riguarda i felini, essi non sono puma o giaguari (tipici delle culture andine e amazzoniche), ma gatti, animali sacri dell’antico Egitto.
Il serpente poi è un simbolo universale adorato in tutte le culture del mondo antico, come immagine del rigenerarsi della vita, e metafora dell’utero della donna (sta, infatti, negli anfratti dei fiumi).
Un ultimo particolare: nel lato sinistro rispetto al sole vi sono 4 piccoli circoli, mentre nel lato destro vi sono 5 piccoli circoli. Si tratta dei 9 pianeti del sistema solare?
Anche in questo reperto si possono notare alcuni particolari importanti:
Innanzitutto ritroviamo la piramide, questa volta formata da 5 livelli. Nei primi tre vi sono dei simboli di un alfabeto antico, non decifrato. Quindi un elefante, simbolo non tipico delle culture sud-americane, e sulla cima un sole con dieci raggi.
La biblioteca metallica è stata mai vista al di fuori del fantasmagorico museo di Padre Carlo Crespi? In effetti ci sono state altre persone che affermarono di essere state all’interno della Cueva de los Tayos e aver visto con i loro occhi altre lamine della biblioteca metallica, primo tra tutti l’ungherese naturalizzato argentino Juan Moricz, che dichiarò di aver portato a termine una spedizione nel 1965 guidato da indigeni Suhar.
Nella seconda spedizione, guidata da Juan Moricz nel 1969, alla quale partecipò Gaston Fernandez Borrero, non furono però trovate alcune tracce della biblioteca metallica, ma solo stalattiti e stalagmiti.
Dopo la seconda spedizione Juan Moricz fece un tentativo di ufficializzare la sua scoperta, il 21 luglio 1969, dichiarando di fronte ad un notaio di aver individuato nella caverna, oggetti importanti dal punto di vista archeologico. Varie persone mi hanno scritto sostenendo che Moricz fosse in mala fede, e che lui, dopo aver visto la collezione di Carlo Crespi e aver ascoltato la sua probabile provenienza, pensò di divulgare la storia che aveva trovato la biblioteca metallica all’interno della caverna, per ottenerne soldi e fama. Anche questa è una possibilità, considerando che Moricz non mostrò mai nessuna fotografia dei suoi ritrovamenti.
Ci sono però altre dichiarazioni, come quella del maggiore Petronio Jaramillo, tratta dal libro “Oltre le Ande” di Pino Turolla.
Jaramillo, che dichiarò di essere entrato nella caverna nel 1956, descrisse alcuni manufatti antichi e le famose lamine metalliche, ma anche in questo caso non ci sono fotografie e pertanto si può concludere che la biblioteca metallica è stata vista e fotografata solo ed esclusivamente nel museo di Padre Carlo Crespi.
Quando Padre Carlo Crespi morì, nel gennaio del 1982, la sua meravigliosa collezione d’arte mediorientale (e antidiluviana), fu portata via dal museo di Cuenca, verso una destinazione ignota. Alcune voci sostennero che il Banco Centrale dell’Ecuador abbia acquisito, il 9 luglio 1980, per la somma di 10.667.210 $, circa 5000 pezzi archeologici in oro e argento dalla missione salesiana. Il responsabile del museo del Banco Centrale dell’Ecuador, però, Ernesto Davila Trujillo, smentì categoricamente che l’entità di Stato acquisì la collezione privata di Padre Crespi.
Secondo altre persone i reperti di Padre Crespi furono inviati in segreto a Roma, ed oggi si troverebbero in qualche cavò del Vaticano.
A questo punto sorge una considerazione: se i reperti di Padre Carlo Crespi, inclusa la biblioteca metallica, erano dei falsi, perché sono stati fatti sparire? Se fossero stati dei falsi sarebbero stati venduti all’incanto in qualche mercatino di periferia, a poco prezzo. Assumendo pertanto che la maggioranza di quei reperti erano veri, ma che non provenissero dalla Cueva de los Tayos, perché sarebbero stati custoditi proprio nella missione salesiana di Padre Carlo Crespi? Che bisogno avrebbe avuto il legittimo proprietario (l’ordine dei Salesiani? Il Vaticano?), d’inviarli a Cuenca? Forse per nasconderli? In questo caso però Carlo Crespi non li avrebbe mai mostrati a nessuno.
Come si vede il mistero della biblioteca metallica di Padre Carlo Crespi, è ancora attuale: nessuno può essere certo della sua reale provenienza, e tantomeno della sua attuale ubicazione. Il fatto che sia stata occultata potrebbe essere una prova non solo della sua autenticità, ma anche del suo inestimabile valore e forse, del suo scomodo significato.
Per gentile concessione di YURI LEVERATTO
www. yurileveratto.com/it
Con il tempo aveva ammassato, presso la sua missione salesiana di Cuenca, una fantasmagorica collezione di manufatti antichi d’inestimabile valore storico e archeologico: statuette d’oro di stile mediorientale, numerosi oggetti d’oro, argento o bronzo: scettri, elmi, dischi, placche, e molte lamine metalliche che riportavano delle incisioni arcaiche simili a geroglifici, la cosiddetta “biblioteca metallica”.
Tra le varie lamine, una di esse era lunga circa 20 pollici e riportava 56 segni stampati, come fosse un alfabeto più antico di quello dei Fenici
Carlo Crespi ha sempre dichiarato a tutti i suoi intervistatori che tutti i reperti del suo museo, gli erano stati consegnati, nel corso degli anni, da indigeni Suhar, che a loro volta li avevano raccolti nella Cueva de los Tayos.
Ecco una sua dichiarazione, ripetuta più volte a vari ricercatori: Tutto quello che gli indios mi hanno portato dalla caverna risale a epoche antiche, prima di Cristo. La maggioranza dei simboli e di alcune rappresentazioni preistoriche risalgono ad epoche antecedenti il Diluvio.
Il religioso italiano sosteneva che i reperti da lui custoditi fossero d’origine antidiluviana e fossero stati nascosti nella caverna da discendenti di popoli mediorientali che erano scampati al diluvio.
Molte persone che mi hanno contattato durante questi anni, hanno argomentato che il “tesoro” di Padre Carlo Crespi fosse costituito da falsi o, da pezzi veri, che però non provenivano dalla Cueva de los Tayos. E’ una possibilità, però a mio parere qualcosa di vero in questa storia della Cueva de los Tayos c’è, per vari motivi. Innanzitutto il Padre Carlo Crespi, non ha mai tenuto conferenze sulla sua collezione e non si è mai fatto pubblicità allo scopo di guadagnarci soldi o fama, anzi era piuttosto schivo e controverso. Che bisogno avrebbe avuto quindi di inventarsi tutto e raggruppare una montagna di manufatti falsi?
C’è poi la possibilità che sia stato ingannato da astuti artigiani: a tale proposito lo scrittore Richard Wingate, scrive:
E’ stato detto che i reperti di Padre Crespi siano dei falsi che gli furono consegnati da indigeni. Però in seguito i segni scolpiti in alcuni suoi reperti sono stati individuati come geroglifici egizi, ieratico egizio, punico e demotico.
Come avrebbero potuto, gli indigeni Suhar o improvvisati artigiani della zona di Cuenca, riportare delle iscrizioni in lingue antiche, nei reperti che consegnavano a Crespi? E' vero che tutti o alcuni dei suoi manufatti potrebbero essere stati veri, ma non provenienti dalla Cueva de los Tayos, ma anche in questo caso perché lui avrebbe divulgato che gli furono consegnati dagli indigeni Suhar? Non avrebbe guadagnato nulla dicendo ciò.
Alcuni reperti di Crespi sono stati analizzati da riconosciuti archeologi: per esempio il professor Miloslav Stingi, membro dell’Accademia delle scienze di Praga, dopo aver analizzato alcuni reperti di Padre Crespi disse:
Il sole è spesso parte centrale di alcuni reperti incaici, ma l’uomo non è stato mai messo sullo stesso piano rispetto al sole, come vedo in alcuni di questi reperti. Vi sono rappresentazioni di uomini con dei raggi solari che si dipartono dalle loro teste, e vi sono uomini rappresentati con punti, come fossero stelle uscendo da loro stessi. Il simbolo sacro del potere è sempre stato la mente, ma in questi reperti la mente o il capo, è rappresentata simultaneamente come il sole o una stella.
Con questa dichiarazione Stingi, propende per sostenere che alcuni dei reperti di Crespi non hanno una derivazione indigena (che sia andina o amazzonica), ma hanno origine differente. Osservate con attenzione la placca d’oro che riporto qui sotto: è una piramide con alla sua sommità un sole.
Molto stranamente i gradini della piramide sono 13 e il sole posto nella sua sommità ricorda l’occhio onniveggente. Ai lati vi sono poi due felini, due elefanti e due serpenti.
Alla base della piramide vi sono le lettere di un alfabeto arcaico, che secondo alcuni ricercatori sarebbe un proto-fenicio. La piramide, il sole posto alla sua sommità e i 13 gradini sono indubbiamente simboli massonici.
Sappiamo che la Massoneria ha origini che si rimontano alla notte dei tempi, e pertanto questa potrebbe essere una placca aurea di culture medio-orientali.
Notiamo inoltre che gli elefanti non sono presenti in Sud America (se non prima del diluvio, i mastodonti, che si sono estinti con gli altri animali della megafauna nel 9500 a.C.), e questo rafforza la tesi che l’oggetto in questione abbia un’origine non americana.
Per quanto riguarda i felini, essi non sono puma o giaguari (tipici delle culture andine e amazzoniche), ma gatti, animali sacri dell’antico Egitto.
Il serpente poi è un simbolo universale adorato in tutte le culture del mondo antico, come immagine del rigenerarsi della vita, e metafora dell’utero della donna (sta, infatti, negli anfratti dei fiumi).
Un ultimo particolare: nel lato sinistro rispetto al sole vi sono 4 piccoli circoli, mentre nel lato destro vi sono 5 piccoli circoli. Si tratta dei 9 pianeti del sistema solare?
Anche in questo reperto si possono notare alcuni particolari importanti:
Innanzitutto ritroviamo la piramide, questa volta formata da 5 livelli. Nei primi tre vi sono dei simboli di un alfabeto antico, non decifrato. Quindi un elefante, simbolo non tipico delle culture sud-americane, e sulla cima un sole con dieci raggi.
La biblioteca metallica è stata mai vista al di fuori del fantasmagorico museo di Padre Carlo Crespi? In effetti ci sono state altre persone che affermarono di essere state all’interno della Cueva de los Tayos e aver visto con i loro occhi altre lamine della biblioteca metallica, primo tra tutti l’ungherese naturalizzato argentino Juan Moricz, che dichiarò di aver portato a termine una spedizione nel 1965 guidato da indigeni Suhar.
Nella seconda spedizione, guidata da Juan Moricz nel 1969, alla quale partecipò Gaston Fernandez Borrero, non furono però trovate alcune tracce della biblioteca metallica, ma solo stalattiti e stalagmiti.
Dopo la seconda spedizione Juan Moricz fece un tentativo di ufficializzare la sua scoperta, il 21 luglio 1969, dichiarando di fronte ad un notaio di aver individuato nella caverna, oggetti importanti dal punto di vista archeologico. Varie persone mi hanno scritto sostenendo che Moricz fosse in mala fede, e che lui, dopo aver visto la collezione di Carlo Crespi e aver ascoltato la sua probabile provenienza, pensò di divulgare la storia che aveva trovato la biblioteca metallica all’interno della caverna, per ottenerne soldi e fama. Anche questa è una possibilità, considerando che Moricz non mostrò mai nessuna fotografia dei suoi ritrovamenti.
Ci sono però altre dichiarazioni, come quella del maggiore Petronio Jaramillo, tratta dal libro “Oltre le Ande” di Pino Turolla.
Jaramillo, che dichiarò di essere entrato nella caverna nel 1956, descrisse alcuni manufatti antichi e le famose lamine metalliche, ma anche in questo caso non ci sono fotografie e pertanto si può concludere che la biblioteca metallica è stata vista e fotografata solo ed esclusivamente nel museo di Padre Carlo Crespi.
Quando Padre Carlo Crespi morì, nel gennaio del 1982, la sua meravigliosa collezione d’arte mediorientale (e antidiluviana), fu portata via dal museo di Cuenca, verso una destinazione ignota. Alcune voci sostennero che il Banco Centrale dell’Ecuador abbia acquisito, il 9 luglio 1980, per la somma di 10.667.210 $, circa 5000 pezzi archeologici in oro e argento dalla missione salesiana. Il responsabile del museo del Banco Centrale dell’Ecuador, però, Ernesto Davila Trujillo, smentì categoricamente che l’entità di Stato acquisì la collezione privata di Padre Crespi.
Secondo altre persone i reperti di Padre Crespi furono inviati in segreto a Roma, ed oggi si troverebbero in qualche cavò del Vaticano.
A questo punto sorge una considerazione: se i reperti di Padre Carlo Crespi, inclusa la biblioteca metallica, erano dei falsi, perché sono stati fatti sparire? Se fossero stati dei falsi sarebbero stati venduti all’incanto in qualche mercatino di periferia, a poco prezzo. Assumendo pertanto che la maggioranza di quei reperti erano veri, ma che non provenissero dalla Cueva de los Tayos, perché sarebbero stati custoditi proprio nella missione salesiana di Padre Carlo Crespi? Che bisogno avrebbe avuto il legittimo proprietario (l’ordine dei Salesiani? Il Vaticano?), d’inviarli a Cuenca? Forse per nasconderli? In questo caso però Carlo Crespi non li avrebbe mai mostrati a nessuno.
Come si vede il mistero della biblioteca metallica di Padre Carlo Crespi, è ancora attuale: nessuno può essere certo della sua reale provenienza, e tantomeno della sua attuale ubicazione. Il fatto che sia stata occultata potrebbe essere una prova non solo della sua autenticità, ma anche del suo inestimabile valore e forse, del suo scomodo significato.
Per gentile concessione di YURI LEVERATTO
www. yurileveratto.com/it
Francesco Queirolo : "Il disinganno"
Nella Cappella si San Severo, a Napoli, si può ammirare l'opera marmorea "Il disinganno", realizzata dallo scultore genovese Francesco Queirolo tra il 1753 e il 1754
L'opera venne dedicata da Raimondo di Sangro al padre Antonio, duca di Torremaggiore. Dopo la prematura morte della moglie, Antonio si diede a un’esistenza avventurosa e disordinata, affidando il figlio alle cure del nonno Paolo. “Asservito – come ricorda la lapide dedicatoria – alle giovanili brame”, il duca viaggiò per tutta Europa, ma in vecchiaia, ormai stanco e pentito degli errori commessi, tornò a Napoli, ove trascorse gli ultimi anni nella quiete della vita sacerdotale.
Il gruppo scultoreo descrive un uomo che si libera dal peccato, rappresentato dalla rete nella quale l’artista genovese trasfuse tutta la sua straordinaria abilità. Un genietto alato, che reca in fronte una piccola fiamma, simbolo dell’umano intelletto, aiuta l’uomo a divincolarsi dalle maglie intricate, mentre indica il globo terrestre ai suoi piedi, simbolo delle passioni mondane; al globo è appoggiato un libro aperto, la Bibbia, testo sacro ma anche una delle tre “grandi luci” della Massoneria. Il bassorilievo sul basamento, con l’episodio di Gesù che dona la vista al cieco, accompagna e rafforza il significato dell’allegoria.
Nell’Istoria dello Studio di Napoli (1753-54) Giangiuseppe Origlia definisce a ragione questa statua “l’ultima pruova ardita, a cui può la scultura in marmo azzardarsi”: il riferimento è ovviamente alla virtuosistica esecuzione della rete, che lasciò sgomenti celebri viaggiatori sette-ottocenteschi e continua a stupire i turisti odierni. A tal proposito, si tramanda che – come era già avvenuto al Queirolo anni prima nella realizzazione di un’altra statua – lo scultore dovette personalmente passare a pomice la scultura poiché gli artigiani dell’epoca, specializzati proprio nella fase di finitura, si rifiutarono di toccare la delicatissima rete per paura di vedersela frantumare sotto le mani.
Il Disinganno, come attesta ancora l’Origlia, è un’opera “tutta d’invenzione del Principe, e nel suo genere totalmente nuova”, non ritrovandosene altra simile né tra gli antichi né tra i moderni. Tale monumento ha, non a caso, una simbologia ricca e complessa. Il richiamo al contrasto tra luce e tenebre, evocato dall’allegoria principale nonché dal bassorilievo (con la frase “Qui non vident videant”) e dai passi biblici incisi nel libro aperto, appare unchiaro riferimento alle iniziazioni massoniche, in cui l’iniziando entrava ritualmente bendato per poi aprire gli occhi alla nuova luce della Verità custodita dalla Loggia. Bellissima la dedica composta da Raimondo, in cui la vita del padre viene posta a immortale esempio della “fragilità umana, cui non è concesso avere grandi virtù senza vizi”.
La parola
Le armi più tremende non sono la lancia o la catapulta – che possono squarciare il corpo e distruggere le mura-
E’ la parola – che demolisce una vita senza versare nemmeno una goccia di sangue e le cui ferite non si cicatrizzano mai-.
PAULO COELHO
La regina delle api (Leggenda indiana)
C’era una volta una coppia che desiderava ardentemente un figlio ma non riusciva ad averne. Un giorno il marito andò in un campo a tagliare del bambù. All’improvviso udì una vocina che lo implorava di non fargli del male. Dove sei?, chiese l’uomo. In questa canna!, rispose la vocina. L’uomo aprì la canna di bambù e trovò un bambino piccolissimo, con il volto da ranocchio. Lo portò a casa e con la moglie si affezionarono subito al bambino, anche se non era molto bello. Lo chiamarono Bambù.
Passarono gli anni e Bambù crebbe. Diventò un bravissimo ragazzo che aiutava il padre nel lavoro. Un giorno, il giorno del suo diciottesimo compleanno, i genitori gli diedero un abito e una spada e lo mandarono al mercato a vendere il riso e a comprare delle stoffe. Bambù attraversò la foresta ed ad un tratto si accorse di essere seguito. Gli si parò di fronte un leone affamato. Bambù gli disse: Non ho niente da darti, oggi. Ripassa domani. Ma il leone gli rispose: Ma io so già cosa mangiare: tu! Allora Bambù gli disse: Vattene via, altrimenti ti infilzerò con la mia spada! Il leone, intimorito, scappò via.
Bambù era quasi uscito dalla foresta, quando incontrò un’ape che gli chiese di salvare la sua regina. La regina era una bellissima ragazza, piccolissima, con due ali argentate, che era rimasta impigliata in una ragnatela. Bambù la salvò, ed allora la regina gli regalò tre semi di melone. Questi semi ti aiuteranno a realizzare quello che vuoi. Basterà che tu lo desideri!
Bambù andò al mercato e concluse i suoi affari. Poi tornò verso casa ed attraversando la foresta rincontrò il leone, ancora più feroce ed affamato. Bambù desiderò di ucciderlo con la spada di suo padre, ed ecco che di colpo riuscì a farlo. Un seme di melone era svanito nel frattempo dalla sua tasca.
Bambù scoprì che i semi erano prodigiosi. Ascoltò il suo cuore e desiderò di essere un bel giovane e di rivedere la regina delle api. I due semi sparirono e Bambù diventò un bellissimo ragazzo: di fronte a lui giunse la regina delle api, che ingrandì fino a diventare una vera ragazza. I due tornarono a casa, si sposarono e vissero felici e contenti.
Ramses III morì sgozzato
Il faraone Ramses III morì nel 1.156 a.C., all’età di circa 65 anni.
Un manoscritto – il cosiddetto papiro giudiziario di Torino o papiro della congiura dell’harem, conservato al Museo Egizio di Torino – descrive la sua uccisione come una delle più atroci avvenute nell’Antico Egitto. Secondo il manoscritto, la morte del faraone sarebbe stata pianificata dalla concubina Tij – o Tiye – nella metà del XII secolo a.C. allo scopo di far salire al trono il figlio Pentawer.
Uno studio recente sembra confermare quest’ipotesi, gettando luce su uno dei misteri della storia destinati, altrimenti, a rimanere insoluti.
Il team di ricercatori – guidato dall’egittologo Zahi Hawass, da Carsten Pusch, esperto di genetica dell’Università di Tubinga e da Albert Zink, paleontologo dell’Accademia Europea di Bolzano – ha sottoposto la mummia del faraone ad analisi genetico-molecolari, a indagini radiologiche e a TAC: è stata quest’ultima a rivelare che a Ramses III fu tagliata la gola quand’era ancora vivo.
(Sandro Vannini/Corbis)
“Solo grazie alla TAC si è potuta vedere la ferita alla gola, nascosta da una benda sul collo” del faraone, spiega l’archeologo egiziano Zahi Hawass.
Il regno di Ramses III fu caratterizzato da continui conflitti e da un declino interno, che potrebbero aver indebolito la posizione del faraone e creato le condizioni per una congiura.
La mummia di Ramses III fu rinvenuta, assieme a una cinquantina di altre mummie reali, nella tomba DB320 del nascondiglio di Deir el-Bahari, dove furono trasferite nel periodo del declino dell’Egitto per salvarle dai saccheggiatori.
(Bettmann/Corbis)
Grazie alle immagini della TAC, i ricercatori hanno scoperto un amuleto all’interno della ferita, che rappresenta l’occhio di Horus. “Il taglio alla gola e l’amuleto provano chiaramente che il faraone è stato assassinato”, spiega Zink. “L’amuleto fu collocato nella ferita dopo la sua morte per favorire una guarigione totale nell’aldilà”.
L’amuleto trovato nella gola del faraone Ramses III rappresentava il cosiddetto occhio di Horus, che nell’Antico Egitto era considerato un simbolo di regalità, di protezione e di rigenerazione del corpo.
Alcune prove individuate dai ricercatori supportano l’ipotesi della congiura dell’harem.
Tra queste, le analisi del Dna di un’altra mummia, conosciuta con il nome di “Unknow Man E”.
Gli studiosi hanno ipotizzato che questo corpo, appartenente a un uomo di 18-20 anni, possa essere quello di Pentawer, figlio di Ramses III che, presumibilmente, aveva ordito insieme alla madre la congiura allo scopo di salire al trono al posto del padre.
Il team di ricerca ha scoperto una corrispondenza del 50 per cento tra il materiale genetico del faraone e quello della mummia non identificata. “La mummia è quindi, con tutta probabilità, uno dei figli di Ramses III.
Per esserne certi al cento per cento, bisognerebbe sequenziare il genoma della madre”, spiega Carsten Pusch, esperto di genetica molecolare all’Università di Tubinga. Ma la mummia di Tij, concubina di Ramses III, non è mai stata ritrovata.
I ricercatori, conducendo dei test radiologici sulla mummia che potrebbe appartenere a Pentawer, hanno ipotizzato che si sia suicidato impiccandosi.
“A colpire la nostra attenzione è stato il fatto che il corpo fosse piuttosto gonfio. Inoltre, c’era una strana piegatura della pelle sul collo. Potrebbe essere il risultato di un suicidio per impiccagione. Inoltre, il corpo è rivestito solo con pelle di capra (elemento considerato impuro) e fu mummificato senza aver prima rimosso gli organi interni e il cervello”, spiegano gli scienziati.
Un modo di essere seppellito non adatto a un principe, che suggerisce che potrebbe essere stato lui uno dei promotori della rivolta dell’harem che, attraverso il suicidio, sperava di evitare una pena maggiore nell’aldilà.
IL FATTO STORICO
Un manoscritto – il cosiddetto papiro giudiziario di Torino o papiro della congiura dell’harem, conservato al Museo Egizio di Torino – descrive la sua uccisione come una delle più atroci avvenute nell’Antico Egitto. Secondo il manoscritto, la morte del faraone sarebbe stata pianificata dalla concubina Tij – o Tiye – nella metà del XII secolo a.C. allo scopo di far salire al trono il figlio Pentawer.
Uno studio recente sembra confermare quest’ipotesi, gettando luce su uno dei misteri della storia destinati, altrimenti, a rimanere insoluti.
Il team di ricercatori – guidato dall’egittologo Zahi Hawass, da Carsten Pusch, esperto di genetica dell’Università di Tubinga e da Albert Zink, paleontologo dell’Accademia Europea di Bolzano – ha sottoposto la mummia del faraone ad analisi genetico-molecolari, a indagini radiologiche e a TAC: è stata quest’ultima a rivelare che a Ramses III fu tagliata la gola quand’era ancora vivo.
(Sandro Vannini/Corbis)
“Solo grazie alla TAC si è potuta vedere la ferita alla gola, nascosta da una benda sul collo” del faraone, spiega l’archeologo egiziano Zahi Hawass.
Il regno di Ramses III fu caratterizzato da continui conflitti e da un declino interno, che potrebbero aver indebolito la posizione del faraone e creato le condizioni per una congiura.
La mummia di Ramses III fu rinvenuta, assieme a una cinquantina di altre mummie reali, nella tomba DB320 del nascondiglio di Deir el-Bahari, dove furono trasferite nel periodo del declino dell’Egitto per salvarle dai saccheggiatori.
(Bettmann/Corbis)
Grazie alle immagini della TAC, i ricercatori hanno scoperto un amuleto all’interno della ferita, che rappresenta l’occhio di Horus. “Il taglio alla gola e l’amuleto provano chiaramente che il faraone è stato assassinato”, spiega Zink. “L’amuleto fu collocato nella ferita dopo la sua morte per favorire una guarigione totale nell’aldilà”.
L’amuleto trovato nella gola del faraone Ramses III rappresentava il cosiddetto occhio di Horus, che nell’Antico Egitto era considerato un simbolo di regalità, di protezione e di rigenerazione del corpo.
Alcune prove individuate dai ricercatori supportano l’ipotesi della congiura dell’harem.
Tra queste, le analisi del Dna di un’altra mummia, conosciuta con il nome di “Unknow Man E”.
Gli studiosi hanno ipotizzato che questo corpo, appartenente a un uomo di 18-20 anni, possa essere quello di Pentawer, figlio di Ramses III che, presumibilmente, aveva ordito insieme alla madre la congiura allo scopo di salire al trono al posto del padre.
Il team di ricerca ha scoperto una corrispondenza del 50 per cento tra il materiale genetico del faraone e quello della mummia non identificata. “La mummia è quindi, con tutta probabilità, uno dei figli di Ramses III.
Per esserne certi al cento per cento, bisognerebbe sequenziare il genoma della madre”, spiega Carsten Pusch, esperto di genetica molecolare all’Università di Tubinga. Ma la mummia di Tij, concubina di Ramses III, non è mai stata ritrovata.
I ricercatori, conducendo dei test radiologici sulla mummia che potrebbe appartenere a Pentawer, hanno ipotizzato che si sia suicidato impiccandosi.
“A colpire la nostra attenzione è stato il fatto che il corpo fosse piuttosto gonfio. Inoltre, c’era una strana piegatura della pelle sul collo. Potrebbe essere il risultato di un suicidio per impiccagione. Inoltre, il corpo è rivestito solo con pelle di capra (elemento considerato impuro) e fu mummificato senza aver prima rimosso gli organi interni e il cervello”, spiegano gli scienziati.
Un modo di essere seppellito non adatto a un principe, che suggerisce che potrebbe essere stato lui uno dei promotori della rivolta dell’harem che, attraverso il suicidio, sperava di evitare una pena maggiore nell’aldilà.
IL FATTO STORICO