sabato 13 ottobre 2012
Di necessità ....virtù
IL MARITO ENTRA IN CAMERA E DICE:
“Cara, sono per il tuo mal di testa”.
“Ma io non ho mal di testa!”.
“Fregata!”
Finanziamento pubblico ai giornali: quanto costano allo Stato i quotidiani
Le cifre del finanziamento pubblico ai quotidiani italiani, una questione spinosa ma anche un'anomalia tutta italiana. Eppure, un altro modello è possibile...
EDIZIONI DE L'INDIPENDENTE CRONACHE DI LIBERAL 2.798.767,84
BALENA BIANCA) DEMOCRAZIA CRISTIANA 303.204,78
DLM EUROPA EUROPA 3.527.208,08
M.R.C. LIBERAZIONE GIORNALE COMUNISTA 3.340.443,23
UNDICIDUE TERRA 2.484.656,16
EDITORIALE NORD LA PADANIA 3.896.339,15
NOUVELLE ED.CE LE PEUPLE PEUPLE VALDOTAINE 306.447,59
LAERRE SOC. COOP. RINASCITA DELLA SINISTRA 886.615,25
SECOLO D'ITALIA SECOLO D'ITALIA 2.952.474,59
SOCIETA' DI COMUNICAZIONE ED INF.LAB SOCIALISTA 480.061,60
NUOVA INIZIATIVA EDITORIALE L'UNITA' 6.377.209,80
STIFTUNG SUDTIROLER ZUKUNFT IN SUDTIROL 603.675,88
Parte rilevante invece acquisisce il finanziamento di un'altra “tipologia” di giornali, ovvero quelli “editi da cooperative di giornalisti (Art. 3 comma 2 Legge 250 /1990), non fosse altro che in relazione alle numerose polemiche sollevate da alcune “scelte societarie”. Nel dettaglio, possiamo notare come a beneficiarne siano ben 29 testate:
Contributi per testate edite da cooperative di giornalisti
Impresa Testata Importo
AREA AG. COOP A.R.E.A. 1.012.255,52
AREA AG. COOP A.R.E.A. 1.012.255,52
INTERNATIONAL PRESS L'AVANTI 2.530.640,81
DOSSIER SOC. COOP. BUONGIORNO CAMPANIA 1.041.078,54
GRAFIC EDITRICE IL CITTADINO OGGI 2.338.600,46
GIORNALI ASSOCIATI CORRIERE DI FORLI' 2.530.638,81
19 LUGLIO COOP. CORRIERE DEL GIORNO 2.024.511,05
EDILAZIO 92 IL CORRIERE LAZIALE 1.904.503,29
GIORNAL. E POLIGRAF.COOP IL CORRIERE MERCANTILE 2.530.638,81
NUOVA INFORMAZIONE LA CRONACA 2.497.474,59
LIBRA EDITRICE CRONACHE DI NAPOLI 1.631.028,60
DIRE SCRL DIRE 1.012.255,52
EDITORIALE 91 IL GIORNALE DI CALABRIA 413.587,66
AGENZIA GRT GRTV PRESS 367.190,40
GIORNAL.E POLIGRAF.ASS. ITALIA SERA 832.491,18
MANIFESTO COOP. IL MANIFESTO 3.745.345,44
STAMPA DEMOCRATICA 95 METROPOLIS 1.611.535,37
ED.GIORNALI QUOTIDIANI NUOVA GAZZETTA DI CASERTA 722.670,85
ED.LE GIORNALISTI ASS. BARI SERA 1.215.208,34
PROG.3000 COMUNICAZIONI PAESE NUOVO 535.087,27
EFFE COOP. PROVINCIA QUOTIDIANO 2.530.638,81
SOC.COOP.ESSEPI PUGLIA QUOTIDIANO DI VITA REG. 373.825,46
RINASCITA SOC. RINASCITA 2.489.261,37
I ROMANISTI SOC. COOP. IL ROMANISTA 938.811,65
PAGINE SANNITE IL SANNIO QUOTIDIANO 1.726.598,29
VERITA ED.LE LA VERITA' 1.727.516,84
Altro settore (si fa per dire, considerata l'entità dei fondi messi a disposizione) quello relativo ai quotidiani che ricevono copiosi contributi in quanto “editi da imprese la cui maggioranza del capitale sia detenuta da cooperative, fondazioni o enti morali, secondo l'articolo 3 comma 2 bis della legge 250 del 1990). Nello specifico è interessante notare il “peso specifico” di alcune testate che beneficiano di tali sovvenzioni (nella tabella manca La Voce di Romagna, che riceve ben 2,5 milioni di euro):
Contributi per quotidiani editi da imprese la cui maggioranza sia detenuta da cooperative, fondazioni o enti morali
Impresa Testata Importo
AVVENIRE NUOVA ED.LE AVVENIRE 5.871.082,04
LAUDENSE ED.LE IL CITTADINO 2.530.638,81
CONQUISTE DEL LAVORO SRL CONQUISTE DEL LAVORO 3.289.851,60
EDIZIONI PROPOSTA SUD CORRIERE DELL'IRPINIA 292.182,46
EDITORIALE SRL CORRIERE DI COMO 1.479.800,78
EDITORIALE ARGO CRONACA QUI.IT 3.667.396,28
EDITRICE EUROPA OGGI LA DISCUSSIONE 2.530.638,81
T&P EDITORI ESL IIL DOMANI 1.318.562,49
EDITORIALE BOLOGNA S.R.L.L'INFORMAZIONE – IL DOMANI 1.585.525,48
GRUPPO ED.LE UMBRIA 1819 GIORNALE DELL'UMBRIA 1.965.758,60
TOSCANA SOC.DI ED. GIORNALE NUOVO DELLA TOSCANA 2.530.638,81
ITALIA OGGI ED. ITALIA OGGI 5.263.728,72
2000 EDITORIALE SRL NUOVO CORRIERE DI FIRENZE 2.530.638,81
L'APPRODO SRL OTTOPAGINE 1.158.993,90
EDISERVICE QUOTIDIANO DI SICILIA 1.666.581,67
BM ITALIANA ED.LE SCUOLA SNALS 1.716.689,37
Di un certo rilievo (oltre 4,5 milioni di euro) il contributo che il Fondo per l'editoria mette a disposizione dei “quotidiani italiani editi e diffusi all'estero secondo le modalità disciplinate dall'articolo 3 comma 2 tre della legge 250/1990″, così come parimenti importante è il sovvenzionamento dei quotidiani editi in lingua francese, ladina, slovena e tedesca nelle regioni autonome Valle D'Aosta, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige (circa 5,5 milioni di euro). Anche in questo caso i dati sono aggiornati al 6 giugno 2011 e disponibili sul sito del Governo:
Contributi per quotidiani editi e diffusi all'estero (oppure) in lingua francese, ladina, slovena e tedesca nelle regioni autonome
Impresa Testata Importo
OGGI GRUPPO ED.LE AMERICA OGGI 1.291.142,25
ITALMEDIA SCRL CORRIERE CANADESE 1.446.079,32
PORPS INTERNATIONAL GENTE D'ITALIA 321.667,47
S.E.I. PTY LTD. IL GLOBO 1.291.142,25
LA VOCE D'ITALIA VOCE D'ITALIA 244.496,55
DIE NEUE SUDTIROLER TAGESZEITUNG DIE NEUE SUDTIROLER TAGESZEITUNG
866.571,63
ATHESIADRUCK DOLOMITEN 1.568.996,06
PR.A.E. PRIMORSKI DNEVIK 1.897.979,11
PR.A.E (ex art. 3 278/91) PRIMORSKI DNEVIK 1.032.913,79
Con un capitolo a parte vengono invece rimpinguate le casse di quelle “imprese editrici di quotidiani o periodici organi di movimenti politici, trasformatesi in cooperativa entro e non oltre il 1° dicembre 2011″, con riferimento al relativo articolo 153 della legge 388/2000. A beneficiarne in maniera cospicua la società editrice de Il Foglio diretto da Giuliano Ferrara, ma non solo:
Contributi per quotidiani organi di movimenti politici trasformatesi in cooperativa
Impresa Testata Importo
PROPEDIT APRILE 201.292,49
AREA EDITORIALE AREA – POLITICA COMUNITA' ECONOMICA 315.202,24
IL BIANCO E IL ROSSO SOC. COOP. CRISTIANO SOCIALI NEWS 58.699,14
EDIZIONI DEL MEDITERRANEO IL DENARO 2.455.232,22
CUNEESE SOC. COOP. IL DUEMILA 181.033,57
FOGLIO QUOTIDIANO SCARL IL FOGLIO 3.441.668,78
SETTEMARI PICCOLA SOC.COOP. METROPOLI DAY 2.024.511,05
MILANO METROPOLI PICCOLA SOC. MILANO METROPOLI 430.665,60
AMICI DELL'OPINIONE SCARL OPINIONE DELLE LIBERTA' 2.009.957,81
NUOVE POLITICHE EDITORIALI VOCE REPUBBLICANA 634.721,66
Ovviamente i dati riportati sono quelli diffusi dal governo, disponibili sul portale del Dipartimento per l'informazione e l'editoria ed aggiornati a giugno 2011. Un capitolo a parte, di cui ci occuperemo in un report di prossima pubblicazione, merita il sovvenzionamento dei periodici, che fanno riferimento alle ormai “proverbiali” cooperative, fondazioni ed enti morali (e vi assicuriamo che ci sono alcune voci che meritano un'attenta considerazione…).
UN'ANOMALIA ITALIANA - In un quadro siffatto non sorprende il tenore delle polemiche seguite alle prime indiscrezioni di tagli e ridimensionamenti di tale mole di trasferimenti. Una situazione già vissuta in passato e recentemente tornata alla ribalta con il fuoco di fila sul Ministro Tremonti e il successivo compromesso abbozzato dalla costituzione del fondo Letta, cui persino il nuovo titolare della delega all'editoria del Governo Monti, Carlo Malinconico, aveva ipotizzato di ricorrere per tamponare la falla aperta dalla ripartizione dei fondi dopo l'ultima manovra (prima di essere costretto alle dimissioni dopo l'affaire Piscicelli). Senza mezzi termini la questione è abbastanza semplice: senza i fondi pubblici un gran numero di testate rischia la chiusura, con la cancellazione (certa) delle pubblicazioni cartacee, un difficoltoso e complesso riposizionamento online e la perdita di centinaia di posti di lavoro. D'altro canto però, quella del finanziamento pubbblico ai giornali è davvero un'anomalia tutta italiana, una misura che rasenta l'assistenzialismo e, nel mutato quadro dell'informazione, finanche una insostenibile ingiustizia nei confronti delle migliaia di aziende che operano nel settore senza ricevere alcun tipo di finanziamento. Sulla questione si è lungamente dibattuto, in gran parte dei casi partendo da posizioni consolidate e sempre “interessate”, tanto che risulta quasi impossibile ipotizzare una “sintesi concettuale condivisa”. In buona sostanza, o si ammette come legittimo il presupposto in base al quale una “certa” tipologia di giornale è “più uguale degli altri”, oppure non si può che convenire che questa assegnazione di ingenti somme di denaro pubblico è una anomalia su cui intervenire. Il che non vuol dire svalutare la funzione ed il ruolo di quotidiani “storici” e di alto profilo culturale, nè sminuire la funzione essenziale della stampa e dell'informazione (e su questo aspetto le considerazioni si sprecherebbero), nè soprattutto ignorare le ricadute in chiave occupazionale degli addetti del settore. Si tratta semplicemente di capire fino a che punto è sostenibile questo modello assistenzialista e (nella sostanza) discriminatorio, che ha prodotto situazioni al limite del paradossale (come vi mostreremo anche nella seconda parte dedicata ai “periodici”). Tutto qui, insomma.
E crescendo impari...
E crescendo impari che la felicità non e’ quella delle grandi cose.
Non e’ quella che si insegue a vent’anni, quando, come gladiatori si combatte il mondo per uscirne vittoriosi…
La felicità non e’ quella che affannosamente si insegue credendo che l’amore sia tutto o niente,…
non e’ quella delle emozioni forti che fanno il “botto” e che esplodono fuori con tuoni spettacolari…
la felicità non e’ quella di grattacieli da scalare, di sfide da vincere mettendosi continuamente alla prova.
Crescendo, impari che la felicità e’ fatta di cose piccole ma preziose….
…e impari che il profumo del caffe’ al mattino e’ un piccolo rituale di felicità, che bastano le note di una canzone, le sensazioni di un libro dai colori che scaldano il cuore, che bastano gli aromi di una cucina, la poesia dei pittori della felicità, che basta il muso del tuo gatto o del tuo cane per sentire una felicità lieve. E impari che la felicità e’ fatta di emozioni in punta di piedi, di piccole esplosioni che in sordina allargano il cuore, che le stelle ti possono commuovere e il sole far brillare gli occhi,
e impari che un campo di girasoli sa illuminarti il volto, che il profumo della primavera ti sveglia dall’inverno, e che sederti a leggere all’ombra di un albero rilassa e libera i pensieri.
E impari che l’amore e’ fatto di sensazioni delicate, di piccole scintille allo stomaco, di presenze vicine anche se lontane, e impari che il tempo si dilata e che quei 5 minuti sono preziosi e lunghi più di tante ore,
e impari che basta chiudere gli occhi, accendere i sensi, sfornellare in cucina, leggere una poesia, scrivere su un libro o guardare una foto per annullare il tempo e le distanze ed essere con chi ami.
E impari che sentire una voce al telefono, ricevere un messaggio inaspettato, sono piccolo attimi felici.
E impari ad avere, nel cassetto e nel cuore, sogni piccoli ma preziosi.
E impari che tenere in braccio un bimbo e’ una deliziosa felicità.
E impari che i regali più grandi sono quelli che parlano delle persone che ami…
E impari che c’e’ felicità anche in quella urgenza di scrivere su un foglio i tuoi pensieri, che c’e’ qualcosa di amaramente felice anche nella malininconia.
E impari che nonostante le tue difese,
nonostante il tuo volere o il tuo destino,
in ogni gabbiano che vola c’e’ nel cuore un piccolo-grande
Jonathan Livingston.
E impari quanto sia bella e grandiosa la semplicità.
Autista scuolabus getta dal finestrino un cane e poi lo investe
Butta fuori dal finestrino un cagnolino e lo investe - La notizia ha dell’incredibile ed arriva da un paesino in provincia di Cagliari, in Sardegna, dove ieri mattina l’autista di uno scuolabus, mentre era in servizio, ha gettato fuori dal finestrino un cagnolino, investendolo successivamente. I ragazzini presenti sul mezzo sono rimasti allibiti dalla scena a cui hanno assistito, e non solo loro.
La ricostruzione dei fatti - Il fatto è accaduto in località Rio San Girolamo, in provincia di Cagliari. L’autista, che si trovava a bordo di un mezzo della Sumb-Servizi urbani, che ogni mattina fornisce un servizio trasporti per gli studenti dellascuola media di Frutti d’oro, frazione sul litorale di Capoterra, avrebbe notato un cagnolino di piccole dimensioni, un cucciolo, che era salito sul mezzo insieme ad alcuni ragazzi ad una delle fermate dello scuolabus. Subito l’uomo avrebbe afferrato il cane per il collo e lo avrebbe scaraventato fuori dal finestrino dell’autobus, per poi investirlo volontariamente, provocandone la morte istantanea.
La denuncia ai carabinieri di Cagliari - L'episodio, avvenuto ieri mattina in località Rio San Girolamo, è stato denunciato ai carabinieri della compagnia di Cagliari dagli stessi studenti che hanno assistito inermi alla scena di crudeltà contro il piccolo animale. Gli inquirenti indagano per accertare se la morte del cagnolino sia stata volontaria o se sia avvenuta accidentalmente dopo che l'animale era stato violentemente lanciato fuori dall'autobus. Il corpo dell’animale barbaramente ucciso è stato poi raccolto, nel punto indicato dai testimoni, da un veterinario della Asl allertato dai carabinieri.
Maria Rosa Tamborrino (11/10/2012)
La ricostruzione dei fatti - Il fatto è accaduto in località Rio San Girolamo, in provincia di Cagliari. L’autista, che si trovava a bordo di un mezzo della Sumb-Servizi urbani, che ogni mattina fornisce un servizio trasporti per gli studenti dellascuola media di Frutti d’oro, frazione sul litorale di Capoterra, avrebbe notato un cagnolino di piccole dimensioni, un cucciolo, che era salito sul mezzo insieme ad alcuni ragazzi ad una delle fermate dello scuolabus. Subito l’uomo avrebbe afferrato il cane per il collo e lo avrebbe scaraventato fuori dal finestrino dell’autobus, per poi investirlo volontariamente, provocandone la morte istantanea.
La denuncia ai carabinieri di Cagliari - L'episodio, avvenuto ieri mattina in località Rio San Girolamo, è stato denunciato ai carabinieri della compagnia di Cagliari dagli stessi studenti che hanno assistito inermi alla scena di crudeltà contro il piccolo animale. Gli inquirenti indagano per accertare se la morte del cagnolino sia stata volontaria o se sia avvenuta accidentalmente dopo che l'animale era stato violentemente lanciato fuori dall'autobus. Il corpo dell’animale barbaramente ucciso è stato poi raccolto, nel punto indicato dai testimoni, da un veterinario della Asl allertato dai carabinieri.
Maria Rosa Tamborrino (11/10/2012)
Flash sul mondo...di tutto, di più: La nostra polizia tratta un bambino di 10 anni com...
Riproponiamo questo video originale
poiché il precedente da noi postato è stato oscurato
Speriamo che questo non subisca la stessa sorte
Nella convinzione che in Italia si viva ancora in democrazia e in libertà di pensiero
amore materno
L'amore materno non richiede un atto di fede, ma la semplice consapevolezza, la capacità di “vedere” il miracolo della vita nella sua manifesta bellezza e sacralità Che si tratti di piante o animali Il rispetto per ogni essere vivente è essenziale se vogliamo raggiungere il senso profondo di equilibrio e completezza con il nostro pianeta.
Il sonno dei Bronzi di Riace
REGGIO CALABRIA - in attesa dell'inaugurazione, i due gioielli ellenistici sono esposti "distesi" su due lettini ortopedici,in una saletta del Consiglio regionale. In perenne attesa del museo della Magna Grecia Coricati ed esibiti, dietro una vetrata, i Bronzi di Riace sono due caduti in battaglia, le magnifiche vittime dell'inadeguatezza italiana. Vederli sdraiati è il primo scandalo di incredulità. Un simpatico signore in camice bianco li accudisce come fossero i suoi figli. Cosimo Schepis, uno dei restauratori di esperienza internazionale, calabrese gramsciano - perché pessimista della ragione - ama questi due ostaggi del "paisi i 'm'incrisciu e mi 'ndi futtu'/ e tutti i cosi sunnu fissaria" , "il paese dei 'mi annoio e me ne fottò e ogni cosa è fesseria", e parla con dolcezza ai suoi pazienti. Ma trattandoli come fossero vivi, li fa sembrare morti. E difatti io stento a riconoscere il sovrappiù di umanità, di forza, di spirito, e i nervi in fuga, e le dita prensili, insomma quell'eccesso di vita che nei Bronzi guerrieri è verticalità. E allora vorrei attraversare il vetro, romperlo e passare dall'altra parte per rimettere in piedi questi Bronzi che, a quarant'anni dal ritrovamento nel fondo del mare, vengono esibiti così, coricati in una saletta del bruttissimo, marmoso Consiglio regionale della Calabria, palazzo Campanella, un altro fantasma d'uomo dell'antichità che si è perduto nella città del sole dove i Bronzi di Riace, quelli dritti, sono riprodotti dappertutto. E sono fantasmi anche i tre bibliotecari del Museo della Magna Grecia che dal 2009 sono "congelati". Anche loro sono coricati come i Bronzi, in attesa di erigersi in piedi al completamento degli interminabili lavori di rifacimento del Museo. I libri, 25.000, sono chiusi negli scatoloni, nel sottosuolo. In altri contenitori continuano il loro sonno antico le collezioni archeologiche, dalla preistoria alla Magna Grecia. Accanto ci sono due tombe elleniche, piccole casette in mattoni con le tegole disposte a libro. I tre bibliotecari non sono i soli dipendenti pagati dal Museo chiuso. E si capisce che i Bronzi, in una terra tanto depressa, sono un'iniezione vitaminica, il solo denaro che gira. I Bronzi non sono solo arte e storia ma economia, come una Madonna che piange, un padre Pio taumaturgo, un mago che l'azzecca, la rondine che fa primavera. E non solo per i grandi investimenti come i 30 milioni stanziati per il Museo, ma anche per il piccolo mercato, sino all'imbroglio di quell'ex avvocato di Scilla che per sbarcare il lunario si offriva come guida agli stranieri per un tour nei luoghi dei Bronzi, nella città-santuario: qui sorgeva la palestra dove si allenavano, qui c'era la casa di Chrestos e qui invece abitava Erastos, e alla fine il cicerone esibiva pure l'ultimo discendente: un vecchio sordomuto: "Achaikos estin", greco è. In realtà i veri eredi dei due guerrieri, in senso testamentario, sono i restauratori che dopo 2400 anni di vita dei Bronzi in salamoia sono giustamente intervenuti la prima volta: otto anni di cure. Poi si è scoperto che bisognava dotarli di un piedistallo antisismico: tre anni. Infine qualcuno ha notato che i microclimi del vecchio museo corrodevano inesorabilmente i guerrieri che pure impavidamente avevano resistito a Nettuno e ai suoi umori di acida salinità, protetti da una crosta di calcare. E li hanno coricati tre anni fa, ma forse solo perché il Museo era stato intanto chiuso. Come si vede, dopo quarant'anni di investimenti (sono state realizzate due copie per un milione di euro), questi non sono più i guerrieri sulla cui misteriosa identità inutilmente litiga la storia antica dell'intero Pianeta L'architetto Prosperetti, il gran potereministerialedell'Antichità in Calabria, vuole lanciare un concorsone internazionale di idee per portare il mondo ai piedi dei Bronzi, che forse non si sono solo coricati, ma anche accartocciati in se stessi per desiderio di sparire, voglia di cupio dissolvi. Non regge il loro cuore alla vista - nel centro elegante di Reggio - dello sgretolamento delle facciate delle ville costruite dopo il terremoto del 1908! E non ci sono altre grandi città del sud così dissipate, dissipantisi. Solo la santa ruspa potrebbe fare giustizia dei palazzi senza intonaco, dei piloni di calce e mattoni, dei mozziconi di case senza più colore, edifici abbandonati in pieno centro, finestre murate e finestre divelte, "guardi, sembra Beirut" mi dice la sovrintendente Bonomi indicando le finestre della sua stanza panoramica. Ma poi giro lo sguardo e vedo l'Etna a sinistra, Messina di fronte, ovunque il mare. A Reggio le costruzioni sembrano fatte apposta per irraggiare senso di smarrimento: dai posti più brutti vedi gli scenari più belli. Qui c'è una speciale architettura che la sovrintendente chiama "il non finito calabrese": il cinema Centralino ridotto a scheletro di cemento e mattoni; il Roof Garden, che fu un locale alla moda e ora sembra bombardato, persino il lungomare sognato da D'Annunzio ("il più bel chilometro d'Italia") a poco a poco sta perdendo il suo incanto, degradato dal tempo che passa, dal contesto che avanza, dal "non finito calabrese" che a Reggio minaccia di lasciare indefinito qualsiasi futuro. E il futuro già per suo statuto non è mai finito.
di FRANCESCO MERLO
REGGIO CALABRIA - in attesa dell'inaugurazione, i due gioielli ellenistici sono esposti "distesi" su due lettini ortopedici,in una saletta del Consiglio regionale. In perenne attesa del museo della Magna Grecia Coricati ed esibiti, dietro una vetrata, i Bronzi di Riace sono due caduti in battaglia, le magnifiche vittime dell'inadeguatezza italiana. Vederli sdraiati è il primo scandalo di incredulità. Un simpatico signore in camice bianco li accudisce come fossero i suoi figli. Cosimo Schepis, uno dei restauratori di esperienza internazionale, calabrese gramsciano - perché pessimista della ragione - ama questi due ostaggi del "paisi i 'm'incrisciu e mi 'ndi futtu'/ e tutti i cosi sunnu fissaria" , "il paese dei 'mi annoio e me ne fottò e ogni cosa è fesseria", e parla con dolcezza ai suoi pazienti. Ma trattandoli come fossero vivi, li fa sembrare morti. E difatti io stento a riconoscere il sovrappiù di umanità, di forza, di spirito, e i nervi in fuga, e le dita prensili, insomma quell'eccesso di vita che nei Bronzi guerrieri è verticalità. E allora vorrei attraversare il vetro, romperlo e passare dall'altra parte per rimettere in piedi questi Bronzi che, a quarant'anni dal ritrovamento nel fondo del mare, vengono esibiti così, coricati in una saletta del bruttissimo, marmoso Consiglio regionale della Calabria, palazzo Campanella, un altro fantasma d'uomo dell'antichità che si è perduto nella città del sole dove i Bronzi di Riace, quelli dritti, sono riprodotti dappertutto. E sono fantasmi anche i tre bibliotecari del Museo della Magna Grecia che dal 2009 sono "congelati". Anche loro sono coricati come i Bronzi, in attesa di erigersi in piedi al completamento degli interminabili lavori di rifacimento del Museo. I libri, 25.000, sono chiusi negli scatoloni, nel sottosuolo. In altri contenitori continuano il loro sonno antico le collezioni archeologiche, dalla preistoria alla Magna Grecia. Accanto ci sono due tombe elleniche, piccole casette in mattoni con le tegole disposte a libro. I tre bibliotecari non sono i soli dipendenti pagati dal Museo chiuso. E si capisce che i Bronzi, in una terra tanto depressa, sono un'iniezione vitaminica, il solo denaro che gira. I Bronzi non sono solo arte e storia ma economia, come una Madonna che piange, un padre Pio taumaturgo, un mago che l'azzecca, la rondine che fa primavera. E non solo per i grandi investimenti come i 30 milioni stanziati per il Museo, ma anche per il piccolo mercato, sino all'imbroglio di quell'ex avvocato di Scilla che per sbarcare il lunario si offriva come guida agli stranieri per un tour nei luoghi dei Bronzi, nella città-santuario: qui sorgeva la palestra dove si allenavano, qui c'era la casa di Chrestos e qui invece abitava Erastos, e alla fine il cicerone esibiva pure l'ultimo discendente: un vecchio sordomuto: "Achaikos estin", greco è. In realtà i veri eredi dei due guerrieri, in senso testamentario, sono i restauratori che dopo 2400 anni di vita dei Bronzi in salamoia sono giustamente intervenuti la prima volta: otto anni di cure. Poi si è scoperto che bisognava dotarli di un piedistallo antisismico: tre anni. Infine qualcuno ha notato che i microclimi del vecchio museo corrodevano inesorabilmente i guerrieri che pure impavidamente avevano resistito a Nettuno e ai suoi umori di acida salinità, protetti da una crosta di calcare. E li hanno coricati tre anni fa, ma forse solo perché il Museo era stato intanto chiuso. Come si vede, dopo quarant'anni di investimenti (sono state realizzate due copie per un milione di euro), questi non sono più i guerrieri sulla cui misteriosa identità inutilmente litiga la storia antica dell'intero Pianeta L'architetto Prosperetti, il gran potereministerialedell'Antichità in Calabria, vuole lanciare un concorsone internazionale di idee per portare il mondo ai piedi dei Bronzi, che forse non si sono solo coricati, ma anche accartocciati in se stessi per desiderio di sparire, voglia di cupio dissolvi. Non regge il loro cuore alla vista - nel centro elegante di Reggio - dello sgretolamento delle facciate delle ville costruite dopo il terremoto del 1908! E non ci sono altre grandi città del sud così dissipate, dissipantisi. Solo la santa ruspa potrebbe fare giustizia dei palazzi senza intonaco, dei piloni di calce e mattoni, dei mozziconi di case senza più colore, edifici abbandonati in pieno centro, finestre murate e finestre divelte, "guardi, sembra Beirut" mi dice la sovrintendente Bonomi indicando le finestre della sua stanza panoramica. Ma poi giro lo sguardo e vedo l'Etna a sinistra, Messina di fronte, ovunque il mare. A Reggio le costruzioni sembrano fatte apposta per irraggiare senso di smarrimento: dai posti più brutti vedi gli scenari più belli. Qui c'è una speciale architettura che la sovrintendente chiama "il non finito calabrese": il cinema Centralino ridotto a scheletro di cemento e mattoni; il Roof Garden, che fu un locale alla moda e ora sembra bombardato, persino il lungomare sognato da D'Annunzio ("il più bel chilometro d'Italia") a poco a poco sta perdendo il suo incanto, degradato dal tempo che passa, dal contesto che avanza, dal "non finito calabrese" che a Reggio minaccia di lasciare indefinito qualsiasi futuro. E il futuro già per suo statuto non è mai finito.
di FRANCESCO MERLO
I BRONZI DI RIACE Le due sculture furono ritrovate nel mare Ionio, a 300 metri dalle coste di Riace in provincia di Reggio Calabria, nel 1972.
Ci sono varie ipotesi su quali fossero i personaggi reali cui erano ispirati i bronzi di Riace sono fiorite fin dal 1972, quando il giovane subacqueo Stefano Mariottini ritrovò le due statue al largo di Marina di Riace. Ora l’enigma ha trovato una risposta convincente grazie agli studi di Paolo Moreno, docente di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana all’università di Roma Tre.
Il bronzo A, detto “il giovane”, potrebbe rappresentare Tideo, un feroce eroe proveniente dall’Etolia, figlio del dio Ares (o del re Eneo) e protetto di Atena. Il bronzo B, detto “il vecchio”, raffigurerebbe invece Anfiarao, un profeta guerriero. Entrambi parteciparono alla mitica spedizione della città di Argo contro Tebe, e Anfiarao aveva persino profetizzato la sua morte sotto le mura di Tebe e la disastrosa conclusione della spedizione. Oltre ad aver identificato i due personaggi, il professor Moreno ha individuato gli artefici delle statue e trovato l’originale collocazione dei due pezzi. Come spiega il ricercatore, analizzando la terra estratta dalle statue, si è scoperto che quella del bronzo B proveniva dall’Atene di 2500 anni fa, mentre quella del bronzo A apparteneva alla pianura ove sorgeva la città di Argo, più o meno nello stesso periodo. Soprattutto, si è scoperto che le statue furono fabbricate col metodo della fusione diretta, poco usato, perché non consentiva errori: quando si versava il bronzo fuso, infatti, il modello originale era perduto per sempre. La provenienza geografica e la tecnica usata hanno convinto il professor Moreno che l’autore di Tideo fosse Agelada, uno scultore di Argo che, a metà del V secolo a.C., lavorava nel santuario greco di Delfi e nel Peloponneso. Quando ad Anfiarao, i risultati dell’analisi hanno confermato l’ipotesi dell’archeologo greco Geòrghios Dontàs: a scolpirlo fu Alcamene, nato sull’isola di Lemno, che, pare, avesse ricevuto la cittadinanza ateniese per i suoi meriti di artista. Ai risultati della ricerca, il professor Moreno ha unito lo studio di documenti storici. Come quelli lasciati dal greco Pausania, che aveva redatto tra il 160 e il 177 d.C. una vera e propria guida turistica dei luoghi e dei monumenti della Grecia. In particolare, Pausania scrisse di aver visto nella piazza principale di Argo un monumento ai “Sette a Tebe”, gli eroi che fallirono nell’impresa di conquistare la città, e ai loro figli (gli Epigoni) che li riscattarono ripetendo l’impresa con successo: un parallelismo inquietante… Da un’attenta analisi delle statue sono venute alla luce alcune curiosità. Ad esempio, le statue erano abbellite da elementi cromatici. L’espressione di Tideo sembrerebbe sorridente ma…in realtà si tratta di un ghigno bestiale, simbolo della ferocia del guerriero capace di divorare il cervello del nemico tebano Melanippo: un orrendo atto di antropofagia che costò all’eroe l’immortalità promessagli da Atena. E che dire dell’espressione angosciata dell’altro bronzo? Anfiarao, il guerriero-profeta, tradito dalla moglie Erifile, era stato costretto a partire per la guerra pur conoscendo quale sarebbe stata la (tragica) conclusione della spedizione e la propria morte. Un’altra traccia seguita dal professor Moreno è stata la descrizione, da parte di Pausania, di una copia del monumento di Argo edificata a Delfi, dalla quale ha potuto dedurre che le statue poggiavano su un semplice podio semicircolare in pietra dal diametro di 13 m (tuttora esistente). Degli altri bronzi sono rimasti soltanto indizi indiretti; in particolare, significativo è un vaso ritrovato a Spina (vicino a Ferrara), che risale al V secolo a.C. e che riproduce proprio i Sette di Tebe e gli Epigoni. Resta un ultimo enigma: come hanno fatto questi due bronzi superstiti a giungere nelle acque calabresi? Gettate in mare da una nave in difficoltà? O da uno scafo di una nave danneggiata?
Fonti: Focus; Riccardo Tonani, La vera storia dei bronzi di Riace
Dove e come sono conservati (vedi il post dopo)
Il bronzo A, detto “il giovane”, potrebbe rappresentare Tideo, un feroce eroe proveniente dall’Etolia, figlio del dio Ares (o del re Eneo) e protetto di Atena. Il bronzo B, detto “il vecchio”, raffigurerebbe invece Anfiarao, un profeta guerriero. Entrambi parteciparono alla mitica spedizione della città di Argo contro Tebe, e Anfiarao aveva persino profetizzato la sua morte sotto le mura di Tebe e la disastrosa conclusione della spedizione. Oltre ad aver identificato i due personaggi, il professor Moreno ha individuato gli artefici delle statue e trovato l’originale collocazione dei due pezzi. Come spiega il ricercatore, analizzando la terra estratta dalle statue, si è scoperto che quella del bronzo B proveniva dall’Atene di 2500 anni fa, mentre quella del bronzo A apparteneva alla pianura ove sorgeva la città di Argo, più o meno nello stesso periodo. Soprattutto, si è scoperto che le statue furono fabbricate col metodo della fusione diretta, poco usato, perché non consentiva errori: quando si versava il bronzo fuso, infatti, il modello originale era perduto per sempre. La provenienza geografica e la tecnica usata hanno convinto il professor Moreno che l’autore di Tideo fosse Agelada, uno scultore di Argo che, a metà del V secolo a.C., lavorava nel santuario greco di Delfi e nel Peloponneso. Quando ad Anfiarao, i risultati dell’analisi hanno confermato l’ipotesi dell’archeologo greco Geòrghios Dontàs: a scolpirlo fu Alcamene, nato sull’isola di Lemno, che, pare, avesse ricevuto la cittadinanza ateniese per i suoi meriti di artista. Ai risultati della ricerca, il professor Moreno ha unito lo studio di documenti storici. Come quelli lasciati dal greco Pausania, che aveva redatto tra il 160 e il 177 d.C. una vera e propria guida turistica dei luoghi e dei monumenti della Grecia. In particolare, Pausania scrisse di aver visto nella piazza principale di Argo un monumento ai “Sette a Tebe”, gli eroi che fallirono nell’impresa di conquistare la città, e ai loro figli (gli Epigoni) che li riscattarono ripetendo l’impresa con successo: un parallelismo inquietante… Da un’attenta analisi delle statue sono venute alla luce alcune curiosità. Ad esempio, le statue erano abbellite da elementi cromatici. L’espressione di Tideo sembrerebbe sorridente ma…in realtà si tratta di un ghigno bestiale, simbolo della ferocia del guerriero capace di divorare il cervello del nemico tebano Melanippo: un orrendo atto di antropofagia che costò all’eroe l’immortalità promessagli da Atena. E che dire dell’espressione angosciata dell’altro bronzo? Anfiarao, il guerriero-profeta, tradito dalla moglie Erifile, era stato costretto a partire per la guerra pur conoscendo quale sarebbe stata la (tragica) conclusione della spedizione e la propria morte. Un’altra traccia seguita dal professor Moreno è stata la descrizione, da parte di Pausania, di una copia del monumento di Argo edificata a Delfi, dalla quale ha potuto dedurre che le statue poggiavano su un semplice podio semicircolare in pietra dal diametro di 13 m (tuttora esistente). Degli altri bronzi sono rimasti soltanto indizi indiretti; in particolare, significativo è un vaso ritrovato a Spina (vicino a Ferrara), che risale al V secolo a.C. e che riproduce proprio i Sette di Tebe e gli Epigoni. Resta un ultimo enigma: come hanno fatto questi due bronzi superstiti a giungere nelle acque calabresi? Gettate in mare da una nave in difficoltà? O da uno scafo di una nave danneggiata?
Fonti: Focus; Riccardo Tonani, La vera storia dei bronzi di Riace
Dove e come sono conservati (vedi il post dopo)
I BEATI PAOLI
Furono una leggendaria setta segreta di vendicatori-giustizieri, sorta a Palermo, probabilmente con il nome di Vendicosi, a partire dal XII secolo, con l'obiettivo di raddrizzare i torti subiti dalla povera gente.
La società nacque, secondo il marchese di Villabianca, come reazione allo strapotere e ai soprusi dei nobili che amministravano direttamente anche la giustizia criminale nei loro feudi. I Beati Paoli , detti anche "Vindicosi" , sulle cui origini aleggiano, dubbi, misteri, supposizioni. La prima fonte in nostro possesso risale al 1185 ed è contenuta nella Breve Cronaca di un Anonimo Monaco Cassinese; ulteriori indicazioni si hanno attraverso la Cronaca di Fossanova, opera anonima che contiene gli avvenimenti sino al 1217 (probabile anno di stesure dello scritto): viene riportato che un certo Adinolfo di Ponte Corvo, maestro della setta, fu impiccato e molti altri furono marchiati con ferri roventi; proprio grazie a queste informazioni, possiamo constatare che la setta dei "Beati Paoli" esce dalle nebbie della leggenda per divenire storia. Possiamo dunque ritenere che questa setta fosse parte integrante della storia della Sicilia del XIII secolo, o almeno degli inizio del secolo. È con Gabriele Quattromani (1835), ufficiale napoletano in servizio nelle truppe borboniche in Sicilia, che la setta entra in un contesto storico più ampio, che va oltre la storia siciliana
Nel mistero che avvolge la setta dei "Beati Paoli" , un aiuto viene dalla toponomastica: infatti a Palermo si può trovare una via e una piazza dedicate a questa setta. Nello specifico, ivi sarebbe sita la casa nella quale, stando ad una tradizione risalente alla fine del XVIII secolo, vi sarebbe una grotta (occultata) in cui i "Beati Paoli" si riunivano ai fini della celebrazione dei loro processi. Detta casa fu descritta nel 1790 dal marchese Francesco Mario Emanuele di Villabianca. Del resto, la Palermo sotterranea pullula di leggende sui "Beati Paoli": all'interno di un vasto banco di calcarenite quaternaria, si trova un complesso di siti nel quale si trovano le "camere dello scirocco" le quali, nel XVI secolo, erano usate come riparo dalla calura estiva. Ebbene, secondo la leggenda, una di queste camere, presente nel quartiere Capo e all'interno di un settore adibito a cimitero cristiano, sarebbe stata la sede del tribunale della setta.
Certamente, non bastano una via, una piazza, e qualche leggenda per dare una precisa collocazione storica a questa setta. In base alla tradizione popolare, i "Beati Paoli" agivano in nome del popolo contro gli abusi di potere del ceto nobiliare, colmando le lacune e le mancanza della giustizia la quale, come capitava non di rado, era corrotta e agiva per conto dei potenti. Negli "Atti di giustizia" condotti a Palermo contro i criminali, si possono rinvenire due condanne a morte comminate a due esponenti della setta. La prima fu eseguita il 17 dicembre 1704 contro Giuseppe Amatore e la seconda fu eseguita il 27 aprile 1723 contro D. Gerolamo L'Ammirata.
La società nacque, secondo il marchese di Villabianca, come reazione allo strapotere e ai soprusi dei nobili che amministravano direttamente anche la giustizia criminale nei loro feudi. I Beati Paoli , detti anche "Vindicosi" , sulle cui origini aleggiano, dubbi, misteri, supposizioni. La prima fonte in nostro possesso risale al 1185 ed è contenuta nella Breve Cronaca di un Anonimo Monaco Cassinese; ulteriori indicazioni si hanno attraverso la Cronaca di Fossanova, opera anonima che contiene gli avvenimenti sino al 1217 (probabile anno di stesure dello scritto): viene riportato che un certo Adinolfo di Ponte Corvo, maestro della setta, fu impiccato e molti altri furono marchiati con ferri roventi; proprio grazie a queste informazioni, possiamo constatare che la setta dei "Beati Paoli" esce dalle nebbie della leggenda per divenire storia. Possiamo dunque ritenere che questa setta fosse parte integrante della storia della Sicilia del XIII secolo, o almeno degli inizio del secolo. È con Gabriele Quattromani (1835), ufficiale napoletano in servizio nelle truppe borboniche in Sicilia, che la setta entra in un contesto storico più ampio, che va oltre la storia siciliana
Nel mistero che avvolge la setta dei "Beati Paoli" , un aiuto viene dalla toponomastica: infatti a Palermo si può trovare una via e una piazza dedicate a questa setta. Nello specifico, ivi sarebbe sita la casa nella quale, stando ad una tradizione risalente alla fine del XVIII secolo, vi sarebbe una grotta (occultata) in cui i "Beati Paoli" si riunivano ai fini della celebrazione dei loro processi. Detta casa fu descritta nel 1790 dal marchese Francesco Mario Emanuele di Villabianca. Del resto, la Palermo sotterranea pullula di leggende sui "Beati Paoli": all'interno di un vasto banco di calcarenite quaternaria, si trova un complesso di siti nel quale si trovano le "camere dello scirocco" le quali, nel XVI secolo, erano usate come riparo dalla calura estiva. Ebbene, secondo la leggenda, una di queste camere, presente nel quartiere Capo e all'interno di un settore adibito a cimitero cristiano, sarebbe stata la sede del tribunale della setta.
Certamente, non bastano una via, una piazza, e qualche leggenda per dare una precisa collocazione storica a questa setta. In base alla tradizione popolare, i "Beati Paoli" agivano in nome del popolo contro gli abusi di potere del ceto nobiliare, colmando le lacune e le mancanza della giustizia la quale, come capitava non di rado, era corrotta e agiva per conto dei potenti. Negli "Atti di giustizia" condotti a Palermo contro i criminali, si possono rinvenire due condanne a morte comminate a due esponenti della setta. La prima fu eseguita il 17 dicembre 1704 contro Giuseppe Amatore e la seconda fu eseguita il 27 aprile 1723 contro D. Gerolamo L'Ammirata.
Il Golem è una figura antropomorfa immaginaria della mitologia ebraica e del folklore medievale.
Il termine deriva probabilmente dalla parola ebraica gelem che significa "materia grezza", o "embrione", termine presente nella Bibbia (Antico Testamento, Salmo 139,16) per indicare la "massa ancora priva di forma", che gli Ebrei accomunano ad Adamo prima che gli fosse infusa l'anima. In ebraico moderno golem significa anche robot.
Secondo la leggenda, chi viene a conoscenza della kabbalah, e in particolare dei poteri legati ai nomi di Dio, può fabbricare un golem, un gigante di argilla forte e ubbidiente, che può essere usato come servo, impiegato per svolgere lavori pesanti e come difensore del popolo ebraico dai suoi persecutori. Può essere evocato pronunciando una combinazione di lettere alfabetiche. Si dice che il Golem sia stato formato attraverso il testo Sefer Yetzirah: esso risale alla sapienza di Avraham e si distingue per l'esegesi sui segreti dell'alfabeto ebraico, delle Sefirot nel legame con l'anatomia del corpo umano, con i pianeti e con mesi, giorni e segni zodiacali: queste tre figure - l'uomo, il mondo e l'anno - rappresentano tre testimoni completi. Il maestro che voleva formare un Golem, così si racconta, si serviva delle lettere ebraiche. Il Golem era dotato di una straordinaria forza e resistenza ed eseguiva alla lettera gli ordini del suo creatore di cui diventava una specie di schiavo, tuttavia era incapace di pensare, di parlare e di provare qualsiasi tipo di emozione perché era privo di un'anima e nessuna magia fatta dall'uomo sarebbe stata in grado di fornirgliela. Nella cronaca di Ahimaaz ben Paltiel, cronista medievale del XII secolo, si narra che nel IX secolo un rabbino, Ahron di Bagdad, scopre un golem a Benevento, un ragazzo a cui era stata donata la vita eterna per mezzo di una pergamena. Sempre alla fine del IX secolo, secondo la cronaca di Ahimaaz, nella città di Oria risiedevano dei sapienti ebrei capaci di creare golem, i quali smisero di praticare questa attività dopo una divina ammonizione.
Si narra che nel XVI secolo un sapiente europeo, il rabbino Jehuda Löw ben Bezalel di Praga, cominciò a creare golem per sfruttarli come suoi servi, plasmandoli nell'argilla e risvegliandoli scrivendo sulla loro fronte la parola "verità" (in ebraico אמת [emet]). C'era però un inconveniente: i golem così creati diventavano sempre più grandi, finché era impossibile servirsene: il mago decideva di tanto in tanto di disfarsi dei golem più grandi, trasformando la parola sulla loro fronte in "morte" (in ebraico מת [met]); ma un giorno perse il controllo di un gigante, che cominciò a distruggere tutto ciò che incontrava. Il Golem, non come deità ma come una sorta di angelo, la cui natura nella Qabbalah è segreta, però creato dal maestro in grado di unirne il potere spirituale alla Volontà di Dio, si racconta operasse anche per la difesa di alcune comunità ebraiche dell'Europa orientale. Ripreso il controllo della situazione, il mago decise di smettere di servirsi dei golem che nascose nella soffitta della Sinagoga Vecchia-Nuova, nel cuore del vecchio quartiere ebraico, dove, secondo la leggenda, si troverebbero ancora oggi.
Secondo la leggenda, chi viene a conoscenza della kabbalah, e in particolare dei poteri legati ai nomi di Dio, può fabbricare un golem, un gigante di argilla forte e ubbidiente, che può essere usato come servo, impiegato per svolgere lavori pesanti e come difensore del popolo ebraico dai suoi persecutori. Può essere evocato pronunciando una combinazione di lettere alfabetiche. Si dice che il Golem sia stato formato attraverso il testo Sefer Yetzirah: esso risale alla sapienza di Avraham e si distingue per l'esegesi sui segreti dell'alfabeto ebraico, delle Sefirot nel legame con l'anatomia del corpo umano, con i pianeti e con mesi, giorni e segni zodiacali: queste tre figure - l'uomo, il mondo e l'anno - rappresentano tre testimoni completi. Il maestro che voleva formare un Golem, così si racconta, si serviva delle lettere ebraiche. Il Golem era dotato di una straordinaria forza e resistenza ed eseguiva alla lettera gli ordini del suo creatore di cui diventava una specie di schiavo, tuttavia era incapace di pensare, di parlare e di provare qualsiasi tipo di emozione perché era privo di un'anima e nessuna magia fatta dall'uomo sarebbe stata in grado di fornirgliela. Nella cronaca di Ahimaaz ben Paltiel, cronista medievale del XII secolo, si narra che nel IX secolo un rabbino, Ahron di Bagdad, scopre un golem a Benevento, un ragazzo a cui era stata donata la vita eterna per mezzo di una pergamena. Sempre alla fine del IX secolo, secondo la cronaca di Ahimaaz, nella città di Oria risiedevano dei sapienti ebrei capaci di creare golem, i quali smisero di praticare questa attività dopo una divina ammonizione.
Si narra che nel XVI secolo un sapiente europeo, il rabbino Jehuda Löw ben Bezalel di Praga, cominciò a creare golem per sfruttarli come suoi servi, plasmandoli nell'argilla e risvegliandoli scrivendo sulla loro fronte la parola "verità" (in ebraico אמת [emet]). C'era però un inconveniente: i golem così creati diventavano sempre più grandi, finché era impossibile servirsene: il mago decideva di tanto in tanto di disfarsi dei golem più grandi, trasformando la parola sulla loro fronte in "morte" (in ebraico מת [met]); ma un giorno perse il controllo di un gigante, che cominciò a distruggere tutto ciò che incontrava. Il Golem, non come deità ma come una sorta di angelo, la cui natura nella Qabbalah è segreta, però creato dal maestro in grado di unirne il potere spirituale alla Volontà di Dio, si racconta operasse anche per la difesa di alcune comunità ebraiche dell'Europa orientale. Ripreso il controllo della situazione, il mago decise di smettere di servirsi dei golem che nascose nella soffitta della Sinagoga Vecchia-Nuova, nel cuore del vecchio quartiere ebraico, dove, secondo la leggenda, si troverebbero ancora oggi.
Processo di manipolazione
La manipolazione dell’opinione pubblica passa naturalmente attraverso la manipolazione dell’informazione e, nelle nostre società, prende sostanzialmente la forma di una immagine del mondo alterata e artificiale che viene trasmessa al mondo attraverso una moltitudine di canali informativi fino a diventare non solo un elemento costitutivo dell’opinione pubblica ma addirittura un paradigma chiuso, un orizzonte di riferimento obbligato all’interno del quale soltanto può aver luogo il dibattito pubblico.
Negli anni passati uno degli elementi più macroscopici di questo paradigma è stata l’interpretazione della guerra fredda come opposizione manichea tra un <> potente ed espansionista e i paladini della libertà in Occidente. Ora, non si tratta certamente di contestare la guerra fredda come fatto storico, ma di distinguere, per quanto possibile, i fatti dall’interpretazione. Ciò che fa parte dell’immagine del mondo utilizzata per fuorviare l’opinione pubblica è infatti l’interpretazione dei fatti, l’<> in cui essi vengono collocati, a cui si aggiunge spesso, per la verità, anche un travisamento dei fatti: l’esagerazione delle mire espansionistiche dei russi, la sopravvalutazione della loro potenza militare, la pretesa che essi fomentassero il terrorismo internazionale e che fossero gli ispiratori e i protettori dei movimenti comunisti in tutto il mondo. In più, dell’orizzonte interpretativo creato artificialmente fa parte ciò che la versione ufficiale, raccontata nei discorsi pubblici e difesa dagli esperti di parte, nasconde o minimizza: restando all’esempio della guerra fredda, il diffuso e aggressivo interventismo americano, le spese sempre crescenti in armamenti via via più sofisticati, il finanziamento di armate controrivoluzionarie come i contras in Nicaragua, il sostegno offerto a feroci dittatori che calpestano proprio quelle libertà che i governi occidentali pretenderebbero di difendere dal comunismo. Dello stesso paradigma fanno parte anche altri elementi, in primo luogo una visione della realtà sociale ed economica incentrata sui principi del liberismo e in secondo luogo un’interpretazione del fenomeno del terrorismo fortemente politicizzata.
Tratto da F. Zavaroni, Usa, occidente, libertà,
L'illusione
“Vivo in un mondo d’illusioni”,”la mia vita è stata un’illusione”,
“sono un illuso”, “ho avuto troppe illusioni” e “non voglio illudermi più”
Quante volte l’abbiamo detto!
Ma pensandoci bene, cos’è l’illusione?
L’illusione è un meraviglioso mondo dove tu puoi vivere veramente,
puoi amare ed odiare, ridere e piangere, essere felice o triste,
correre, volare, nuotare, cantare, costruire, distruggere, fare, disfare,
uccidere e dare la vita…puoi tutto perché in quel mondo tu sei il re,
il padrone, il fine ultimo.
Ma poi…quando esci dal quel mondo e torni su questo, t’accorgi che è
impossibile tutto ciò, perché…è un’illusione.
“sono un illuso”, “ho avuto troppe illusioni” e “non voglio illudermi più”
Quante volte l’abbiamo detto!
Ma pensandoci bene, cos’è l’illusione?
L’illusione è un meraviglioso mondo dove tu puoi vivere veramente,
puoi amare ed odiare, ridere e piangere, essere felice o triste,
correre, volare, nuotare, cantare, costruire, distruggere, fare, disfare,
uccidere e dare la vita…puoi tutto perché in quel mondo tu sei il re,
il padrone, il fine ultimo.
Ma poi…quando esci dal quel mondo e torni su questo, t’accorgi che è
impossibile tutto ciò, perché…è un’illusione.
Vincenzo Corsaro
L'affare Dreyfus
Persa la Guerra Franco - Prussiana (1871), la Francia della Terza Repubblica si trova con un governo al cui interno è presente un forte contrasto tra i repubblicani e i monarchici. Incombe la minaccia di un colpo di stato: il tentativo arriva nel 1877 da parte del generale Patrice de Mac-Mahon, allora presidente della repubblica francese, appoggiato dall'esercito e dal clero.
Sventato il colpo di stato salgono al potere i repubblicani moderati (1879-1899). Le forze reazionarie intanto si riorganizzano attorno al ministro della Guerra Georges Boulanger.
Il caso Dreyfus scoppia nel 1894, in seguito al presunto tradimento di Alfred Dreyfus (nato a Mulhouse il 9 ottobre 1859), ufficiale di artiglieria dell'esercito francese, ebreo alsaziano.
Dreyfus è accusato di spionaggio a favore della Prussia: viene arrestato e mandato ai lavori forzati.
Il caso verrà poi riaperto nel 1896 dal colonnello Georges Piquart, nuovo capo dell'ufficio informazioni dello Stato Maggiore, il quale presenta ai suoi superiori una relazione nella quale dimostra l'innocenza del capitano e accusa del fatto il maggiore Ferdinand Walsin-Esterházy, nobile di antichissima origine oberato dai debiti di gioco.
Il colonnello Piquart verrà rimosso dall'incarico e spedito in zona di guerra. Picquart riesce comunque ad avvertire il vicepresidente del senato Auguste Scheurer-Kestner dell'accaduto ed in contemporanea lo scrittore ebreo Bernard Lazar, amico di famiglia di Dreyfus, il quale sarà promotore di un'intensa campagna stampa a favore del prigioniero.
Molti intellettuali radicali (come ad esempio Octave Mirbeau) aderiscono alla campagna innocentista: l'episodio più famoso è quello dello scrittore Émile Zola che pubblica il 13 gennaio 1898 sulla rivista letteraria "Aurore" (testata del leader radicale Georges Clemenceau) una famosa lettera al Presidente della Repubblica Félix Faure, intitolata "J'accuse!".
Lo Stato Maggiore risponde facendo arrestare Piquart, processando Zola per vilipendio delle forze armate e scatenando sui giornali nazionalistici una violenta campagna contro ebrei, democratici e liberali.
Nel 1898 Ferdinand Walsin-Esterházy viene allontanato dall'Esercito e confessa di aver contraffatto i documenti del caso seguendo ordini superiori; la stessa ammissione viene anche da un alto ufficiale, il colonnello Hubert J. Henry, prima di suicidarsi.
Dopo un ulteriore processo militare a Rennes, svoltosi in un'atmosfera preceduta da forti pressioni e minacce a giudici ed avvocati, Dreyfus viene condannato a dieci anni per la bizzarra accusa di tradimento con attenuanti.
In realtà nel corso del processo viene ampiamente dimostrata l'infondatezza delle accuse contro di lui, ma la Corte Militare è "pressata" dallo Stato Maggiore (seriamente compromesso da tutta la vicenda) affinché non annulli la condanna precedente.
Per risolvere l'ingiustizia che è palesemente sotto gli occhi di tutta l'opinione pubblica, il Presidente del Consiglio propone a Dreyfus l'escamotage della presentazione della Domanda di Grazia (che implica però un riconoscimento di colpevolezza, nel caso specifico assolutamente infondato).
Dreyfus con il benestare dei suoi avvocati accetta.
Nel settembre 1899 Alfred Dreyfus viene graziato dal Presidente della Repubblica Émile Loubet: viene però pienamente riabilitato solo nel 1906. Esce dall'esercito l'anno seguente per poi essere richiamato durante la Prima Guerra Mondiale, periodo durante il quale giunge fino al grado di Colonnello. Tra gli eventi legati in modo presunto all'affare Dreyfus vi è la morte di Émile Zola (1902), per qualcuno provocata da una manomissione della sua canna fumaria.
Dreyfus subisce un attentato (rimane solo leggermente ferito) nel 1908, in occasione della cerimonia di spostamento delle ceneri di Zola al Panthéon. Mentre in Germania sta salendo al potere il nazionalsocialismo, Alfred Dreyfus muore a Parigi il 12 luglio 1935.
Sventato il colpo di stato salgono al potere i repubblicani moderati (1879-1899). Le forze reazionarie intanto si riorganizzano attorno al ministro della Guerra Georges Boulanger.
Il caso Dreyfus scoppia nel 1894, in seguito al presunto tradimento di Alfred Dreyfus (nato a Mulhouse il 9 ottobre 1859), ufficiale di artiglieria dell'esercito francese, ebreo alsaziano.
Dreyfus è accusato di spionaggio a favore della Prussia: viene arrestato e mandato ai lavori forzati.
Il caso verrà poi riaperto nel 1896 dal colonnello Georges Piquart, nuovo capo dell'ufficio informazioni dello Stato Maggiore, il quale presenta ai suoi superiori una relazione nella quale dimostra l'innocenza del capitano e accusa del fatto il maggiore Ferdinand Walsin-Esterházy, nobile di antichissima origine oberato dai debiti di gioco.
Il colonnello Piquart verrà rimosso dall'incarico e spedito in zona di guerra. Picquart riesce comunque ad avvertire il vicepresidente del senato Auguste Scheurer-Kestner dell'accaduto ed in contemporanea lo scrittore ebreo Bernard Lazar, amico di famiglia di Dreyfus, il quale sarà promotore di un'intensa campagna stampa a favore del prigioniero.
Molti intellettuali radicali (come ad esempio Octave Mirbeau) aderiscono alla campagna innocentista: l'episodio più famoso è quello dello scrittore Émile Zola che pubblica il 13 gennaio 1898 sulla rivista letteraria "Aurore" (testata del leader radicale Georges Clemenceau) una famosa lettera al Presidente della Repubblica Félix Faure, intitolata "J'accuse!".
Lo Stato Maggiore risponde facendo arrestare Piquart, processando Zola per vilipendio delle forze armate e scatenando sui giornali nazionalistici una violenta campagna contro ebrei, democratici e liberali.
Nel 1898 Ferdinand Walsin-Esterházy viene allontanato dall'Esercito e confessa di aver contraffatto i documenti del caso seguendo ordini superiori; la stessa ammissione viene anche da un alto ufficiale, il colonnello Hubert J. Henry, prima di suicidarsi.
Dopo un ulteriore processo militare a Rennes, svoltosi in un'atmosfera preceduta da forti pressioni e minacce a giudici ed avvocati, Dreyfus viene condannato a dieci anni per la bizzarra accusa di tradimento con attenuanti.
In realtà nel corso del processo viene ampiamente dimostrata l'infondatezza delle accuse contro di lui, ma la Corte Militare è "pressata" dallo Stato Maggiore (seriamente compromesso da tutta la vicenda) affinché non annulli la condanna precedente.
Per risolvere l'ingiustizia che è palesemente sotto gli occhi di tutta l'opinione pubblica, il Presidente del Consiglio propone a Dreyfus l'escamotage della presentazione della Domanda di Grazia (che implica però un riconoscimento di colpevolezza, nel caso specifico assolutamente infondato).
Dreyfus con il benestare dei suoi avvocati accetta.
Nel settembre 1899 Alfred Dreyfus viene graziato dal Presidente della Repubblica Émile Loubet: viene però pienamente riabilitato solo nel 1906. Esce dall'esercito l'anno seguente per poi essere richiamato durante la Prima Guerra Mondiale, periodo durante il quale giunge fino al grado di Colonnello. Tra gli eventi legati in modo presunto all'affare Dreyfus vi è la morte di Émile Zola (1902), per qualcuno provocata da una manomissione della sua canna fumaria.
Dreyfus subisce un attentato (rimane solo leggermente ferito) nel 1908, in occasione della cerimonia di spostamento delle ceneri di Zola al Panthéon. Mentre in Germania sta salendo al potere il nazionalsocialismo, Alfred Dreyfus muore a Parigi il 12 luglio 1935.
Il mito di Aretusa e Alfeo
Aretusa era fra le ninfe a seguito di Diana quella prediletta, essi trascorrevano le loro giornate nei boschi che crescevano rigogliosi sotto il Monte Olimpo in Grecia, inseguendo caprioli e daini. Era bella la nostra Aretusa, ma talmente bella che quasi aveva turbamento e rossore a mostrarsi agli uomini. Durante una battuta di caccia si allontanò troppo dal gruppo di ancelle al seguito di Diana ed arrivò sola davanti alle sponde del fiume Alfeo, le cui acque erano pure, dolcissime e limpide tant’è che si poteva scorgere la ghiaia sul fondo. Era una giornata afosa e la ninfa aveva voglia di fare un bagno. Tutt’attorno v’era di un silenzio singolare, rotto solo dal cinguettare degli uccelli e dal verso delle anatre acquatiche. Aretusa, invogliata forse dal non essere vista e dal caldo opprimente, si tolse le candide vesti, li poggiò sopra un tronco d’albero di salice piangente reciso e s’immerse, iniziando ad entrare in acqua con portamento sinuoso ed aggraziato. Ebbe subito però la sensazione che verso il centro del fiume, l’acqua attorno a lei cominciasse a fremere e a formare dei vortici quasi danzanti, qual cosa di magico stava forse per succedere pensò, sembrava come se quell’acqua la volesse accarezzare ed avvolgere a se. Turbata da queste sensazioni cercò di uscire affrettatamente dalle acque, ma fu proprio in quel momento che il fiume Alfeo si tramutò in un bel giovane biondo che, sollevando la testa fuori dell’acqua e crollandosi la folta chioma, si mostrò alla ninfa Aretusa, con gli occhi di un innamorato.
La ninfa però presa dalla pausa riuscì a svincolarsi e a raggiungere con grande sforzo la riva, dove fuggì nuda e gocciolante. Alfeo con un balzo felino uscì anch’egli dal suo fiume e la inseguì senza vesti e colante di gocce d’acqua. Questo rincorrersi durò parecchio ed Alfeo non riuscì in un primo momento a raggiungere la ninfa. La seducente Aretusa però, cominciò a stancarsi e capì che le forze le venivano meno. Sentì che Alfeo stava per raggiungerla e violarla, lei che era una vergine selvaggia e pudica e che non aveva mai conosciuto l’amore. Aretusa, per paura di essere raggiunta sopraffatta e profanata, chiese protezione a Diana , invocando di essere trasformata in sorgente in un luogo possibilmente molto lontano dalla Grecia. Diana prima la avvolse in una nebbia misteriosa e la celò alla vista di Alfeo, poi la tramutò in una sorgente e la portò, come in uno strano sortilegio, in Sicilia a Siracusa presso l’isola di Ortigia. Alfeo in mezzo a quella foschia perse così di vista la sua bella ninfa, ma non desistette dal cercarla e restò sul posto. Quando la nebbia però si diradò non trovò più nulla, vide solo come in uno specchio una fonte d’acqua zampillante ed immersa in un giardino meraviglioso. Alfeo capì il prodigio ed era talmente innamorato che straripò d’amore. Gli dei ne ebbero pietà e Giove l’onnipotente gli permise di raggiungere la sua amata, ma Alfeo dovette fare un grande sforzo, scavò un sotterraneo sotto il Mare Ionio e dal Peloponneso venne a sbucare nel Porto grande di Siracusa, accanto alla sua bella amata: Aretusa. Insieme vissero felici per sempre”.
Oggi questa sorgente d’acque dolci sgorga a qualche metro dal mare, nell’isola di Ortigia a Siracusa. Essa forma un piccolo laghetto semicircolare pieno di pesci e dove il verde trionfa e cresce rigogliosa la pianta del papiro. Una numerosa colonia d’anatre ha ormai da tempo stabilito la sua dimora in queste limpide acque. Per tradizione locale viene chiamata anche “a funtana re papiri”. Tutto questo fa dell’attuale Fonte Aretusa un luogo piacevole da visitare e una meta turistica obbligatoria. Ricordandosi poi del mito e appoggiandosi alla ringhiera in ferro che sovrasta la fonte, il visitatore avrà la sensazione di vedere le scene del mito perché il luogo è così pieno di magia che ne rimarrà coinvolto. E’ famoso a Siracusa il passeggiare, specie al tramonto, lungo la Fonte Aretusa e vedere il sole scendere all’orizzonte dietro i Monti Iblei. Per i siracusani storicamente è il luogo per eccellenza dove ritrovarsi e come negli incantesimi si accendono i primi amori degli adolescenti. Il mito come sicuramente percepite, continua a perpetuarsi, palpitare e diventare immortale.
La ninfa però presa dalla pausa riuscì a svincolarsi e a raggiungere con grande sforzo la riva, dove fuggì nuda e gocciolante. Alfeo con un balzo felino uscì anch’egli dal suo fiume e la inseguì senza vesti e colante di gocce d’acqua. Questo rincorrersi durò parecchio ed Alfeo non riuscì in un primo momento a raggiungere la ninfa. La seducente Aretusa però, cominciò a stancarsi e capì che le forze le venivano meno. Sentì che Alfeo stava per raggiungerla e violarla, lei che era una vergine selvaggia e pudica e che non aveva mai conosciuto l’amore. Aretusa, per paura di essere raggiunta sopraffatta e profanata, chiese protezione a Diana , invocando di essere trasformata in sorgente in un luogo possibilmente molto lontano dalla Grecia. Diana prima la avvolse in una nebbia misteriosa e la celò alla vista di Alfeo, poi la tramutò in una sorgente e la portò, come in uno strano sortilegio, in Sicilia a Siracusa presso l’isola di Ortigia. Alfeo in mezzo a quella foschia perse così di vista la sua bella ninfa, ma non desistette dal cercarla e restò sul posto. Quando la nebbia però si diradò non trovò più nulla, vide solo come in uno specchio una fonte d’acqua zampillante ed immersa in un giardino meraviglioso. Alfeo capì il prodigio ed era talmente innamorato che straripò d’amore. Gli dei ne ebbero pietà e Giove l’onnipotente gli permise di raggiungere la sua amata, ma Alfeo dovette fare un grande sforzo, scavò un sotterraneo sotto il Mare Ionio e dal Peloponneso venne a sbucare nel Porto grande di Siracusa, accanto alla sua bella amata: Aretusa. Insieme vissero felici per sempre”.
Oggi questa sorgente d’acque dolci sgorga a qualche metro dal mare, nell’isola di Ortigia a Siracusa. Essa forma un piccolo laghetto semicircolare pieno di pesci e dove il verde trionfa e cresce rigogliosa la pianta del papiro. Una numerosa colonia d’anatre ha ormai da tempo stabilito la sua dimora in queste limpide acque. Per tradizione locale viene chiamata anche “a funtana re papiri”. Tutto questo fa dell’attuale Fonte Aretusa un luogo piacevole da visitare e una meta turistica obbligatoria. Ricordandosi poi del mito e appoggiandosi alla ringhiera in ferro che sovrasta la fonte, il visitatore avrà la sensazione di vedere le scene del mito perché il luogo è così pieno di magia che ne rimarrà coinvolto. E’ famoso a Siracusa il passeggiare, specie al tramonto, lungo la Fonte Aretusa e vedere il sole scendere all’orizzonte dietro i Monti Iblei. Per i siracusani storicamente è il luogo per eccellenza dove ritrovarsi e come negli incantesimi si accendono i primi amori degli adolescenti. Il mito come sicuramente percepite, continua a perpetuarsi, palpitare e diventare immortale.
La legge è uguale per tutti
“La legge è uguale per tutti”, è un principio sacrosanto del nostro ordinamento, e non mi permetto di metterlo in discussione. Ma non si possono mettere sullo stesso piano dei furti commessi da criminali organizzati con quelli chi chi, in preda alla disperazione per la miseria, abbia commesso, sì, un grave errore ma per aver ceduto alla debolezza del momento di voler trovare una soluzione per poter comprare del pane da portare alla famiglia povera (peraltro con bambini senza un futuro). Questo no, NON LO ACCETTO. E parliamo tanto del carattere rieducativo della pena, previsto dalla nostra Costituzione e dal Codice Penale vigente. Ma come si può pensare che chi ha rubato per portare del cibo a casa possa non perseverare nella recidiva, se non gli si dà possibilità poi di lavorare in nessun posto?
La Cattedrale di Chartres
La cattedrale Notre-Dame de Chartres, chiesa cattedrale consacrata alla Vergine (Notre-Dame), sita a Chartres nel nordovest della Francia (a 95 Km a sud-ovest di Parigi), è il più celebre monumento di Chartres ed è considerata uno degli edifici religiosi più importanti del mondo ed uno dei più perfetti edifici gotici. Il fattore decisivo che la fa prevalere tra le altre cattedrali francesi è il suo buono stato di conservazione, specialmente delle sculture e delle vetrate.
La figura più importante nella storia di questa diocesi fu il vescovo Fulberto, teologo scolastico riconosciuto in tutta Europa, che cominciò nell'XI secolo la costruzione della cattedrale sull'area precedentemente occupata da un antico santuario pagano.
L'edificio costruito da Fulberto fu distrutto nel 1194 a causa di un incendio ed immediatamente si cominciarono i lavori di ricostruzione, che durarono circa 60 anni. L'aggiunta più importante è la torre a nordest, la Clocher Neuf, conclusa nel 1513.
L'interno, alto 37 m, si caratterizza per l'armonia e l'eleganza delle proporzioni. La facciata occidentale, chiamata Portale Reale, è particolarmente importante per una serie di sculture della metà del XII secolo; il portale principale contiene un magnifico rilievo di Gesù Cristo glorificato; quella del transetto meridionale (costruito negli anni 1224-1250) si organizza attorno a delle immagini del Nuovo Testamento riguardanti il Giudizio Universale, mentre il portale opposto, situato al lato nord, è dedicato all'Antico Testamento e alla venuta di Cristo ed è famoso per il gruppo scultoreo dedicato alla Creazione.
Questa cattedrale si riconosce facilmente a causa della grande differenza tra le sue due torri: * la torre sud è dotata di una base tipicamente gotica e sormontata da una guglia molto semplice; * la torre nord, costruita in epoca più tarda e di architettura più complessa.
Grande luogo di pellegrinaggi, questa cattedrale e le sue torri dominano la città di Chartres e la piana della Beauce circostante. Esse si vedono da molte decine di chilometri di distanza.
Nel 1979 l'UNESCO l'ha dichiarata Patrimonio culturale dell'Umanità.
Nel 1979 l'UNESCO l'ha dichiarata Patrimonio culturale dell'Umanità.