venerdì 29 aprile 2022

Monet e le ninfee. Perché le dipinse così tante volte?


 La storia di Claude Monet (1840-1926), padre della corrente artistica dell'impressionismo, ha origine vicino a Parigi, a Giverny, dove l'artista abitò e dove iniziò a dipingere a partire dagli anni Ottanta dell'Ottocento.

Affascinato da ciò che definiva "l'aspetto mutevole della natura", Monet si dedicò per tutta la vita a dipingere en plein air (letteralmente all'aperto) per riuscire a cogliere le sottili sfumature che la luce e l'aria generano su ogni particolare della natura. La sua casa aveva due magnifici giardini, che lui curava personalmente: uno di impianto tradizionale, prevalentemente geometrico; l'altro un giardino acquatico di concezione orientale, ricco di piante esotiche e con qualche elemento architettonico, come il ponte giapponese che appare nei suoi dipinti.

 Come una grande opera vivente, li riempì di iris, papaveri, tulipani, rose e, naturalmente, di splendide ninfee.


Lo scopo dell'arte di Monet fu quello di cogliere l'impressione di un attimo, come quando si guarda qualcosa per la prima volta; sfruttò così la modalità del "dipingere in serie" le ninfee proprio per farsi l'occhio su quel soggetto preciso, per vedere di volta in volta che cosa cambiasse rispetto al dipinto precedente e come mutassero i colori dalla sera alla mattina, dall'alba al tramonto, dall'inverno all'estate.


Quando Monet dipingeva le sue amate ninfee, quindi, non si concentrava nel rappresentare i dettagli specifici ma voleva creare una visione d'insieme, cercando di rendere al meglio le intonazioni, i giochi di luce sull'acqua e i suoi riflessi colorati nelle diverse ore del giorno e nelle diverse stagioni. 

Nelle opere delle ninfee, come anche nella famosa serie della Cattedrale di Rouen, la ripetizione del medesimo soggetto è dettata dalla volontà di cogliere quel soggetto nell'immediato e nell'attimo non ripetibile.


Monet, dunque, per tutta la vita, riuscì a dipingere immerso nella natura, e per farlo aveva bisogno non solo di vederla, ma di sentirla in tutti i suoi fenomeni. 

Fece della natura il suo atelier, quell'atelier diverso ogni volta che cambiava il paesaggio, il soggetto, il punto di vista. 

L'invenzione delle serie delle ninfee nacque proprio dalla malinconia dettata dalla consapevolezza della natura temporanea della bellezza.

Il ciclo delle ninfee è composto da ben 250 dipinti, oggi sparsi nei più importanti musei del mondo. Ma dietro quei dipinti, soprattutto in quelli più prossimi alla sua scomparsa, si nasconde anche il dolore di un grande artista che lottò contro la sua malattia. 

Oramai cieco, morì a causa di un tumore polmonare nel 1926, all'età di 86 anni, nel suo angolo di paradiso, a Giverny.

Fonte: www.focus.it

martedì 26 aprile 2022

Il “maiale” del Leone di Lucerna: l’invisibile sberleffo di uno scultore non pagato


 Il “Leone di Lucerna” è una delle attrazioni turistiche più famose della città svizzera: un leone mortalmente ferito, scolpito nella roccia, in una grande ex-cava di arenaria, nei pressi della città.

Il monumento è dedicato alla memoria delle Guardie Svizzere al servizio del re di Francia, che persero la vita durante la Rivoluzione Francese, mentre difendevano il Palazzo delle Tuileries, a Parigi.

 Il leone morente vuole essere un simbolo del coraggio dei soldati, disposti a morire piuttosto che tradire il loro giuramento di fedeltà.

Negli ultimi due secoli, milioni di turisti hanno ammirato questo monumento, che Mark Twain descrisse come “il pezzo di pietra più triste e commovente del mondo”. Ma sono pochissimi, tra coloro che si fermano a guardare il leone, che si accorgono che ci sono due animali, e non uno, scolpiti nella roccia.


I soldati mercenari svizzeri, fin dal 15° secolo, erano molto apprezzati dai monarchi europei per la loro disciplina e fedeltà, in particolare dai sovrani di Francia e Spagna, che li assoldarono come guardie del corpo, a difesa dell’incolumità delle famiglie reali.

Il 10 agosto 1792, un’immensa folla di rivoluzionari (parigini e non, popolani e borghesi, uomini e donne) riuscì a entrare nel Palazzo delle Tuileries, e a sopraffare le 1.330 Guardie Svizzere, mentre il re Luigi XVI e la sua famiglia fuggivano attraverso i giardini.

 Oltre seicento soldati elvetici furono uccisi durante la sommossa, circa duecento morirono in prigione per le ferite riportate e durante le successive rivolte, nel mese di settembre.


In quel drammatico 10 agosto del 1792, il luogotenente delle Guardie Svizzere Carl Pfyffer von Altishofen, al servizio del re di Francia, si trovava a casa a Lucerna , e si salvò.

 Nel 1801, quando fu congedato, iniziò a pensare a un monumento commemorativo che onorasse la memoria dei suoi compagni caduti a Parigi.

In quegli anni la Svizzera, dopo la conquista di Napoleone, era assoggettata ai francesi, e un monumento dedicato ai difensori della monarchia non era sicuramente gradito. 

Quando il paese riconquistò la sua indipendenza, a seguito della “restaurazione” del 1815 seguita alla sconfitta di Napoleone a Waterloo, von Altishofen decise che era giunto il momento di concretizzare il proprio progetto.

 Commissionò l’opera allo scultore neoclassico danese Bertel Thorvaldsen, e iniziò a raccogliere i fondi per realizzarla.

Von Altishofen non riuscì a raccogliere il denaro necessario a pagare l’intera somma richiesta dallo scultore, molto famoso e impegnato, e decise di tenere nascosto questo aspetto all’artista, almeno fino a quando questi non avesse consegnato un modello della scultura. I rapporti tra i due divennero burrascosi, anche per il troppo tempo impiegato dallo scultore che, secondo l’ex-guardia, dimostrava “indifferenza verso i popoli che attendono il suo lavoro”.

Quando Thorvaldsen apprese che non sarebbe stato pagato, se non in minima parte, andò comunque avanti con il lavoro, apportando qualche modifica dell’ultimo minuto

Lo scultore modellò un leone morente trafitto da una lancia, simbolo dei soldati caduti. Una zampa dell’animale è appoggiata sullo scudo con lo stemma della monarchia francese, mentre accanto si trova un altro scudo con l’effigie della Svizzera.

Thorvaldsen non alterò la scultura, per rispetto ai soldati caduti in Francia, ma cambiò la forma della nicchia dove giace il leone, dandole un contorno che ricorda quello di un maiale.


La scultura fu materialmente realizzata, sui modelli di Thorvaldsen, da due artisti: lo svizzero Pankraz Eggenschwyler, che durante il lavoro morì cadendo da un’impalcatura, e il tedesco Lucas Ahorn, che nel 1821 completò l’opera.

A quanto pare nessuno notò il profilo del maiale fino a scultura conclusa, ma chiunque sia dotato di un occhio attento è in grado di cogliere il sottile messaggio con cui l’artista volle esprimere il proprio disprezzo nei confronti di chi aveva commissionato l’opera.

Fonte: vanillamagazine

sabato 9 aprile 2022

In Inghilterra c’è un bosco incantato che sembra uscita da un libro di fiabe


 A guardarlo bene sembra quasi di conoscerlo il bosco di Micheldever perché probabilmente questo assomiglia proprio a quello che ha fatto da sfondo alle vicende dei protagonisti delle nostre favole preferite.

 Che sia davvero questo, non possiamo saperlo, quello che è certo però è che questo angolo di natura lussureggiante sembra davvero essere uscito da un libro di fiabe.

C’è chi a guardare le foto lo scambia per un dipinto impressionista e chi ancora per un abile disegno ad acquerello, quello che è certo è che questo bosco, probabilmente, è uno dei più suggestivi e magici di tutto il mondo.

Per scoprirlo, e attraversarlo, dobbiamo recarci nel Regno Unito e più precisamente nella contea dell’Hampshire. È qui che tra i piccoli e sognanti villaggi si estende una foresta lussureggiante e silenziosa che in primavera diventa un tripudio di colore grazie alle campanule in fiore.

La magia che conserva questo angolo di paradiso dell’Hampshire non ha nulla a che vedere con la stregoneria.

 Il merito dell’atmosfera idilliaca e onirica che caratterizza questo luogo, infatti, è da attribuire esclusivamente a Madre Natura che, ancora una volta, rende il mondo che abitiamo straordinario.


Il bosco di Micheldever appare davanti agli occhi degli osservatori come un’intricata e fitta rete di giochi di luce.

 I raggi del sole, infatti, si insinuano tra i faggi e le conifere illuminando i fiori di campo tra i quali si nascondono timidamente farfalle e uccelli di diverse specie.

Questo luogo, infatti, è diventato con gli anni l’habitat ideale di molte specie floristiche e faunistiche.

 Addentrandoci nel bosco e nella sua profondità, attraverso i tanti sentieri che si fanno strada tra alberi e cespugli, ecco che possiamo fare incontri ravvicinati con daini e cervi Muntjac che hanno fatto del bosco la loro casa. Questi animali, abituati alla presenza dell’uomo, si trasformano in guide straordinarie per scoprire le meraviglie naturali di questa foresta incantata.


Poco battuto dai sentieri più turistici, ma meta prediletta dei cittadini del territorio, il bosco di Micheldelver è un luogo davvero straordinario che assicura un’esperienza sensoriale fatta di pace e bellezza. Ricco di bellezze naturali, questo angolo fatato che si estende per oltre 300 ettari, si trova a soli 8 chilometri dalla città di Winchester.

Rifugio perfetto per fuggire dal caos cittadino e per fare il pieno di energie in ogni stagione dell’anno, il bosco di Micheldelver è il luogo ideale per ritrovare il contatto con la natura più autentica attraverso passeggiate, bagni nella foresta o meditazione, ma anche picnic nelle aree di sosta attrezzate con tavoli e panche in compagnia di farfalle, uccelli e fiori.


Il bosco di Micheldelver è aperto gratuitamente ai visitatori 365 giorni l’anno e raggiunge il suo massimo splendore in primavera. È in questo periodo, precisamente tra aprile e maggio, che le campanule in fiore trasformano tutto il territorio circostante in un paesaggio dalle mille sfumature di lilla e dai profumi inebrianti che crea atmosfere magiche e uniche.

Fonte: siviaggia.it

venerdì 8 aprile 2022

Il disco di Nebra, cielo di bronzo degli antichi Germani


 Discusso per le circostanze obsolete del ritrovamento, il disco del cielo di Nebra fa parte, dal giugno 2013, del patrimonio storico dell’UNESCO.

 Un oggetto prezioso, seppellito 4100 – 3700 anni fa sul monte Mittelberg, presso la città di Nebra, insieme ad altre offerte rituali. Un dono agli dei. Prima di finire sotto terra, il reperto tedesco era stato usato per duecento anni, quindi racchiude la conoscenza di diverse generazioni. 

Queste genti non avrebbero mai potuto immaginare che un giorno il loro calendario sarebbe stato al centro di un giallo archeologico.

Quando i tombaroli, vale a dire i saccheggiatori di tombe, fanno una scoperta come questa e poi cercano di venderla sul mercato nero e incappano nella mano della giustizia, gli archeologi si trovano di fronte al reperto come a una vera e propria sfida: si tratta di un pezzo autentico oppure di un falso? Nel 1999 Mario Renner e Henry Westphal sondavano con un metaldetector la cima del Mittelberg, una modesta altura di 252 metri situata nella regione tedesca di Sachsen-Anhalt, a quattro chilometri di distanza dalla cittadina di Nebra.


Trovarono un deposito di oggetti antichi, tra cui il disco del cielo.

 Di primo acchito, i due pensarono che si trattasse della parte centrale di uno scudo. 

Il giorno dopo vendettero il prezioso bottino a un commerciante di Colonia che pagò 31.000 marchi. Il compratore aveva intenzione di guadagnare un milione di marchi, vendendo una parte dei reperti a Berlino e un’altra parte a Monaco di Baviera. Ma i potenziali clienti si resero conto che la merce scottava e rifiutarono. Per legge, gli oggetti ritrovati appartenevano allo Stato.

Sicché il prezioso disco passò da una mano all’altra sino al 2001, quando una coppia di ricettatori lo acquistò e tentò di venderlo sul mercato nero per 700.000 marchi.

 Fortunatamente si sparse la voce e questa raggiunse le autorità tedesche. 

Su iniziativa del Ministero della Cultura e dell’Ente Regionale di Archeologia di Sachsen-Anhalt, l’archeologo Harald Meller si mise in contatto con i venditori e organizzò un incontro in un albergo di Basilea. A quel punto intervenne la polizia svizzera che arrestò i ricettatori mettendo al sicuro il disco. Una volta interrogati, i due fornirono informazioni sul luogo di ritrovamento.

Purtroppo però, se un sito non viene immediatamente preso in esame da archeologi e altri specialisti, molte informazioni essenziali vanno perdute.

 Possono anche nascere dei dubbi sull’autenticità dei reperti stessi, come nel caso del disco del cielo di Nebra. Dubbi sollevati nel corso del processo. 

Se la difesa dei due ricettatori, la quale giocò proprio questa carta, fosse riuscita a dimostrare che il disco era un falso, l’accusa di ricettazione di oggetto antico sarebbe venuta a cadere.

Ma non fu così. Gli archeologi Harald Meller, Heinrich Wunderlich ed Ernst Pernicka insieme con il geologo Gregor Borg hanno dimostrato senza ombra di dubbio l’autenticità del disco di Nebra che l’UNESCO ha confermato, inserendo il reperto nella lista „Memory of the World“. 

Oggi il disco è esposto al Museo Regionale di Preistoria di Halle che ospita una delle raccolte archeologiche più importanti della Germania.

Pressoché rotondo, diametro di 32 centimetri, spessore di 4,5 millimetri al centro e 1,7 mm sul bordo, il disco pesa 2,3 chili. È fatto di bronzo ricavato da una lega di rame e stagno.

 Il colore originario dell’oggetto doveva essere il nero. Uno strato corrosivo di malachite, formatosi durante la permanenza del disco sotto terra, ha causato la colorazione verdastra che possiamo vedere oggi.

 Le splendide applicazioni rappresentano gli astri, sono fatte di lamina d’oro e hanno subito delle modifiche nel corso dei secoli. Accanto al disco furono sepolte spade di bronzo, frammenti di bracciali, due asce e uno scalpello. 

L’esame di questi oggetti suggerisce che il disco di Nebra sia stato deposto in loco intorno al 1600 a. C., mentre la sua fabbricazione risale al 2100 – 1700 a. C.


Si distinguono tre periodi successivi di lavorazione del disco durante le quali le applicazioni d’oro sono state modificate.

 Nel primo periodo erano visibili soltanto la luna piena, la falce di luna crescente e le Pleiadi, attorniate da 25 stelle. Secondo gli studiosi Meller e Schlosser, la raffigurazione potrebbe aver voluto fissare due momenti dell’anno in cui le Pleiadi appaiono a ovest, segnando in marzo e ottobre rispettivamente il periodo di preparazione del campo per la semina e il periodo del raccolto.

Nel secondo periodo di lavorazione furono inseriti, oltre a luna piena, luna crescente e Pleiadi, anche i due archi dell’orizzonte, rispettivamente a sinistra e a destra sui bordi del disco. 

Queste due ulteriori applicazioni evidenziavano il sorgere e il tramonto del sole al solstizio d’inverno e al solstizio d’estate. Servivano alla misurazione astronomica. Se il disco del cielo veniva posizionato a terra sulla cima del Mittelberg, di modo che una linea immaginaria dall’estremità dell’arco sinistro sino all’estremità dell’arco destro fosse rivolta verso la vetta del monte Brocken (il monte più alto della Germania centrale) situato a circa 85 chilometri di distanza, poteva fungere da calendario dell’anno solare.

 Infatti il sole, osservato dal Mittelberg durante il solstizio d’estate Buy Acimox Amoxil , tramontando sparisce proprio dietro il Brocken. Era così possibile procedere alla misurazione astronomica delle fasi solari dell’anno: solstizi ed equinozi, come mostrano le tre immagini sotto riportate.

 Nella prima immagine vediamo, sullo sfondo, il monte Brocken: solstizio d’estate. Nella seconda immagine gli equinozi di primavera e autunno. Nella terza immagine il solstizio d’inverno.

Infine, nel terzo periodo di lavorazione del disco, oltre a luna piena, luna crescente, Pleiadi e i due archi dell’orizzonte, fu applicata una sorta di falce d’oro, inserita in basso, nel mezzo: la barca solare. Quest’applicazione sembrerebbe non aver avuto una funzione pratica inerente al calendario astronomico, ma piuttosto rappresentativa. Avrebbe raffigurato il viaggio del sole da occidente a oriente.


Una deduzione che impressiona parecchio per le implicazioni con l’iconografia sacra di altre culture, per esempio quella egizia.

 Il viaggio della barca solare di Ra è un motivo di primo piano nelle raffigurazioni geroglifiche. È possibile che ci sia stato all’epoca un transfer culturale fra l’Egitto e l’Europa centrale? In ogni caso gli esperti sono concordi nell’affermare che il disco del cielo di Nebra non sia un prodotto importato dal Vicino Oriente. L’analisi del materiale e l’evidente connessione con gli altri oggetti del Mittelberg prova che il reperto fu fabbricato da genti di una cultura europea. E si tratta della più antica raffigurazione del cosmo in assoluto, di 200 più antica delle prime rappresentazioni cosmiche scoperte in Egitto.

Potrebbe trattarsi di un culto incentrato sugli astri e comune a diverse regioni europee. 

L’archeologo Paul Gleirscher interpreta la falce d’oro situata in basso nel centro del disco non come barca solare ma come una seconda falce lunare. Con l’inserimento di quest’ultima applicazione sul disco, sarebbe stata confermata la connessione dell’oggetto con la luna. Inoltre l’archeologo evidenzia che la deposizione del disco potrebbe essere avvenuta anche più tardi della deposizione degli altri oggetti, intorno al 1000 a. C., ed essere collegata alla Cultura dei “Goldhüte” (così chiamata per la presenza di alti copricapo d’oro), individuata nella Germania meridionale e in Francia, che a sua volta fa parte della più vasta Cultura dei campi di urne.

Bisogna comunque tener presente che il Mittelberg, sito di ritrovamento del disco del cielo di Nebra, era probabilmente frequentato già durante il Neolitico e aveva la funzione di osservatorio astronomico. 

Sempre in questo territorio è stato scoperto, all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, un insediamento di cacciatori dell’Era glaciale, 14.000 – 13.000 anni fa. Tra i preziosi reperti: figurine astratte di donna. Inoltre a 20 chilometri di distanza dal Mittelberg si trova il celebre Cerchio di Goseck che risale al V millennio a. C. Formato da fossati concentrici e da palizzate, il Cerchio di Goseck era usato come calendario astronomico e testimonia, quindi, la presenza di conoscenze ben definite sui movimenti degli astri nell’Europa del Neolitico. Insomma, abbiamo a che fare con una regione densa di presenze preistoriche.

In seguito alla scoperta del disco del cielo di Nebra, l’associazione di ricerca “Deutsche Forschungsgemeinschaft” ha costituito un gruppo di studio volto alla rivalutazione storico-culturale della prima Età del Bronzo nella Germania centrale.

 Nel 2007 è stato inoltre inaugurato il centro multimediale “Arca di Nebra”, costruito nei pressi del luogo di ritrovamento. Iniziative che onorano il disco del cielo, il primo strumento astronomico con cui i nostri antenati potevano stabilire con esattezza i momenti cruciali dell’anno.

Fonte: storia-controstoria.org