lunedì 17 giugno 2019

Il posto più stretto della terra è un ponte delle Bahamas che divide l’oceano dalla laguna


Quel lembo di terra che esisteva un tempo ormai non c'è più da tempo. 
L'arco di pietra naturale è stato spazzato via dagli uragani, ma oggi, nello stesso incredibile punto, è possibile ammirare una meraviglia della natura, grazie allo zampino dell'uomo. 

Siamo alle Bahamas, e stiamo parlando del Glass Window Bridge, la stretta striscia di asfalto che divide l'oceano Atlantico dall'azzurrissima baia di Eleuthera.


Eleuthera è una delle isole dell'arcipelago corallino dell'America Centrale e ha una forma molto allungata e sottile, proprio come il ponte che unisce le due parti dell'isola, creando uno spettacolo maestoso.
 Questo è il punto più stretto dell'isola e non a caso l'istmo è anche considerato il suo punto più vulnerabile.
 In 130 anni, il Glass Window Bridge è stato ricostruito, o anche solo rattoppato, innumerevoli volte.
 E si è anche guadagnato il titolo di «posto più stretto sulla Terra».


La vista più spettacolare dell'istmo è sicuramente dall'alto. Ma anche attraversarlo a piedi, in bicicletta o in macchina ha il suo perché. 
Tutt'intorno, fra le rocce, la marea crea delle impensabili piscine naturali. 
Ma a colpire di più è sicuramente la differenza dei colori: il blu intenso dell'oceano increspato a contrasto con il turchese della placida baia corallina. 
E quando un'onda più forte delle altre s'infrange sulla scogliera, l'Atlantico si tuffa in laguna e la doccia è assicurata, così proprio come lo spettacolo.






Le coste di Eleuthera variano da spiagge sabbiose o di piccoli sassolini a grandi affioramenti di antiche barriere coralline. 
Tutto il versante ovest si affaccia sul Grande Banco delle Bahamas, regalando meravigliose lingue di sabbia finissima che dal color bianco virano sino al rosa.
 Uno scenario completamente diverso da quello offerto dal versante oceanico, nonostante a dividerli siano una manciata di rocce che via via si perdono sotto la foresta tropicale. 


 Fonte: lastampa.it

sabato 15 giugno 2019

Gli antichi pozzi a gradini dell’India che stanno scomparendo


I pozzi a gradini, chiamati anche kalyani o pushkarani, bawdi o baoli, barav o vaav, a seconda della zona dell’India e a seconda della lingua parlata, sono pozzi e laghetti di raccolta per l’acqua piovana o scavati per raggiungere le falde del sottosuolo, a cui ci si accede grazie a scalinate.

 Lo scopo principale per cui si svilupparono fu ovviamente quello di avere sufficienti riserve idriche nei periodi di maggiore siccità. 

Pare che storicamente la costruzione di pozzi a gradini sia iniziata nella regione meridionale di Gujarat (India) almeno dal 600 d.C, poi si diffuse anche a nord nello stato del Rajasthan, per raggiungere il suo culmine dall’XI al XVI secolo.

 La maggior parte dei pozzi a gradini esistenti risalgono agli ultimi 800 anni. Ci sono, però, indizi che potrebbero essersi originati molto prima, e loro precursori possono ritrovarsi nella civiltà della valle dell’Indo.


Scavando in profondità, occorreva creare un sistema di scale che facilitasse l’accesso al pozzo, sia per le persone che per gli animali. Alla base del pozzo di poteva godere anche del sollievo alla calura indiana, ancora maggiore se il pozzo era coperto. 
Fu così che attorno ai pozzi a gradini, che divennero luogo di riunione sociale e cerimonie religiose, si sviluppò un’incredibile e complessa ingegneria architettonica che li rese esempi affascinanti di come si possa unire alla funzionalità, un’estetica mozzafiato.






L’utilizzo dei pozzi a gradini conobbe l’inizio del suo declino sotto il dominio britannico, che considerandoli non sufficientemente igienici, li sostituì con l’installazione di reti idrica a tubi e pompe. Così i pozzi cominciarono ad essere gradualmente abbandonati dalla popolazione e molti andarono perduti, distrutti dall’incuria e dall’abbandono.
 Di conseguenza, anche le attività sociali e religiose che avevano luogo in questi posti andarono perdute per ordine delle autorità britanniche. 
 Nonostante oggi ne esistano ancora diversi, molti dei quali in pessime condizioni, e alcuni di questi monumenti a cielo aperto siano tornati ad assolvere la loro funzione originaria a causa dell’accentuarsi delle siccità dovute al riscaldamento globale, il loro destino appare segnato.


La giornalista Victoria Lautman ha trascorso quattro anni in India per fotografare e documentare i pozzi a gradini, nella speranza che la popolazione si riappropri dei pozzi prima che sia troppo tardi. 

Il suo lavoro è stato pubblicato sull’Enciclopedia Britannica e su diverse testate di prestigio internazionale.

 Fonte: zoomma.news

giovedì 13 giugno 2019

Una ricerca svela il segreto delle zanne micidiali di un pesce abissale, l'Aristostomias scintillans


Un abitante delle profondità oceaniche con il corpo allungato, da anguilla, e la bocca costellata di denti acuminati ha svelato agli scienziati uno dei suoi formidabili segreti: quello che rende le sue fauci invisibili alle prede.

 Il killer in questione è l'Aristostomias scintillans, un pesce della famiglia delle Stomiidae chiamato "drago di mare" per il barbiglio che penzola vicino alla sua bocca (una sorta di barba dalle proprietà tattili).




Questa creatura, che popola i fondali della California fino circa a 1.000 metri di profondità, ha organi bioluminescenti sulla mandibola inferiore e lungo il corpo: con i segnali luminosi attira le prede, ma non è un abile nuotatore, perciò adotta una strategia predatoria più complessa.

 In un articolo pubblicato su Matter, i ricercatori dell'Università della California di San Diego hanno dimostrato che la struttura della dentatura dell'A. scintillans rende le sue zanne praticamente invisibili agli animali di cui va ghiotto.


I suoi denti, come i nostri, sono fatti di uno strato di smalto esterno e di una polpa interna a base di dentina (un tessuto osseo).
 La differenza è nella struttura: i nanocristalli di smalto sono disposti in modo da impedire a ogni frequenza luminosa che dovesse raggiungere le profondità oceaniche di riflettersi sulla superficie dei denti. 
La bocca risulta così invisibile: l'A. scintillans rimane fermo nella colonna d'acqua, in attesa che le prede lo raggiungano. 
Inoltre, i nanocristalli conferiscono alle zanne una resistenza maggiore di quella dei denti di super predatori come il piranha o il grande squalo bianco.

 «Inizialmente pensavamo che i denti fossero fatti di un altro materiale ancora sconosciuto - hanno commentato i ricercatori - ma poi abbiamo scoperto che sono fatti della medesima "pasta" dei denti umani: idrossiapatite e collagene. 
Stessi blocchi costituenti, ma in diverse scale e gerarchie.
 La natura è meravigliosa, nella sua ingegnosità». 

Al di là dell'interesse biologico, la scoperta potrebbe portare alla messa a punto di nuovi materiali sintetici, trasparenti e resistenti allo stesso tempo.

 Fonte: focus.it

mercoledì 12 giugno 2019

Porto Flavia: l’incredibile scalo in Sardegna a metà fra il mare e il cielo


Può capitare di fare un giro barca nelle acque cristalline attorno al Pan di Zucchero, e restare sorpresi, alzando la testa, di trovarsi di fronte un inaspettato porto. 

Sì, alzando la testa, perché la banchina di questo strano approdo si trova a metà di una parete rocciosa a picco sul mare, proprio di fronte al faraglione-simbolo della costa sud occidentale dell’isola.


Potrebbe sembrare una follia quella costruzione di cemento con inciso il nome Porto Flavia, e invece era un’opera ingegneristica di avveniristica concezione, quando venne progettata agli inizi degli anni ’20 del secolo scorso, e lo rimane tutt’ora. 

 Porto Flavia era un’infrastruttura che serviva l’area mineraria di Masua, concepita per abbattere i consistenti costi di trasporto dei metalli estratti. 

 Fino al 1924, quando venne completato il porto, i minerali venivano trasportati a spalla, in grandi ceste di vimini, fino alla spiaggia di Masua, dove venivano caricati sulle bilancelle (piccole imbarcazioni a vela), per approdare al porto di Carloforte, a una trentina di chilometri di distanza. 
Nuovamente scaricato a mano, il materiale veniva stivato in magazzini o direttamente sui mercantili in attesa.
 Per completare il carico di una nave potevano essere necessari due mesi, se il tempo era avverso e le bilancelle (che spesso affondavano) non potevano navigare, ma anche in condizioni di mare favorevoli non occorreva meno di una settimana. 
Senza considerare i costi in termini di fatica umana, con i marinai addetti al trasporto che lavoravano senza riposo e con bassissimi salari.

 Nel 1922 le miniere di Masua passarono in concessione alla belga Sociétè de la Vieille Montagne, che chiese al direttore di escogitare una soluzione per ridurre i tempi e i costi del trasporto. 

Cesare Vecelli, ingegnere di origini venete, la trovò la soluzione, e che soluzione! 
Vecelli studiò le coste nei pressi di Masua finché non trovò il luogo perfetto: le scogliere a picco sul mare di fronte al Pan di Zucchero. Il mare era profondo e sufficientemente protetto dal vento e dai marosi, così i minerali potevano essere caricati direttamente sui mercantili.




Per realizzare Porto Flavia, che l’ingegnere dedicò alla figlia nata da poco, furono scavati due tunnel sovrapposti lunghi 600 metri, collegati da nove silos di stivaggio.

 Nella galleria superiore arrivava un trenino elettrico che portava i minerali, scaricati nei serbatoi per gravità; in quella sottostante, un nastro trasportatore riceveva il materiale, sempre per gravità, e lo trasferiva alla piattaforma di carico, sotto la quale aspettava la nave.


Il porto divenne operativo nel 1924 e consentì alla società belga di ridurre i costi in maniera consistente, quasi del 70%. 
C’è da dire che Vecelli fece anche in modo di garantire condizioni di lavoro più umane, e un salario meno misero, ai tanti operai che lavoravano a Porto Flavia. 


 L’impianto perse d’importanza negli anni ’60, con il calo dell’attività mineraria, e fu chiuso negli anni ’90.


Oggi rimane come preziosa testimonianza della storia mineraria della Sardegna, e dell’ingegno di un uomo che ha progettato un porto a metà tra mare e cielo. 

 Fonte: vanillamagazine

martedì 11 giugno 2019

Il Colosso dell’Appennino , l'incredibile scultura del Giambologna


«Giambologna fece l’Appennino / ma si pentì d’averlo fatto a Pratolino» 

 Con questa rima anonima rimasta celebre, fu commentata la gigantesca opera che il Giambologna creò in quel di Villa Demidoff, originariamente Villa Medicea a Pratolino in provincia di Firenze. 
Certo sarebbe stato molto difficile trovare una montagna di pietra nel centro di Firenze da scolpire con le fattezze dell’incarnazione allegorica dell’Appennino. 
Il colosso è infatti alto più di quattordici metri e se fosse stato fatto in un posto più facilmente visitabile, sarebbe stata una delle meraviglie rinascimentali tra le più conosciute al mondo.


Fu voluto da Francesco I° de Medici e realizzato dall’artista fiammingo nel suo soggiorno fiorentino.

 L’amore tra Giambologna e Firenze o meglio per la corte dei Medici, è testimoniato dalle altre opere , sempre di fattura considerevole che lasciò nella città: “Il Ratto Delle Sabine”, “Firenze Vittoriosa Su Pisa”, “L’Architettura”, “Ercole E IL Centauro”, Venere”, “L’Oceano”, “Apollo”, “Astronomia” in bronzo, “San Luca”, il famosissimo “Mercurio” e molte altre.


“L’Appennino” è un’ opera particolare all’interno della sua produzione, non solo per la grandezza ma anche per la complessità architettonica.
 Sembra in realtà che lo stupendo gigante sia stato costruito con materiale riportato artificialmente in loco, cemento, pietre, laterizi, ridotto in parte nel 1600 sul retro, dove fu realizzato un magnifico drago da Giovan Battista Foggini.



Dalla base dell’enorme scultura, si aprono delle camere organizzate su tre piani.

 Gli ambienti erano in principio riccamente decorati con fontane, pitture, statue, mosaici, il tempo li ha deteriorati e un recente restauro ha cercato di riportarli per quanto possibile alla vista.

 Nell’ ambiente denominato “grotticina superiore”, è stata poi ricollocata la statua in marmo detta “Venerina”.


Nonostante la mole notevole dell’opera, il Giambologna non smentisce i suoi criteri estetici, il gigante è infatti proporzionalmente funzionale e bel modellato nelle anatomie, complesso nella posa incline a dare vita o nascondere anfratti, aperture, collegamenti con altre masse scolpite. 

 L’Appennino posa accovacciato, prendendo la forma appunto di una montagna, con la mano poggiata sulla testa di un enorme serpente dal quale sgorga una fontana, dal getto che si tuffa nel lago davanti.




Racchiuso tra la gamba allungata all’indietro e il braccio destro, sorge, dalla schiena, quello che resta della montagnola originaria, sovrastata dal drago ad ali spiegate.


Sotto, si aprono due passaggi per entrare nelle grotte interne dei due piani, infine tramite ripidi scalini, si arriva all’altro vano al centro della testa, dove si trovano ancora i resti di un camino che, acceso avrebbe fatto uscire il fumo dalle narici.

 Progetto ambizioso ed enigmatico, complicato anche da una serie di canali idraulici serviti ad alimentare le numerose fontane interne, si pensa sia stato costruito come maniero di caccia o come rifugio, comunque come luogo isolato e segreto.
 La presenza della piccola statua di Venere, potrebbe farci pensare alla possibilità dell’essere stato concepito come alcova per furtivi incontri amorosi.


Dall’aria di possente, gigantesco vecchio, il “Colosso Dell’Appennino” veglia sul lago artificiale posto in luogo dell’originaria fontana e, ricoperto di escrescenze fatte ad arte, sembra essere sorto dalle acque come l’omonimo monte che si è eretto un tempo sopra il Mediterraneo.


La Villa Medicea di Pratolino, oggi Villa Demidoff, era un capolavoro dell’arte rinascimentale decantata dai contemporanei per la grandezza, la quantità e la qualità delle opere che racchiudeva.
 Nel tempo, molte statue sono state trasferite, alcune in musei, altre nel Giardino dei Boboli, altre vendute.


Il “Colosso Dell’Appennino”, ci si incastonava come una immensa gemma preziosa, tra un esteso giardino contornato da 26 statue antiche sul davanti e un labirinto d’alloro che si estendeva sul retro. 
Descritto come magnifico all’epoca della costruzione, mantiene intatta la sua bellezza anche oggi, ma possiamo solo immaginare la grandiosità di quello che fu l’insieme di tutto il parco al tempo del suo massimo splendore. 

 Fonte: mcarte.altervista.org

lunedì 10 giugno 2019

La Sagrada Familia di Barcellona ottiene i permessi di costruzione dopo 137 anni


La costruzione della Sagrada Familia di Barcellona è iniziata 137 anni fa, ma la basilica, simbolo di Barcellona, ha ottenuto i permessi di costruzione solo oggi.
 Il consiglio comunale ha assegnato la licenza al comitato incaricato di terminare la costruzione del tempio cattolico: lo ha riferito ai giornalisti Janet Sanz, responsabile della pianificazione urbana.

 Le autorità hanno scoperto solo nel 2016 che l’edificio che attira milioni di visitatori ogni anno non aveva mai avuto il permesso di costruire da quando la costruzione iniziò nel 1882. 
Sanz ha detto che il consiglio è finalmente riuscito a “risolvere un’anomalia storica della città, che un monumento emblematico come la Sagrada Familia non ha un permesso di costruzione, che è stato quindi costruito illegalmente”.


Secondo il comitato incaricato di terminare la costruzione della basilica non ancora completata, Antoni Gaudi aveva chiesto al municipio di Sant Marti, un villaggio ora assorbito a Barcellona, il permesso di costruzione nel 1885, ma non ottenne mai una risposta. 

Circa 137 anni dopo, la costruzione è finalmente legale.
 Il nuovo permesso di costruzione afferma che la basilica sarà completata nel 2026, con un’altezza massima di 172 metri e un budget totale di 374 milioni di euro.











Progettata da Gaudi, il celebre architetto catalano, la Sagrada Familia è stata nominata patrimonio mondiale dell’Unesco nel 2005. 

La costruzione, finanziata esclusivamente da donazioni e biglietti d’ingresso, si concluderà nel 2026, in coincidenza con il centenario della morte di Gaudi, che perse la vita investito da un tram. 

La basilica è il monumento più visitato di Barcellona, con 4,5 milioni di persone nel 2017, e una delle principali attrazioni turistiche del Paese.


 Fonte: lastampa.it

venerdì 7 giugno 2019

Pietre di Ica: cosa sono e che origine hanno le misteriose incisioni?


Si tratta di oltre 15 mila pietre di andesite, una roccia ricca di silicati tipica delle Ande, che furono collezionate dal medico Javier Cabrera Darquea a Ica, in Perù.
 Cabrera ricevette la prima pietra incisa come regalo di compleanno nel 1961. 

Molte di queste pietre recano incisioni che mostrano uomini e dinosauri, ma anche attrezzi che qualcuno assimila a telescopi, bizzarre macchine volanti e strumenti per pratiche chirurgiche assolutamente avanzate per l'epoca.






Molti scienziati le hanno studiate, e la maggior parte di essi fa risalire le pietre a 12mila anni fa (informazione che si ricaverebbe dallo stato di ossidazione delle superfici incise): per quanto riguarda le incisioni, si ritiene che si tratti semplicemente di falsi, realizzati anche alla buona, usando trapani da dentista. 
A che scopo? 
Rivenderli come souvenir ai turisti (e uno dei produttori avrebbe anche confessato). 


 C’è però anche un filone minoritario che crede alla misteriosa veridicità di queste pietre.
 I membri di una spedizione archeologica spagnola ha infatti affermato di aver trovato alcune di queste pietre non al mercato nero, ma in un contesto di scavo, e di averle datate attorno a 100 mila anni fa.

 Un po' di mistero, dunque, almeno per adesso rimane... 


 Fonte: focus.it

mercoledì 5 giugno 2019

Come sarà la nuova Notre-Dame?


Un raggio di luce che tocca il cielo di Parigi, una brillante fiamma dorata, un tetto con la struttura a diamante, un altro trasformato in giardino... benvenuti nel fantasioso mondo di architetti e archistar che si sono già sbizzarriti a proporre le loro nuove Notre-Dame. 


Dopo l'incendio del 15 aprile 2019, che ha distrutto il tetto medievale e la guglia ottocentesca progettata dall'architetto Eugène Viollet-le-Duc, il presidente Emmanuel Macron ha preannunciato un "concorso internazionale di architettura" per il recupero della cattedrale metropolitana di Parigi, dichiarando di non avere pregiudizi nei confronti anche di "un'idea architettonica contemporanea", anche ardita.
 Così, da settimane, nei siti dei più prestigiosi studi di architettura al mondo scorrono le immagini di ipotetici restauri.


Per l'architetto italiano Massimiliano Fuksas la nuova guglia di Notre-Dame dovrebbe essere in cristallo Baccarat ed essere sempre illuminata, per essere un faro nella notte. 

Il francese Mathieu Lehanneur propone invece una fiamma stilizzata in fibra di carbonio, alta 90 metri, a futura memoria dell'incendio.


Altri progetti puntano sul vetro, come quello dell’architetto russo Alexander Nerovnya, docente al Moscow Architectural Institute, che ha disegnato una copertura simile a un enorme diamante con al centro una guglia dal sapore gotico. 

 Ancora vetro nel progetto dello studio di architettura AJ6 (San Paolo, Brasile) che vorrebbe per il tetto e la guglia vetrate colorate come quelle che hanno reso famosa la cattedrale, per gettare sui fedeli fasci di luce di mille colori.


Decisamente suggestiva la proposta dello studio slovacco Vizum Atelier: una torre lunga e sottile che proietta un fascio di luce nel cielo di Parigi, mentre pare (a noi) un po' troppo ardita l'idea dello studio Kiss The Architect, che ha immaginato la guglia come una scala a chiocciola, con pedane sospese tra sfere e gradi archi.


 Altri progetti sembrano più attenti all'ambiente, per esempio quello del francese Clément Willemin, che vorrebbe trasformare il tetto della cattedrale in un giardino a cielo aperto «dedicato a tutte le specie di animali e piante che stiamo cancellando dal pianeta, poiché l'amore per la natura e il desiderio di proteggere l'ambiente sono preoccupazioni che uniscono tutte le persone come una sola religione», ha affermato descrivendo l'idea.


C'è infine il progetto dello Studio Nab di Parigi: una enorme serra a fare da tetto, a fare da guida a progetti di formazione per persone in difficoltà, con una guglia di vetro per ospitare gli alveari: le api, infatti, sono sempre state di casa a Parigi, soprattutto sul tetto di Notre-Dame. 


 Di tutto ciò, che cosa ne pensano i francesi?
 Se lo è chiesto il quotidiano Le Figaro con un sondaggio: ad oggi, il 55% dei francesi vorrebbe che la guglia tornasse alla forma che sono abituati da sempre a vedere. 
Chissà come finirà. 

 Fonte: focus.it